16/08/13

L’illusione ottica


Mercoledì 14 agosto 2013, Foggia-Atletico Madrid C 3-0

Che nessuno osi sottilizzare. Complicare ciò che è semplice. Rendere barocco l’elementare equilibrio della stanza. Sul biglietto c’è scritto così. Atletico Madrid. E basta. Nessuna ulteriore specifica. Nessun alveare informatico. Nessuna ramificazione. Foggia-Atletico Madrid. Tre a zero per noi. Non si discute. Il Ferragosto. Qui da noi è festa patronale in seconda. L’Assunta e i Sette Veli. Il culto mariano e le bancarelle. Tutto ti devono i foggiani. La processione sfiduciata e il galluccio, i pistacchi, le fave secche, i lupini. Il palco a Piazza Cavour. Mi è sempre piaciuto. Passeggiare in centro, tra Corso Cairoli e Piazza XX Settembre, la mattina del Quindici. Quando tutto sembra fremere di preparativi. Quando il selciato è vitrea ipotesi dei passi che lo batteranno. E mi piace tornarci, sempre a piedi, la mattina del Sedici. Quando la fiumana è passata ed ha lasciato gli strascichi di un esercito in frettolosa ritirata. Come mi piaceva, un tempo, la mattina del Primo gennaio, vagare come un alchimista tra i segni della notte dei fuochi, ai margini dei marciapiedi. Il nostro Ferragosto. Il Ferragosto dei foggiani che criticano il Ferragosto e non possono farne e meno. Stigma d’appartenenza e ansia di diversità. La comunità che si fa famiglia, si rovescia in strada e si scazzotta in piazza. Ultimi scampoli di un’estate lunga e sfibrante che comincia a fine maggio. Con gli ultimi play-off, coi terminali play-out. A me ricorda quella canzone di Venditti. Miraggi. Quella che parla di avventure sulla spiaggia, di falò e di incontri impossibili da ipotizzare nei mesi che non sono questi. Tu stai correndo con me. Questi giorni. Odorano dell’inchiostro del Corriere dello Sport, questi giorni. Di copiativa che trascolora. Dal calcio mercato alla nuova stagione che bussa alle porte. Sono questi, i giorni in cui tutto è possibile. È solo un sogno d’estate. L’amichevole di lusso. I fari dello “Zaccheria”. Quel che credevi impossibile, che ora si avvera. A settembre ci sono le solite. Il Cosenza, il Messina, la Casertana. Come un tempo vi erano Cosenza, Messina e Casertana. Nei giorni che fanno da corollario al Quindici Agosto, invece, ho visto il Nottingham Forest. Da ragazzini, sulla piattaforma dell’Orto, pronunciavamo quel nome esotico e glorioso ogni volta che altri ragazzini ci chiedevano: “Come si chiama la vostra squadra?”, e i miei chiamavano me, che ero l’unico depositario di quel segreto quasi impronunciabile. “Nottingham Forest”. Finì 2-2. Stavamo per affrontare il secondo anno di B, quello della promozione. Giocammo anche col Lecce, quell’anno. Vincemmo 2-0. E la Dinamo Mosca in quel di Campobasso? Tre a uno per noi. Per non parlare della Durum, origine e apice delle nostre notti incredibili e possibili. E poi l’Udinese di Asamoah. Il Danubio di Montevideo, campione d’Uruguay. È questo obliquo oscillare che rende amabile questo periodo dell’anno. Questo senso di imponderabile che trasuda negli interstizi della quotidianità. In campionato sai chi sei, con chi ti batterai. Sai persino dove e quando. Durante la preparazione, tutto è avventura. Dal ritiro alla presentazione della squadra, può accadere ogni cosa. Ora sono qui e non immagino neppure che, per uno strano giro di giostra, tra dodici mesi avrò visto il Millwall in ritiro in Umbria e il Leeds United in serale. E, a differenza della vita ordinaria, qui nessuno può farti una linguaccia e prenderti per illuso. Per un buffo credulone. Perché davvero, nessuno sa. E tutto può essere. Quando si è sparsa la voce dell’amichevole con l’Atletico Madrid, la densità di sogno, di bisogno di sognare, di questo popolo, ha rotto gli argini dell’immaginazione. Masi l’aveva annunciato in tv. A Madrid non ne sapevano niente. E la satira, il cinico disilludersi collettivo che sta a questa gente radicata al suolo come l’assenza di ali all’iguana, ha sbeffeggiato la comunità dei fessi che ci avevano creduto. Senza contare che, a volte, le due categorie – sognatori del prima e sbeffeggiatori col senno di poi – si sovrappongono. Ma, giacché la processione si vede quando si ritira, in fondo al barile c’era del vero. Non solo della fezza. Un Atletico era effettivamente in viaggio alla volta della Capitanata federiciana. La terza squadra, per la precisione. La cantera. Dei bambini, in sostanza. Dal florido avvenire, certo, ma pur sempre delle creature. Eppure, né i manifesti in strada, né i tagliandi Bookingshow, facevano accenno a questa lieve differenza. In fondo, come per il Palermo primavera affrontato a Sturno, le maglie quelle sono. Quindi, Foggia-Atletico Madrid. Senza contare che, nella capitale spagnola, il sito ufficiale annunciava l’incontro come il duro impegno della giovanile contro una squadra della serie B italiana. In sostanza, nessuno ha compreso chi ha mentito a chi. Forse nessuno. Le illusioni della bella stagione non sono mai menzogna. Fatto sta che alle 20:45 i bengala illuminavano la Sud, le torce la Nord. E i rossoneri a righe strette sfilavano sul tappeto verde con i bianco-rosso-blu spagnoli. L’illusione ottica di quell’Europa che, da sempre, sospirando, crediamo di meritare. A giusta ragione. Nelle sue fattezze concrete e plastiche. E non come un sogno di mezza estate. Tre a zero per noi. E ora andate a ricorrere alla prima squadra.

