23/02/10

Malamorenò

di Lobanowski 2

Domenica 21 febbraio, Marcianise-Foggia 0-0

Può scoppiare in un attimo il sole / Tutto quanto potrebbe finire / Ma l’amore, ma l’amore no.


Il manifesto fluorescente, giallo e verde, salta agli occhi: Il Real Marcianise ha bisogno di te! La salvezza passa dal Progreditur! “Saremo in mille – promettono i dirigenti – per l’assalto al Foggia”. Del resto: “Per noi è una finale”. Qualcuno dalle parti nostre si diverte a far vibrare la stessa voce grossa: “anche noi saremo mille!”. Mìne nu lùcchele e fuitìnne. Teniamo i fili della discussione telefonica. La fronda s’apre nel plotone romano: “16 euro e 50 per il biglietto non abbiamo nessuna intenzione di cacciarli!”. Perché quello è il danno a cui, sparando cifre a tre zeri, ci si riferisce. La salvezza del Marcianise passa anche dalla felicità del cassiere. È una discussione vecchia come il mondo. Solo in gruppo la reiteriamo da due anni: Le regole sono quelle che sono, il calcio non è bene indispensabile come il pane e la salute. Se non vi va di tirar fuori i soldi, bene. Avete il dovere di arrangiarvi, purché non si accampino tesi sul diritto costituzionale ad entrare, che imbarazzano per infantilismo. “Ma fuori non vi fanno mica stare, a protestare contro la modernità”. È inutile frigare: aldilà del giusto e dello sbagliato, senza tagliando non si entra. Non siamo nel ’92. Pensateci prima. Ci pensano.

Anche i prati rinunciano ai fiori / Perché i fiori hanno perso i colori / Ma l’amore, ma l’amore no.

170km, quasi tutti in autostrada. Non un gran danno, né una levataccia. Comodi, lavati e vestiti per le 11. Un tiepido sole oltre i rigori dell’ultimo inverno. No ai Sabaudi, Pupo mercenario! Bandiere e aste finiscono in una macchina, la pezza nell’altra. Cerchiamo di stare vicini. Manca una sola persona, ma non siamo sgarbati e la lasciamo dormire il sonno del giusto. Davanti allo Zaccheria si radunano le due curve. Qualcosa ci dice che non saremo mille. Del resto, al sabato erano stati venduti cinquanta biglietti per il settore ospiti del Progreditur (“…ma che veramé si chiama così lo stadio?”). Alle 11:30 si parte. Chi c’è, c’è. In carovana su via Ascoli, il curvone, la statale. La campagna di Capitanata, la voce di Vasco Rossi, una domenica mattina che si illumina. I foggiani si conformano alle proprie superstizioni geografiche. Figli morali della transumanza, della mena delle pecore, puntano con facilità al Nord adriatico, ma hanno sempre difficoltà a considerare l’Ovest. Il West e il Far West campano. Del resto: la natura ci ha dotato di un intero pezzo di Appennini per poter ignorare quel che c’è dall’altra parte. Per poter chiudere gli occhi sui vicini. Al momento di entrare in A16, sotto la mole imponente di Candela, ci rendiamo conto di possedere un patrimonio di 14 euro, frutto di qualche sperequazione, di ardite manovre finanziarie. Vanno investiti, nel nome superiore del consumismo. Bisogna uscire dalla crisi, far girare la moneta. Sfiliamo dinanzi al chiosco dei sottolio, ignoriamo il vino. C’è la piazzola dei pullman col bar aperto. Non dovremmo dare nell’occhio se perdiamo cinque minuti per una bottiglia di Borghetti. Al volo. Del resto: potremmo accelerare nel prossimo tratto e recuperare lo svantaggio. Con somma sorpresa, invece, la sosta è collettiva. Sfila il solo Nicola, che non s’avvede, e diventa avanguardia del movimento. “Salve”, “Salve”, “Quanto viene una bottiglia di Borghetti?”, “Una bottiglia? No, non posso venderla”, “Perché?”, “Perché no, non si può”, “E allora ci fa otto Borghetti?”, “Certo”, “Me li mette in una bottiglia di plastica?”, “In una bottiglia? No, non posso ugualmente”, “E su…”, “Dovrei chiedere”, “E quanto viene un Borghetti?”, “1 e 60”, “Quanto?”. Sin dalle prime battute, la trattativa si complica. Al bancone vanno e vengono i ragazzi che ordinano un caffè, pagano ed escono a fumare. La signora s’informa telefonicamente, ma non ottiene risposte certe. Poco alla volta – lo vediamo dal vetro – i componenti della missione rientrano nei furgoni e nelle macchine. Si avviano. Tutti. Siamo di nuovo gli ultimi, e la situazione non si sblocca. Entrano due infermiere in tenuta da lavoro. “Aiuto, sto male!”. Poi, alla buonora, la signora decide di metterci a parte di un segreto: in ogni caso, non ha bottiglie piene nella stiva. Si rumoreggia e si svuota coscienziosamente l’unico esemplare sullo scaffale. Escono giusto gli otto bicchieri paventati all’inizio, come un segno. Ci meritiamo un sostanzioso sconto. Beviamo da strani contenitori di yogurt. Entriamo in autostrada.