Quest’anno, poi, non hanno fatto neanche i fuochi.

12/08/13

Esistenziale



Lacedonia, 11 agosto 2013, Foggia-AF New York 3-2

L’ultimo tornante prima del casello immette in un rettilineo breve e sconnesso. Il casello si finge pianura e lascia intravedere il lungo serpente grigio-alabastro dell’A16. Un’icona per i figli dei dipendenti delle Autostrade S.p.A. che ricevevano a casa la rivista ufficiale dell’azienda pubblica e partecipata. Innamorati delle strade, dei viadotti che scavalcano le voragini, come dei locomotori e dei vagoni la prole dei ferrovieri. Ticket. Adesso, si, possiamo cominciare a chiedercelo. Con un filo di fiato: Che ne sarà di noi? Ultimate le pratiche dell’estate da ritiro, lasciata alle spalle la promiscua bellezza intimidente di questa ennesima vallata d’agosto, a centocinquanta all’ora sulla corsia di destra, possiamo dare fiato ai dubbi del pensiero. Che faremo noi? Noi, che questa maglia ci rende fieri e ci commuove alle lacrime, che ci basta sapere che metteremo su ruote il nostro adolescenziale amore per essere felici nuovamente. Noi, quella brutta gente dei gruppi, inebetiti dalla bellezza abbacinante di scorrazzare tra i campetti e i bar del Molise e dell’Irpinia. Storditi da una possibilità che era prassi e che adesso sembra concessione. O furto di marmellata dalla credenza. L’abitacolo è uno scriptorium. La speranza è l’ultima a morire, ma nel frattempo sentiamo il fegato friggere. Tra qualche giorno l’Acd Foggia calcio, ora Srl e ripescata tra i Pro, si presenterà ai suoi tifosi – che poi saremmo noi, che già la conosciamo – in un’amichevole di bigiotteria con la terza squadra dell’Atletico Madrid. Ma basta dire “Zaccheria, ore 20:30”, per rinfrescarci la memoria su quanto ci piacciano i fari accesi e per sentire profumo del grande evento. Poi sarà la volta dell’Arzanese, in Coppa Italia. Vincere, pareggiare o perdere. La solita storia, da sempre. A quel punto non potremo più parlare di speranze. Sarà reale. Ci vieteranno Caserta. E le vacanze precampionato saranno ufficialmente finite. Come corridori che, a suon di curve ascendenti, di aria a gonfiare i polmoni, di entusiasmo e birra tra lo sterno e il fegato, non si rendono minimamente conto di quanto sia diventata stretta la strada, di quanto sdrucciolevole sia stato reso il sentiero. Finché non devono inchiodare. La balla di fieno è nel bel mezzo del percorso obbligato. Non c’è verso di aggirarla. E bestemmiare, protestare o piangere non la sposterà di lì. Che ne sarà di noi, della nostra infantile felicità, quando ci renderemo conto che non basta far finta di niente per smaterializzare gli ostacoli? Sarà l’ennesima ordalia dell’innocenza. Che, tra l’altro, è diventata parte della nostra vita. Da quando, alle medie, ci si accorge che non è sufficiente fingersi invisibili per evitare l’interrogazione in Geografia. Che ne sarà di noi? Non lo sappiamo, o forse lo sappiamo fin troppo bene. Guardiamo il contachilometri. Siamo già a Candela, davanti a noi altre macchine di ritorno da Lacedonia, piene di brutta gente dei gruppi. E in cima alla fila, un Agnello sacrificale che, seduto alla destra del Padre, non riesce ad infilare il biglietto nell’apposita fessura. A volte la vita è stronza. Semmai fosse presente un bacillo di timidezza, in quel pover’uomo alla berlina – sommerso dai clacson e dagli strepiti, soccorso da una specie di steward delle Autostrade privatizzate e meccanizzate – a quest’ora avrà già fatto reazione chimica, come l’olio nell’acqua. O il cherosene nella fornacella. La barra biancorossa si alza. Il Timido ubriaco passa, e sembra che anche la vettura barcolli. Due macchine e tocca a noi. La superstrada per Foggia. Chissà se, il giorno del giudizio, l’iracondo Signore ci mostrerà – a mo’ di consuntivo da Guerin Sportivo – il totale dei chilometri percorsi in vita. Adoro le statistiche. Qualche rado volatile parlante taglia il silenzio pensoso. Come i fenicotteri rosa alle Saline. È l’ultima volta che seguiamo il Foggia fuori casa, quest’anno? Non pensiamoci. Ancora per qualche giorno.

L’ultimo tratto del serpentone grigio-alabastro dell’A16 lo si fa scalando le marce. Mezz’ora di percorso netto, da via Mazzini a qui. Svolta a destra. Il casello di Lacedonia ci immette in un breve rettilineo sconnesso. Per la prima volta in vita nostra ci chiediamo dove sia il paese. In lontananza si vede Sant’Agata. Ma null’altro, qui attorno, fatta eccezione per una vallata luminosa e intimidente, le lunghe stilizzate pale eoliche e le balle di fieno (daje!). I cartelli dicono sempre dritto. Poi si comincia a salire. Corridori in sospensione, all’ultima corsa. Il Foggia gioca alle 17. Manca ancora mezz’ora. Ma il paese non c’è. Il nostro proverbiale ottimismo si riduce ad un nucleo di idealismo striato. Giochiamo contro gli americani. Una squadra di New York. Semipro. Allenata da un foggiano. “Che ci fanno gli americani a Lacedonia?”, “E perché, in Iraq?”. Le case ci sorprendono nell’apnea, come se non ce le aspettassimo ormai più e ci fossimo rassegnati a vagare. Un benzinaio. Si, dev’essere questo il paese. O una suggestione collettiva. Chiediamo ad un ragazzino del campo sportivo. È sempre bello dire “campo sportivo”. Sa di terra e odora di legno e cemento. “Stadio” non odora di niente. Quello ci dice di andare sempre dritto. Che, in questo paese a spirale, equivale ad un puro eufemismo. In sostanza, andiamo a destra e a sinistra a fasi alterne, pedinando la strada che ci fa strada e spalanca le case ai due lati. Come un romanzo (o un amplesso), il paese raggiunge un climax, poi decade. Il campo è in fondo alla scarpata, dall’altra parte dell’intreccio, o dell’orgasmo. C’è gente. Mancano venti minuti. Campo sulla destra, poi sulla sinistra. In mezzo, lo sapete. Si torna in centro. Il primo bar è un bar per fighetti. Olè. Adoro il pregiudizio quando s’erge sul raziocinio e ne fa carne da porco. Parcheggiamo in un viottolo. Dentro, il locale è spazioso e tendente alle tonalità scure di un lounge-bar. Dove siete, osti di tutte le valli? Chiediamo una quantità di cose anomale. Tipo: una rossa alla spina, una bionda 0,40, un espressino con un accenno di cacao, un donut e un latte freddo. Il tipo dietro al banco è professionale ma flemmatico, dice il vigile urbano vigile ma grasso. Ci sediamo fuori, sotto gli ombrelloni. Da qualche ora non è più San Lorenzo, ma tra un po’ da questo stretto, latteo budello in centro, l’Osservatorio astronomico ha previsto il passaggio dei foggiani. Automuniti, milite esenti, e con le facce indignate di chi ha fatto tardi. In noi – orrore! – si fa largo l’idea di aver pagato un prezzo ragionevole. Allora, per permettere al pregiudizio il suo meritato colpo di coda, ci diciamo tra noi che è “impossibile” che questo abbia le Peroni in bottiglia. I foggiani passano. Noi alziamo i boccali per salutarli. Quelli accelerano. E il Flemmatico non solo ha le Peroni. Ma le vende a 1 euro. Mentre l’acqua vale 50 centesimi. Lo abbiamo giudicato male, dalla facciata. Abbiamo confuso il popolare col brutto. Abbiamo assecondato lo stereotipo borghese che la comodità sia fri-fri. Impariamo qualcosa che non metteremo mai in pratica. Ma è stato bello lo stesso, sognare.