Il grande gioco dei contatti ad incrocio. Nicola si è perso, come l’Andrea di De André. Non sa dirci se quel deserto da cui è circondato ci preceda o ci segua. I furgoni lo hanno raggiunto e superato da un po’. I cartelli indicano Avellino. “Siete davanti a noi di venti chilometri”. I romani calano con una macchina. Ci fanno sapere d’essere a Caianello. “Uscite a Caserta Sud”. Affascinante. Alcuni ruderi di castello sulla destra. Dibattito serio: perché costruire una fortezza sulla collina più bassa delle tre? Le hit sanremesi cercano d’imporsi tra le curve in altura. Le onde vanno e vengono. Se è vero che chi vince non vende e chi perde non sfonda in radio, allora come giudicare Noemi e Malika Ayane? Lo svincolo. Oltre il casello, una colonna di mezzi sulla destra. I lampeggianti della polizia di scorta. “Quanti ne siete ancora?”, “Boh”. La colonna si muove. S’inoltra nel contado. La provincia di Caserta è una delle zone paesaggisticamente più fortunate d’Italia, ma lo scempio di costruzioni basse, di lamiere e immondizia, di depositi e capannoni alternate ad ambigue case in stile, ne fanno un monito allo squallore. Abusivismo che mi ricorda La città distratta di Pascale. Marcianise è contigua a Caserta, tanto da poterne essere un quartiere. Sbuchiamo in un vicolo. Davanti si notano le manovre di parcheggio. Un faro solitario ci indica lo stadio, dietro un paio di muretti. Sono le 14:15. È tempo di ricompattarci, di passare dai controlli. I documenti non servono, stavolta, ma c’è la perquisizione personale. Respingono la jolly roger. Il resto passa. Gradini in ferro, siamo in curva, senza ombra di dubbio. Ed è anche una discreta curva. Seggiolini per diverse file a strapiombo sulla traversa. A destra, un bel muro a mezzo metro dalla linea laterale. Di fronte, dietro l’altra porta, un reticolato anonimo. Sulla sinistra, una tribunetta vagamente riempita. Nell’angolo, una trentina di supporters locali, che brillano per la pessima scelta di due bandieroni. A quanto si narra, la curva che stiamo popolando oggi è in realtà la loro. Vivono un precariato insopportabile, questi, destinati alla tribuna ad ogni accenno di tifoseria ospite. La carica dei mille non c’è. Da una parte e dall’altra.

Il dolore può farci cadere / La speranza potrebbe sparire / Ma l’amore, ma l’amore può.

Le squadre sbucano dal reticolato. Nel solo riscaldamento, sono piovuti nel settore due palloni. Le pezze a ridosso della porta. Non siamo tanti, un centinaio. La stanchezza della categoria, certo, la posizione di classifica, ma qui ci giochiamo – calcisticamente – un bel pezzo di salvezza. Il turno sembra favorevole: il Potenza va a Verona, il Pescina a Taranto, la Cavese a Ravenna. Il terreno di gioco è pesante, con zone di fanghiglia impenetrabili come selve del Sud-Est. Ci accorpiamo. Primi cori secchi e battimani. Noi siamo qua / Sempre con te / Unica fede in tutto il mondo intero. I locali intonano qualcosa. Di tanto in tanto si fermano a guardarci. Altro pallone nel settore. Il Marcianise vuole i tre punti, e attacca. I nostri si difendono. I cori sono continui, un paio anche degni di nota. Ancora quelli secchi: Forza Foggia / Vinci per noi. Qualche goliardico sfottò di routine verso i padroni di casa, e quelli si imbizzarriscono. Li vedi muoversi, scomporsi, riunirsi per cantare sfottò. Oltre ad essere pochini, sono anche piccoli d’età. Ragazzini. I più anziani si dannano l’anima. La polizia si avvicina per evitare malori. Da noi si ride per la situazione, ma il sostegno non scende di tono. Poi i tutori raggiungono anche noi. E la baraonda che ne segue è uno degli spettacoli più originali della domenica campana. I tre carabinieri si allontanano salutati da quel coro sulla disoccupazione che dona pessimi frutti. Ricambiano il saluto. Il Marcianise è quasi sempre in pressione sotto di noi, ma non tira mai in porta. E poco alla volta, si esaurisce. I nostri avanti sono spesso in fuorigioco. I locali ci indicano e ci promettono sanguinosi regolamenti di conti. Noi decidiamo di dedicare qualche minuto del nostro tempo a ricordargli che non siamo napoletani. Alla fine del tempo, lo sfottò diventa hot-club. E la versione di “Storia d’amore” accalappia l’attenzione del pubblico. Dimentico finanche di fumare. Volevo salire in cima al settore per vedere cosa s’apriva aldilà del muro. Ma tra Celentano e Pozziello, ho rimosso. Mi informa Wikipedia, che il Pozziello in questione altro non è che il bomber locale. Diviene oggetto di derisione continuata per via di uno striscione che recita: “Aaah, come gioca Pozziello!” (accanto ad uno per un tale Falco e ad un terzo che recita “Solo per la maglia”). Pozziello, ma vedi come va, Pozziello, ma vedi se ne va, Pozziello, va sulla fascia, la mette al centro e Falco fa gol!