Gli Americani sono spocchiosi, riccastri figli di papà, wasp dei campus. È così. E se anche non lo fosse, non ci interessa. Non siamo venuti a Lacedonia per smantellare tutto quello che abbiamo sempre pensato senza alcun fondamento. E oggi devono perdere. Nessuno spirito amichevole. Sono così, quelli. Fingono di esserti amici e poi ti riempiono di portaerei. Quindi, il Foggia in maglia rossa è un segno del destino. Avanti! Affondiamoli! Quando riemergiamo dalla tessitura degli striscioni e delle pezze, è da poco passato il ventesimo. I venditori di tappeti al viale della stazione ci mettono di meno a issare la bancarella. Perdiamo 1-0. L’ho visto il gol di quel fottuto imperialista. Il tifo. Qui ci vuole il tifo. I battimani sono belli. Non siamo tanti come a Sturno, ma siamo più che sufficienti. Cantiamo. Fino al pareggio, che non ci basta. E finché non ci mettiamo in testa di imparare un coro nuovo. Che poi non è nuovo per niente. C’è una squadra che di gioia impazzire mi fa. Dieci minuti filati. Gli scolari si applicano, ma il coro è un rondinone che non spicca il volo. Ce la farà, certo che ce la farà. Nel frattempo, i quadranti degli orologi da polso fanno tendenza. È una marcia militare. Il Foggia ha preso le contromisure a questi dannati. Guadagna spazio. Loro applicano i dettami del loro mister, che essendo di Foggia avrà avuto come modello assoluto il Sant’Anna che giocava dove adesso sta la piazza: il portiere deve essere portiere, poi i cessi in difesa, i quasi forti a centrocampo, e i forti avanti. L’unica punta porta il numero 5. Le mezze-punte sanno stoppare. I centrali di difesa sono degli efficaci scarponi. E i suoi colori sono quelli di questa città. Bugia. Ma il Foggia segna nel recupero. Adesso si. E chiedete scusa per Sigonella! Un’allegra pipì tra i campi, come ai tempi del Pascoli. E poi in macchina, a risalire i tornanti, verso le birre. “Ma com’è – chiedo ad un ragazzo sull’uscio del bar che ci sembrava fighetto – che nessun paesano tuo ha pensato di mettersi fuori dal campo con la borsa frigo?”, “Perché qua sono fiscali”. La Svizzera a due passi da casa. Quando torniamo, il Foggia è sul 3-1 e si è mangiato un rigore. Questa cosa ci addolora. Non bisogna prendere sottogamba gli impegni. Non bisogna avere pietà, che questi alla prima occasione ti chiudono le ambasciate. Le Peroni girano di mano in mano. I cori sono alti. I bandieroni sventolano soddisfatti e impettiti. È sempre bello. Noi non pensiamo a niente. È meglio. E, come volevasi dimostrare, gli Americani accorciano le distanze e per poco non pareggiano. E meno male al cielo che l’arbitro fischia, salvando i rossoneri da una contestazione nazional-popolare che avrebbe ripercussioni sul quadro dell’Alleanza Atlantica! Squadra sotto la curva, rituale di festa tribale. Ci vengono pure gli Americani. Ehm. E va bene, dai, un applauso anche a loro. Che tanto, chi li vede più. Stacchiamo le nostre cose. Pacche sulle spalle, saluti e baci. Alle macchine. Chi torna in città, chi al mare. Sono le sette. La sera è ancora lontana. Stanotte cadono le stelle. Che ne sarà di noi?

08/08/13

La penultima scampagnata


Mercoledì 7 agosto, Sturno (Av), Foggia-Palermo primavera 1-1

Ci eravamo già stati. Un paio di anni fa, che sembrano un’altra vita. La stagione di Bonacina e quella di Vespasiano sono, nella nostra memoria, scolpite negli stessi anfratti. Dati sovrapposti. Vuoi realmente sostituire il file? All’epoca, millenni orsono, giocammo contro la rappresentativa locale. E svernammo velocemente in un bar nella parte bassa del paese, a due tornanti dal campo sportivo. Niente di particolarmente rumoroso. Se non il ricordo di un periodo cupo, marchiato a fuoco dal post-Zeman, dalla Tessera del tifoso, da Casillo, dai mesi di divieto assoluto che vanno dal Flaminio a Santa Maria Capua Vetere. L’intero arco di due stagioni complete. Che muovere su Trivento fu l’apice. Ci torniamo. Con uno spirito diverso. E un’inquietudine latente, che guadagna metri nell’animo come nel football americano. Già. Perché Sturno è la terza amichevole del secondo Foggia di Padalino. E, per la prima volta in tanti anni di ritiro, le abbiamo potute seguire tutte. “Che belli i ritiri vicini”. Perché si gioca col Palermo primavera, che non sarà la prima squadra ma ha le maglie identiche, che mettono in moto un po’ di associazioni. Perché siamo in tanti, sulla linea dell’autostrada e sotto un sole implacabile. Però, non facciamo finta di niente, in settimana siamo stati promossi. Ufficialmente “ripescati” in Lega Pro. In C2, si sarebbe detto ai tempi belli. Che poi, ripescati non è il termine giusto. Perché noi non siamo mai retrocessi in serie D. Eravamo salvi in C1, sul campo, e solo il fallimento di chi sappiamo ci ha scaraventato nel girone inferiore di questi inferi che durano da quattro lustri almeno. Quindi, a rigor di logica, la Lega ci ha restituito meno della metà di ciò che ci spettava. Ma non è quello. È che queste facce qui, questa gente che gioca a sorpassarsi tra il casello di Lacedonia e quello di Vallata, hanno in fondo all’iride la consapevolezza che il ritorno tra i Professionisti – mentre da un lato rappresenta una vittoria sportiva della nostra squadra del cuore, dall’altro… – è il ritorno sulla scena di tutto quanto odiamo. E che in quarta serie era più sfumato. L’obbligo di restare a casa quando il Foggia gioca in trasferta. A Messina come a Gavorrano e a Poggibonsi. Facciamo finta di niente, ma qualcosa è cambiato. E il sospetto che l’amichevole di domenica prossima a Lacedonia possa rappresentare l’ultima scampagnata fuori porta, è una spada di Damocle sulle nostre teste accaldate. Ma per vivere bisogna ricacciare indietro i pensieri cupi. Quelli ci inchioderebbero, riducendoci all’inazione e all’immobilismo. Così, percorriamo i settanta chilometri di statale, A16 e provinciali, col sorriso ebete di un pupazzo gonfiabile e lo stato d’animo di un malato terminale in pellegrinaggio a Medjugorje. No, non Paolo Brosio. Non così gonfiabile. La carovana della Nord arriva giusto in tempo. Quindi in largo anticipo. A Sabrina non piace la pubblicità statunitense della nuova Fiat Cinquecento, la trova piena di stereotipi, e per l’indignazione decide di investire un’ausiliaria del traffico che prova ad suggerirci – a noi! – il parcheggio più idoneo. Quella, comprensiva, non dice niente. Noi ci parcheggiamo dove vogliamo. Cioè, dove c’è spazio. Poi una sfilza di maglie nere prende a salire la collina. Con una fatica non indifferente. Si, ce lo ricordiamo il campo. C’è pure il solito chiosco, che fa i soldi una volta ogni due anni. Dentro c’è già la Sud. E tanta gente, ai margini. C’è pure uno che riprende, uno che parla al microfono e uno che commenta le azioni salienti. Ma non s’è capito se poi quel che registrano se lo rivedono a casa loro, la sera, come le diapositive del mare. Il tempo di attaccare striscioni e pezze e siamo in action. Troppo in action per i trentacinque gradi all’ombra. Siamo dei maledetti forsennati. Tra cori secchi, cori ripetuti e battimani, sembriamo gli stessi di Pomigliano, quando ci giocavamo i play-off. In campo, il Foggia preme, ma i ragazzi del Palermo sembrano tecnicamente validi e quando verticalizzano fanno male (ah! Analisi tecnica!). Noi continuiamo per la nostra strada, senza soste e senza respiro. Una vita al limite dell’affanno. Girano oscure bottigliette d’acqua. Il mio cuore lo sai. Questa non è una corsa campestre, questi sono i tremila siepi. Batte solo per te! La rete si gonfia, il guardalinee annulla. Ladri! Così una selva di mani fissa l’uomo con la pettorina sulla linea laterale. E si scopre che c’avrà quindici anni. Ladri minorenni e sfruttatori del lavoro minorile! Il guardalinee in erba ci guarda, poi prende la pettorina e la consegna ad un attempato buontempone. Alt gioco. Alla fine del tempo, comunque, ci comunicano che il Foggia vince 1-0 lo stesso. Ottimo. S’era visto che esercitava pressione. La ripresa è da lavori forzati. Senza la goliardia di Agnone, spacchiamo pietre vocali. Il Palermo ha spazi. Il Foggia sembra stanco. Concede. Finché i rosanero non pareggiano. Il sole penetra nelle fessure del cranio. I cori che ne fuoriescono grondano latenza. Il tamburino esegue sonorità tribali. E, se dio vuole, la partita finisce. Un buon pari. La squadra sotto la tribuna sembra dispiaciuta. Umilmente, chiede quasi perdono per questi due punti persi. Vacillano le certezze. Non è manco Coppa Italia, questa. Ma qualcuno dovrà pur dirlo. Un’altra volta, però. Fuori. Il paese è chiuso. Sigillato. Per una birra, dice il pizzardone capo, bisogna scendere a valle e risalire. Lo faremo.  