Nella ripresa si spegne il sostegno di casa. Noi rimaniamo costanti. Il Marcianise ha mollato. Come un messaggio cifrato, il loro primo tempo. Battimani a sorpresa. Oltre un grosso agonismo dei centrocampisti, questa squadra è una banda. Fa male pensare all’1-3 patito in casa. I nostri sono troppo leggeri per la fanga, ma poco alla volta vengono fuori. Lottano, si incitano a vicenda, si caricano. Accettano lo scontro con un Marcianise che si spegne anche su quel fronte, poco alla volta, come una luce di segnalazione nella nebbia. E così vediamo i nostri diventare sempre più grandi, in scala, per la mole di lanci e calci d’angolo che rasentano il settore. Altri due palloni in the box. La Umbro vende tanto, da queste parti. Fiutiamo la vittoria, e spingiamo. Il massimo sforzo, il massimo sostegno. Un palo, che intuisco dal rumore. Una traversa, che vedo a mezzo passo. Ad un nulla dai tre punti. Niente da fare, non si vince. Ma la squadra ci viene incontro ugualmente. Merita l’applauso. Io canterò / Ti sosterrò / Ovunque andrai Us Foggia. Si svuota il settore, si passa dalla linea di minor contatto coi locali, che inveiscono. “Chiamaci tuo padre, ragazzino!”. Fuori ci suggeriscono di stare “accorti”. Ma, a parte un ratto morto, non c’è anima. Una macchina spara musica napoletana. La fila rossonera si accoda, come una processione.

Cronache schiave di Tufino

Ugolotti potrebbe svenire / Capobianco fianche morire / Ma l’Uesse, ma l’Uesse no…

Il serpentone si perde nell’ingorgo della barriera di Caserta. Volti conosciuti, soliti sospetti e perfetti sconosciuti s’alternano di fianco al finestrino. Le file procedono sconnesse, su più piani. Un carnaio. Una riccia ci sorride. Il moto perpetuo del traffico ci separa da lei. Una curva, ricomponiamo il trittico d’auto che deve accompagnare Nicola al distributore di Avella. Puntiamo per Napoli, poi ci accorgiamo dello sbaglio ed invertiamo la rotta, quando le fauci del casello già s’erano spalancate. Dietro-front, con le auto che ci sfrecciano in senso contrario. Juan e Ceska non ce la fanno, e finiscono imbottigliati. Gli altri riescono ad imboccare la Salerno-Bari. Parte l’avventura del terzo tempo. La stessa che ci porterà a Baiano e verso l’interno, lungo villaggi allineati alla statale, di cui la statale stessa è l’attrazione principale. Sperone è in piazza per una sorta di carnevale fuori tempo massimo, che fa anche da festa patronale. Quella gente si affolla sul marciapiede della chiesa. Il santo uscirà, ma senza turbare il traffico. Il distributore è nei pressi di Avella. Qualche metro più avanti e si finisce in una specie di cono di buio. Le luci di una chiesa di sguincio, un bar. Ci fermiamo, per evitare di proseguire ad oltranza fino alle Colonne d’Ercole. L’insegna del circolo Jolly. Il barista seduto da solo a vedere un film su Rai Cinema c’informa che siamo a Schiava di Tufino. Un biliardino. Non ha mai fatto un Borghetti. Pensa sia il Baileys. Vuole 2 euro. Rinunciamo con sdegno. Una serie di Peroni da accompagnare alle birre cambogiane. Fuori, un silenzio da horror. Dentro, una sfida balilla che costa una bottiglia di vetro a terra e qualche smadonnamento legittimo del titolare. Secchio e straccio. Il Televideo ci comunica che il Potenza e la Cavese hanno strappato punti fuori casa. Si mette sempre peggio, ma non demordiamo.