Bobby Fred

Ci inoltriamo. In salita. La Chiesa di San Michele Arcangelo è una foto incassata nel muro. Quella originale è venuta giù nel terremoto dell’Ottanta. Quella ricostruita è una mostruosità evidente. La piazza è un saliscendi. Troviamo il nostro angolo, guidati come al solito dai tavolini rossi della Peroni. (Che per noi fungono da segnalazione nautica). Davanti a noi, il nonno del Tennis Club ha allestito il suo banchetto. Giocattoli. “Ma è festa patronale?”, domandiamo agli avventori del bar. “Domani”. E di cose così ne scopriamo altre. Tipo che a qualcuno Foggia sembra bella e pulita. E che lo scorbutico barista, intento a riprendere il figlio con la sua radiocomandata, tra un’oretta metterà su la brace. Sulla rotonda dinanzi alla chiesa, un palco annuncia serata musicale. E il Concato in sottofondo, da solo, non basta a giustificare il deserto umano che abbraccia la struttura. Noi, invasi da una stanchezza che rasenta la vecchiaia dello spirito, non beviamo con la stessa verve di sempre. Talune bottiglie da 0,33 volano al cestino non ancora finite (anche perché il figlio dello Scorbutico, finito di giocare con le macchinine, si mette a sparecchiare con zelo e predisposizione). E quasi sempre calde. Sigarette mai spente. E un tressette comprensivo con un signore che sorvola sul livello dei suoi avversari. Poi le casse diffondono La canzone del sole. E impazza il dibattito. Se la signorina sia una ricca borghese di facili costumi o, più facilmente, che il signorino sia un idiota. Proletario o no. Ferma, ti prego, la mano. Idiota. Il congresso vota il suo pazzo. Per quattro volte di fila. Vince sempre lui. Serpeggia diserzione. Arrivano i panini. Il monumento commemora gli eroi di Sturno caduti nelle guerre d’Italia. Sul basamento, una foto di gruppo del paese durante il fascismo. I fascisti in divisa sono otto. Un buon risultato. Attorno, facce di ventenni che sembrano cinquantenni. Visi affilati, particolari, identificabili al primo sguardo. Tre ragazzini seduti di fronte hanno la stessa faccia. Che inquietante meraviglia, la genetica! “Ce ne andiamo?”, “Si”, “Magari aspettiamo il primo pezzo del gruppo”. Ma il gruppo si fa attendere. Alle dieci, ancora niente. Serpeggia nervosismo. La piazza, nel frattempo, s’è animata. Forse perché è andata via la voce di Concato. Altro giro di birre. Il terzo.