E Fratena potrebbe segnare / E Ricchetti tornare a fallire / Ma l’Uesse, ma l’Uesse no…

15/02/10

Uno su 2mila

di Lobanowski 2

Sabato 13 febbraio, Ravenna-Foggia 0-0

Parere personale – La sensazione migliore, su tutte, è la notte quando rientri. Che ti stiri i muscoli, prendi i tuoi tempi con calma, ti muovi tra la tv e la finestra in una nuvola di fumo perenne. Guardi il letto e pensi – chissà perché – che te lo sei meritato. Che te lo meriti proprio. E quando c’è da regolare la sveglia sul cellulare, scrivi 11, ed è giusto così. Senza nessun tentennamento. Neppure uno come me si sente in colpa se decide di dormire fino a tardi il giorno dopo una trasferta. In fondo, pensi, me lo merito. Il fatto che un qualsiasi emissario incaricato da un ente altrettanto qualsiasi di indagare sui tempi morti della produttività, non capirebbe affatto il perché, non cambia di una virgola le cose.



Un continuo tira e molla. La prima trasferta in terra ravennate ha steso un bel po’ dei nostri. La crisi, ripetono tutti, ma il concetto comincia a stonare. Il fondo cassa è in balia di altre sostanziose spese e, lungimirante, già pensa che Portogruaro sarà peggio di una trasfusione. Insistiamo per il furgone, perché il furgone ha classe. Perché il furgone canta in autostrada. Ma capitoliamo dinanzi ai dardi dell’evidenza. Ridimensioniamo il plotone. Giuseppe lucida la macchina, non c’è alternativa. Notizie sconfortanti giungono anche dal distaccamento romano. Tono minore. In cinque, si parte in cinque. Appuntamento alle 7:30 al club. Una mezz’oretta prima da noi, per una Sambuca di incoraggiamento. Nel portabagagli anche il Borghetti di Davide, che compie gli anni a mezzanotte. Nevica in Emilia e in Romagna, ripetono da una settimana. Rinvieranno ancora. Persino Ugolotti ha dichiarato che spera di non fare un viaggio a vuoto. Pezza, bandiere, aste, panini con la frittata di zucchine e crauti, salsiccia e maionese tedesca (il must di Enzo, il nuovo trend che dilaga) si accatastano nel portabagagli. All’appello un pezzo, e non ci mettiamo molto a capire che mancherà per tutto il tempo. Stendiamo un velo pietoso e raggiungiamo il luogo designato. Giusto per vedere il resto della Sud partire. E provare ad accodarci. L’autostrada è libera, la prima sosta è psicologica. Poi fiduciosamente stabilizziamo il contachilometri sui 140 all’ora. Ma invano. Gli altri ci precedono e sono sempre più piccoli, finché non li ingoia l’orizzonte. Siamo in quattro. E attorno è sabato.

C’è fiducia. Del resto la squadra ha ben figurato contro la Ternana la quale, pare evidente, non meritava di vincere allo Zaccheria. Il Conte è calmo, quasi sedato. Vorrebbe approntare una scommessa volante, ma si è seduto sulla Gazzetta che non trova e non si da pace. Così si diletta con Sport Week. Ad intervalli regolari interviene per declamare perle di nessunissimo interesse: Romario in carriera ha realizzato 102 reti, alle Olimpiadi di Vancouver non c’è nessun atleta meridionale. Cose così. Dietro stanno larghi. Due calci al pallone e un gran gol sotto la station wagon parcheggiata sul retro dell’autogrill. Altro giro di Caffè Sport. Svegli, siamo svegli. L’adesivo nuovo nel bagno. Per fare Daspo, ci vuol Borghetti. Manco a dirlo. Pescara, Ancona, Marotta-Mondolfo. Quella linea adriatica scorre senza sorprese, senza scossoni emotivi. Rimini sembra ogni volta più vicina della precedente. Non c’è neve, anche se il clima è rigido. Usciamo per imboccare la Romea. È giorno lavorativo, del resto. Possiamo rifornirci ad un supermercato vero e proprio. La Riviera romagnola, il ristorante che si chiama Amarcord, la mezza palude. Optiamo per Cervia, per Campioni, per Ciccio Graziani, per una Conad. Sono le 12:30. Quattro ore da casello a casello. Una famiglia di siciliani accetta di buon grado i buoni-spesa che otteniamo in cambio di tre Bavaria grandi a 65 cent, un paio di bottiglie d’acqua e un altro Borghetti. Due chiacchiere sulle solite cose, il lavoro, il tempo, com’era una volta. Un fioraio ha una sciarpetta bianconera al collo. Sarà cesenate, pensiamo. Un signore attempato gli chiede il prezzo di un mazzetto di fiori gialli, risponde: “Dieci euro”. A Foggia con 5 euro te ne danno tre. Il Conte mi guarda: la sciapa è della Juve. Senz’altro. Il lungomare sbuca all’improvviso. Il mare d'inverno / è un concetto che il pensiero non considera, cantava Ruggeri. Pratiche abituali, primitive: distendersi, mangiare, bere, fumare. Ma prima pisciare. Alberghi chiusi / manifesti già sbiaditi di pubblicità. Speleologi. Nei meandri delle cabine, dei baretti di legno chiusi, degli stabilimenti balneari sigillati, c’è un mondo in cellophane. Che nasconde il mare privatizzato. Oltre le casupole, chilometri di spiaggia desolata. Ci sporchiamo le scarpe (le mie, oltretutto, nuove!) di sabbia umida. Ristorati, ci dedichiamo all’osservazione del circondario. Il Conte si risolleva. Una barista si lava le mani alla fontana. Partono le prime perversioni. Fa caldo. Una telefonata dagli altri: “Dove siete?”, “Sul lungomare di Cervia”, “Mmmocc a vuje!”. Mi chiama anche Antonio, che prova il sorpresone: “Non si gioca! C’è troppo sole!”. È tempo di andare. Ma senza sottovalutare i pericoli. “Occhio, ragazzi, che davanti al settore ospiti c’è il mercatino”.

Il mare d'inverno / è solo un film in bianco e nero / visto alla tv. La statale sbuca nel bel mezzo di una specie di risaia. Anche a Ravenna un tempo c’era, il mare. Svetta il campanile che si studia a scuola. Seguiamo i cartelli. Ormai conosciamo il percorso. Il parcheggio del settore ospiti è la solita riserva di facce note. C’è un brindisi in corso. Il tempo di mettere a fuoco i nostri. Abbracci e baci. I ragazzi della Nord, quelli della Sud che non abbiamo visto all’autogrill. Equilibrismo con bandiere, bicchieri di carta, lattine di birra, zaini. Una piccola colonna marcia verso il prefiltraggio. Dalle staccionate giungono voci. Non fanno entrare le aste superiori a centoventi centimetri, non fanno accedere in curva quelli che hanno il biglietto di gradinata, non si possono trascinare vessilli con simboli e colori non conformi col nero-rosso canonico, non si può indossare il cappuccio. Solite quadriglie dell’era Osservatorio. E, come sempre, in qualche maniera, alla fine passa quasi tutto. Perché il gioco è quello di negare per legge quel che si concede per favore, in modo tale da suscitare autentica gratitudine. Cosa che, ovviamente, è lungi dal palesarsi. La jolly-roger “istiga” e non entra. Torna in macchina, senza sapere perché. Nel piazzale spunta il cranio pelato di Angioletto. Altri saluti, altri abbracci. Requisisce la sua bandiera. I tornelli sono due. Dalle fessure di sinistra si intravede uno steward. Da quelle a destra una steward, occhiali da soli, capelli legati, jeans stretti e stivali da cavallerizza. Ci mettiamo in fila a destra. E non siamo soli. Il ragazzo prova a smistare un po’ di gente dalla sua parte, ma senza successo. Così chiede il cambio alla ragazza. L’amazzone accetta e passa a sinistra. L’intera fila si sposta a sinistra. Il tipo allarga le braccia. È il nostro turno. “Inseriscilo nella fessura”, chiede la ragazza. “Se ti fa piacere”, è la risposta. È un lavoro difficile, quello della steward. “Ciao, buon divertimento”, “Ciao”. E un capannello indugia a dispiegare i vessilli proprio alle spalle della tipa. Al bar, intanto, è festa. Qualcuno, dall’esterno della grata, alza e abbassa la saracinesca. Così, per vedere andare in pezzi il sistema nervoso dell’addetto alle bibite. 2,50 una birra. Saliamo le gradinate di metallo. Il Conte e Davide finiscono in parterre, e non sanno come uscirne. Noi ci mettiamo un po’ a sistemare la pezza. Una torcia. È ora di cominciare.