Poi da una luce azzurra, da una gialla, e dall’assenza di un’ovazione, capiamo che i ragazzi sono in giro. Via, via, vieni via con me. Un Paolo Conte da piano bar, anni Ottanta. Ma pur sempre Via con me. Ci alziamo, andiamo sotto il palco. Ci guardano, ma è tutto sotto controllo. Non siamo molesti, né entusiasti al punto da risultare fuori luogo. E scatenare la ritorsione. Non perderti per niente al mondo lo spettacolo d’arte varia di uno innamorato di te. Intermezzo. Placidi, stiamo per salutare il paese. Quando, all’improvviso, non si capisce più niente. Enzo vede la luce. E, come un pastorello di Fatima, corre ad annunciarlo a tutti. I suoi occhi sono trapassati da lamine di laser, le sue parole sono confuse. Più del solito. Ci chiede di seguirlo, che dietro l’angolo sta succedendo qualcosa. Qualcosa di grosso. Arriviamo. E quel che vediamo è raggelante. Un corteo. Un trattore sospinge un trono rosso porpora. Davanti, di fianco e dietro al catafalco in avvicinamento, un gruppo di bodyguard con dei fucili di plastica. Il capo delle guardie del corpo avrà settant’anni. Sul trono, Bobby Fred. L’estroverso del paese. L’Estroso, come dice la moglie dello Scorbutico. Vestito da papa, con tanto di tiara e pastorale. A bocca aperta, fissiamo lo spettacolo. Sogniamo o siam desti? Il serraglio s’avvicina. Il papa benedice. La piazza ondeggia, lo adora. Decine di digitali immortalano il suo passaggio. “L’anno scorso è arrivato in carrozza”. Dev’essere come la Festa della Dea. Ci passa vicino. Ci dice: “Forza Palermo!”. Ed è lì che lo riconosciamo! L’abbiamo visto al campo. Quel soggettone sulla cinquantina e passa, coi capelli lunghi e gialli, con le lentine blu. Quello che si voleva fare la foto con Arnaldo! Pensavamo fosse un pazzo. Ma costui è un genio. Il suo corteo regale, la sua papa-mobile, sparisce in un viottolo, lasciando la gente ilare e soddisfatta, con un sorriso di beatitudine (e scampato pericolo) sulle labbra. Poi torna. A quel punto, a grandi falcate, decidiamo di fendere la piazza. Dobbiamo consegnare a Papa Bob la sciarpetta. Quella di Carmine, che nessuno di noi ne ha portata una. Arriviamo sotto il seggio del pontefice. Allunghiamo il vessillo come in Piazza San Pietro si allungano neonati. Una delle guardie del corpo afferra la sciarpa. La controlla come se fosse un cibo da assaggiare. Poi la gira al Papa Re. Che, senza pensarci su due volte, se la attorciglia attorno al collo. Il nostro applauso è fragoroso. Lo sguardo di Enzo è quello di Brosio. Quando ha visto la Madonna. O quando ha sgamato la moglie. “Forza Foggia!”, grida il Pontefice. Le guardie del corpo applaudono, la piazza li segue. È il tripudio. Un gol inatteso, che gonfia i cuori di gratitudine. Questo perfetto sconosciuto ci ha conquistati. Ma le sorprese non sono finite. Il soggettone non è solo un istrionico cabarettista situazionista. Muove verso il palco. Noi pensiamo: Oddio, oddio, oddio. Vuoi vedere che, vuoi vedere che. Si. Sale, con i suoi uomini in nero. Il settantenne lo annuncia, dopo aver minacciato di aprire il fuoco su tutti. Johnny Rotten della Bassa Irpinia. E lui guadagna il microfono. “Da oggi c’è un terzo papa”. E noi andiamo fuori di cotenna. Rock&Roll allo stato puro. Canta. Quell’uomo canta. Tre pezzi, suoi. Di cui uno in inglese. O in farsi, non s’è capito. E noi, coi nostri battimani, siamo il suo Fan Club. C’è dell’Elvis, nella sua impostazione canora. C’è del Toni Renis. C’è del Debord. C’è dell’Hannibal Lecter. Alla fine, il visibilio copre tutti. E lui saluta, per primi, “i giocatori del Foggia”. Che saremmo noi. La piazza si gira, festante. Le massaie ci fissano sorridenti ed incredule. Noi applaudiamo. Mentre Papa Bob comincia a snocciolare i paesi a cui tiene. Flumeri, Grottaminarda, Frigento. E “Foggia, nostri grandi amici”. Poi annuncia che la piazza potrà rivederlo tra quindici anni. E un attimo dopo risale, che ha dimenticato di ringraziare Sturno. Imbocchiamo la discesa con lo sguardo allucinato e il passo infermo. È successo davvero. E noi stavamo per andarcene.