Dalla transenna fanno segno di stringere, di compattarci. Mi volto a fare una panoramica, non siamo pochi. Certo, ci sono tanti emigranti sulle cui ugole non sempre si può contare. Ma le prime linee, da sinistra a destra, sembrano decise. Le squadre spuntano da un tendone circense, proprio sotto di noi. Fiato sul collo. Di fronte si agitano diverse bandierine. Proviamo il coro secco. Al terzo ciak si gira la scena. Siamo in felpa. Sventoliamo. Cantiamo. Urliamo. Il Foggia sembra poco timoroso. Abbiamo raccolto 10 euro e li abbiamo giocati sul colpaccio, a 6 di quota. Ci crediamo, come sempre. Il repertorio comincia a dipanarsi. Enzo, che insieme agli altri sta seguendo Puglia Channel, ci incita via sms: “Cantate!”, intima. Uno in maglia bianca va al tiro, largo. Uno dei loro replica poco dopo, Bindi respinge. Partita tattica, dicono. Un bicchiere si rovescia al passamano, l’asta ferisce quello dietro di me, una gomitata versa la birra del vicino, Lo sai che chi non salta è uno sbirro provoca svenimenti. È un continuo: Scusa, scusa, scusami. Un settore dall’educazione ineccepibile. Intorno al 35’ partono i primi cori goliardici. Sembra Coppa Italia, sembra calcio d’agosto. Il primo tempo si esaurisce. E ci rovesciamo al bar a vedere la serranda fare su e giù pregiudicando lo stato psichico del barista. I bagni sono tetri. Nella ripresa attacchiamo da questa parte, sotto di noi. Mi torna in mente un gol di De Angelis a Castel di Sangro, con una cavalcata stile Berti, che ad ogni passo faceva venir giù la curva di mezzo gradino. La transenna riporta alla realtà. Coro continuato, prolungato, sfinente. L’ideale per rimettersi in carreggiata. Siamo meglio del primo tempo. Anche le lande alte cominciano a farsi sedurre dal bel canto. Il Foggia rischia, poi prende coraggio. Per cinque-dieci minuti coltiviamo l’idea della vittoria. E i cori si alzano di intensità. Poi la partita torna ad assopirsi, e noi ci dedichiamo alle new entry in top ten. “Questo è per i ragazzi del furgone”, dice il presentatore. Supertelegattone. E sulle note dell’onda di Piotta, il settore attacca Shalalala, shalalalala. Il Ravenna per poco non passa, ma Bindi si riscatta. Un’altra volta, Us Foggia! Una bandiera finisce nel gorgo e tocca recuperarla con una missione al limite delle possibilità umane. Un saluto ai salernitani, gemellati di quelli di fronte, ed uno alla squadra, mentre l’arbitro fischia la fine. Undici, undici, undici leoni. Abbiamo fatto il nostro, adesso tocca a loro. Spopoliamo.

Cronache romagnole

La statale 16 si avvolge del primo buio. Poco prima di Rimini, svoltiamo per Santarcangelo. Paese di quelli da cartolina, torre di guardia, castello. In alto ci arriviamo scalando. Non c’è anima viva. Gli zaini rovesciano il contenuto su una panchina, mentre in basso il paese si distende, apparentemente vivo e finanche illuminato. Fame, adesso si. Prosciutto e melanzane sott’olio. Lievi come i Marlene Kuntz. Nella zona bassa scopriamo che questo paese si trasforma in Rotterdam. Tra le vetrine e i lounge-bar sembriamo straccioni. Questi hanno un tenore di vita che manco il Lussemburgo. Un signore ci avvicina: “Siete stati a Cesena?”. Ci ha scambiato per crotonesi. “No, a Ravenna”. Fa si con la testa, ma non ha capito un cazzo. Si intuisce a distanza. Tifa Rimini, sostiene, ma ha mollato l’anno scorso. Pensa te cosa può fare una retrocessione. “Ma come? – prova a riportarlo alla giusta dimensione Giuseppe – Ma se siete stati anche in D”; quello ghigna: “Si, vabbé… però…”, “Beh, certo – incalza il nostro esperto, che ormai ha fiutato l’antifona – voi avete anche trascorsi in A”. Quello si illunina: “Infatti, hai capito”. Saluta e va via, convinto di aver giustificato la sua diserzione. Che il Rimini non sia mai stato in A è un dettaglio. Il tempo di scoprire che qui ci è nato anche un papa, che si recupera la macchina. In radio va Roma-Palermo. Ci mancano 450 chilometri. Alla fine ne avremo fatti 2mila per guadagnarci un punto. Va bene così.

02/02/10

La ritirata di Russi

di Lobanowski 2

lunedì 1 febbraio, Ravenna-Foggia (rinviata)

Cisco adocchia la cartina poi dice, no: Stiamo andando a fanculo! (883, Rotta per casa di dio)

Il casellante ha la faccia da caratterista del Drive In e le occhiaie rosse. Enzo gli sussurra: “Oh! Oh! Oh!” col megafono, come una specie di mantra fastidioso. Giuseppe tira sul prezzo. Quasi 30 euro per 500 chilometri di autostrada non si pagano a cuor leggero. Apro il finestrino e il vento gelido riempie l’abitacolo. Adesso dietro sono tutti svegli. Stiamo uscendo a Faenza e non sono ancora le 16 e 30. Mezz’ora d’anticipo sulla tabella di marcia. Si stiracchiano i muscoli, ci approssimiamo all’evento, che prima della partita – e ben oltre questa – si chiama reunion. Valerio e Angioletto ci hanno chiamato poco fa. Sono in stazione. Gli altri, i romani, li danno tra Perugia e Cesena. La neve a cumuli occupa la visuale ai bordi della carreggiata. Giuseppe cede e sta pagando. Il cellulare comincia a dimenarsi sul cruscotto. È Antonio. Rispondo sereno. Del resto c’è un tiepido sole e non abbiamo trovato intasamenti, abbiamo accantonato i dubbi della vigilia e le profezie dei gufi d’appartamento. La voce dall’altra parte sta chiedendo: “Dove siete?”, rispondo placido: “Al casello di Faenza”. Il tono si fa cupo e imperativo: “Fermatevi!”. Un interrogativo preoccupato mi si dipinge in faccia. Gli altri non possono vedermi, né intuiscono. “Oh! Oh! Oh!”. “Perché, Antò?”. E la risposta spazza con una raffica di realismo i banchi di speranza mal riposta: “Si va verso il rinvio”, “Cosa? E perché?”, “Non è ancora ufficiale, ma c’è la commissione in campo e pare che siano orientati a spostarla al 14”. Il mio dev’essere un ottimo silenzio prolungato. “Comunque fermatevi, vi chiamo io appena so qualcosa”. Clic. Fermatevi. Ma noi eravamo già fermi. Volevamo fermarci. Avevamo anche adocchiato il punto di ristoro: la Casa del Popolo di via Donati, traversa di via Oberdan. Dobbiamo riunirci e bere il Borghetti che ci siamo portati da casa, dare due calci al pallone, sudare, mettere le basi per una solida influenza e mangiare i panini. E scaldare i cori. Non chiedevamo altro che fermarci. La sbarra biancorossa si alza, passiamo lentamente. Mi giro e comunico la triste nuova: “La rinviano”. Ke-ghé?

Rewind. Faenza è stata scelta all’inizio della settimana. Una settimana lunga più di ogni altra. Una settimana di vigilia. Del resto: sono venti giorni – da quando Rai Sat ha comunicato d’aver scelto Ravenna-Foggia per il posticipo del lunedì sera – che giriamo attorno all’idea di questo viaggio. Abbiamo fatto tutto per bene, stavolta. Il furgone, le telefonate, le mezze giornate di permesso e malattia dal lavoro. La lobby dei disoccupati cronici ha preteso e ottenuto una partenza anticipata. Alle 10. Una fibrillazione al ribasso che per poco non ha imposto lo start all’alba. Poi le immagini della neve, copiosa, a traboccare da ogni schermo televisivo lungo l’intera domenica di disimpegno. E la ridda di voci e conclusioni. Tutti a consultare il meteo. Su Ravenna è previsto sole. Certo, la temperatura potrebbe scendere a 4 gradi sotto zero, la strada è satura di ghiaccio, potrebbero volerci le catene. Ma non dovremmo rischiare. Abbiamo finanche trovato un sito con tanto di webcam piazzata su Piazza del Popolo. Si vede l’asfalto lucido e il cielo bianco, ma non ci sono precipitazioni in corso. Ci sono signori che passeggiano e pattuglie del 113. A sera, qualche passante sotto i portici. Ravenna non sembra Las Vegas, ma neppure Helsinki. E la webcam fa più audience di Don Matteo. Il pullman del Foggia è rimasto cinque ore intrappolato tra Fano e Rimini. “Ma c’era un camion di traverso”. Niente a che vedere con la neve. Si gioca, si gioca sicuro. Allora bandiere e pezze, zaini e vettovaglie finiscono nel bagagliaio. E con una sola mezz’ora di ritardo – a oggi un record! – usciamo dalla città e imbocchiamo la circonvallazione. Dopo il casello parte la compilation: Aeroplano che te ne vai. In alto le mani. Fuori la voce.

A Vasto si sosta per la prima volta. Spunta il pallone. C’è ottimismo. Non che la partita conti tanto in se per sé. Certo, ci giungono sms che aggiornano sulla spesa che l’Uesse sta effettuando al mercato di riparazione. Qualche commento ci scappa. Ma la vera adrenalina è quella che deriva dall’immaginarci lì, sulle tribune di ferraglia, coi riflettori accesi, a cantare a squarciagola, a sventolare le nostre bandiere. E il freddo glaciale, così come la posizione in classifica e le scarse possibilità di fare risultato, non fanno che acuire la voglia d’essere lì. Danilo spara sopra la traversa dell’autolavaggio e la palla si perde nelle vigne. Poi è di nuovo mezzeria. Ancona, il Conero, e le prime fiancate innevate seriamente. “Qua l’ha fatta proprio”, sentenzia Giuliacci. Gli alberi sono scheletri bianchi e neri. A Pesaro scatta la battaglia. “Oh, bambini… adesso ci fermiamo. Ma non fate che appena scendete vi fiondate sulla neve. Non facciamo come se non l’avessimo mai vista, la neve”. Lo scontro è feroce, ma si limita a qualche scambio. La Scocca sentenzia: “Uagliù, evolvetevi!”. E il suo è più un grido disperato contro la corruzione dei costumi che un semplice, bonario rimbrotto. Rimini ci scorre accanto. Non c’è ombra di rallentamento. Autostrada deserta al confine del mare, sento il cuore più forte di questo motore. Gli ultimi chilometri volano. Cesena, Forlì, Faenza. Il casello. Il casellante ha la faccia da caratterista del Drive In e le occhiaie. Ma questo l’abbiamo già detto. Ma quanta strada per rivederti ancora…

Non diamoci per vinti, manca accora l’ufficialità. Gli altri, che sono partiti ad un orario meno folle del nostro (e comunque prestissimo), sono circa cento chilometri dietro. Li abbiamo sentiti un’oretta fa. Li abbiamo finanche rassicurati sul tragitto che avrebbero trovato. Adesso ci dicono che ci sono poche speranze di vederla, la partita. Il nove posti sembra vagare tra rotonde e viali alberati. Per qualche minuto si perde anche in centro. E nessuno sembra conoscere via Oberdan. Seguiamo le indicazioni per il campo sportivo, quasi come la scia di una cometa. Il parcheggio ghiacciato della tribuna. Con la speranza ridotta ai minimi termini. Via Donati è la seconda a destra. Abbiamo recuperato i due emiliani d’adozione. Uno sciame pensoso attraversa la strada principale, si incunea nei viottoli. Case basse. Nessuna Casa, nessun Popolo. Un vecchio ci garantisce che abita lì da quindici anni e non ne ha mai visto una. Eppure su Google ci sono addirittura le foto: un ampio porticato, tipo oratorio. Ma quello dice no no e noi non abbiamo nessun portatile, nessuna chiavetta usb, nessuna connessione wireless. Solo un liso pallone a pentagoni tradizionali che slitta sul ghiaccio, come una coperta di Linus. Ultimo brandello della nostra fiducia. Chiamiamo un secondo gruppo nella speranza che possano, chissà come, comunicarci un contrordine, o che non sappiano nulla di nulla e ci contagino con la loro spensieratezza. “Noi? Abbiamo fatto inversione a San Benedetto. Stiamo tornando indietro”. Lo stesso i romani. È ufficiale, dunque. Non c’è neppure bisogno di leggere l’sms che fa vibrare il cellulare. Avanguardia perduta nella neve nel bel mezzo dell’assalto che si pensava vincente. Fossimo partiti all’una, avessimo aspettato Mattia all’uscita del cantiere… Invece: “Presto! Partiamo presto!”, abbiamo ripetuto per quindici giorni. E adesso siamo qui. Macchine ferme, uno stadio innevato, un parcheggio gelato, il Borghetti quasi finito. E una luce come di locanda, una taverna di Betlemme. Circolo bocciofilo per pensionati A.Pancrazi. Servono Segafredo, garantisce l’insegna. Sostiamo pensosi. Tornare a Foggia adesso non esiste. Per il denaro speso, certo, ma anche perché comunque siamo in dodici. Un buon numero per passare una serata a 500 chilometri da casa. E poi a noi di questa partitella continua a non fregarcene un cazzo. Giuseppe si appropinqua. La Scocca entra deciso. La barista esce e ci invita ad entrare: “Dai, per una bevuta non c’è problema!”. Tepore. Tavoli, bancone, anziani. E la sfida. Spartak Faenza vs Dinamo Fidenza. “Voi chi siete?”, “I tifosi ospiti”. Dai Fidenza dai, non mollare mai.

Il resto è un carsico dibattito sugli esiti, un tuffo nelle strade provinciali, l’ingresso a Ravenna col buio, anche se sono ancora le sei. L’indicazione per il settore, le camionette dei carabinieri. “Che cercate?”, “La partita”, “Quale partita?”, “Non c’è una partita?”, “No che non c’è… non vi hanno detto niente?”, “No, mannaggia, e adesso?”, “Siete tutti di Foggia?”, “Si”, “Foggia-Foggia”, “Si”, “Nessuno di San Severo?”, “No”, “Io sono di Severo”, “Noi no”, “Ci avevano detto che i gruppi organizzati erano stati tutti avvisati”, “Ma noi non siamo organizzati”, “Siete nove?”, in dodici rispondono: “Si”. Insomma, questo è il settore. Qua dovevamo arrivare. Qua siamo arrivati. E c’è ancora un resto del resto. Un’appendice di serata che parla di improvvisate e fraintendimenti pericolosi, di recriminazioni, chiacchiere e movimento, di Jegermeister col ghiaccio e saluti alla prossima; di piazze larghe, razionaliste e vuote. Di panini e bottiglioni di vino infranti. Di retromarce azzardate e di stazioni coi bagni chiusi. Di treni per Rimini che partono alle 21:54 e altri saluti, altri abbracci, altri alla prossima. In 57 secondi netti la seconda e la terza fila del furgone piombano in un sonno più simile alla paralisi e alla morte. Tranne Daniele, dormono tutti già al porto fluviale. A Lello cominciano ad accendersi spie sul cruscotto della salute. “Ti senti stanco, Giusé, vuoi che guidi io?”. No, no, è tutto a posto.

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