05/08/13

Il suono delle campane


Agnone, 1 agosto 2013, Olimpia Agnonese-Foggia 0-2


Fosso. Avvallamento. Fosso. Crepaccio. Fosso. Tagadà.
Sabrina – perché da noi le donne non solo parlano, ma guidano pure! – pilota la festa di Sant’Anna sulla strada che ci ha consigliato chi sappiamo. Perché è così che funziona. Un compunto addetto alla logistica studia le mappe, la cartografia classica e quella satellitare, fino ad individuare il percorso di avvicinamento più idoneo, in base ai parametri della distanza e del tempo di percorrenza. Lo comunica agli altri già nei giorni precedenti. Gli altri accettano. Convinti. Poi, cinque minuti prima della partenza vera e propria, salta su qualcuno. E sbraita: “Chessò?”. Scuote la testa. E propone una strada alternativa. Anzi. Non propone. Fa passare per ingenua la gran massa. Indica un sentiero tra i boschi di conifere. Un acciottolato simile a quello che i tedeschi si trovarono davanti durante l’offensiva delle Ardenne. E porta a testimonianza un suo zio che, immancabilmente, o fa il camionista o “fa sempre questa strada”. Gli altri, quelli che avevano condiviso il percorso del cartografo ufficiale, accettano. Per non sembrare degli allocchi. Noi, alle due e passa del pomeriggio, eravamo ancora convinti che la Termoli-San Salvo e la deviazione verso Trivento, fosse la strada giusta. Ma un consesso di scettici ci ha canzonato. “Si va per Campobasso, poi Isernia, come se volessi andare a Roma”. Eh. Ma noi non stiamo andando a Roma. Stiamo andando ad Agnone.
Inutile puntiglio.
Soldati, siamo. Accettiamo. E a mezz’ora dall’inizio della sfida con l’Olimpia, come ciclisti al cartello dei dieci chilometri, ne mancano ancora trentacinque. E sono tutti così.
Curva. Fosso. Avvallamento.
La macchina saltella, agile e aggraziata come una gazzella inseguita da un licaone.
Agnone è quel paese spiaccicato sulla montagna. Seicento e passa metri sul livello del mare. E meno male che hanno edificato il viadotto nella vallata. Sennò sulle volute ascensionali ci facevamo vecchi. Fosso grande. Burrone. Avrai la festa di Sant’Anna da aspettare.
Ci siamo. Sguardo all’orologio. Le cinque. Il paese, seguendo frettolosamente delle precise indicazioni casuali e le macchine che ci precedono, finisce in una strettoia. Un paziente nonno ci suggerisce di fare inversione. A meno che noialtri non si voglia campeggiare in quel vicolo chiuso, godendo dell’aria fresca e catramosa del non avere vie d’uscita. Sento un coro dentro una bottiglia.
Ampio parcheggio. La tribuna. Un signore, all’ingresso, ha l’ingrato compito di chiedere un’offerta. Come in chiesa. E, proprio come in chiesa, le nostre facce sono mortificate. I nostri gesti, misurati. Il nostro peccato, mortale. Pazienza. Quando sarà la nostra ora, ci metteranno in conto anche questa sgarbatezza. Per ora, il problema non si pone. Sfiliamo in basso, magliette nere, tra la gente assiepata sugli spalti che ci osserva. Incontriamo altri foggiani. “Che strada avete fatto?”, “La Termoli”. Sguardi a metà tra il “te l’avevo detto io” e il “vafammocc a mamt” si intrecciano in un amoroso abbraccio. Ci sistemiamo. La partita è iniziata. L’Agnonese è una squadra di D. Come noi. “No, noi siamo ripescati”. Ah, beh. Il terreno di gioco è un tappeto. Liscio e comodo come al biliardo. “In Molise stann i sold”. Per questo non ci vogliono. Per questo vanno invasi militarmente. I primi cori. Timidi. Si tratta pur sempre di rompere la quiete. Di urlare nel silenzio. E non siamo così pazzi da farlo come se fosse la cosa più normale del mondo. Se uno urla per strada, quello è. Ci prendiamo gusto. Sentiamo svariate paia d’occhi addosso. La nostra diversità ci strappa sempre un sorriso compiaciuto. Ma dice: Amarti ancora? Si. E che senso ha “amarti ancora” e “fallo dolcemente”? Ma non dice “fallo”, dice “farlo”. Io ho capito “amarsi”. Vabbù, canta e basta. Senza fare troppe domande. Borghetti, Peroni e sherry. Lo sherry, e capì? Roba di lusso. È dolce, è sherry. Certo. Lo sherry amaro è un Petrus. L’arbitro ha dei capelli ambigui. Il Foggia gioca, e ci mancherebbe altro. Il primo tempo finisce zero a zero. Sparpagliamoci. Socializziamo. Sono bei posti, questi. Ogni volta, mi assale una nostalgia del non vissuto. Di tutte le vite che potevo essere e non sono stato. Campare qui, in una di quelle case del centro storico, con la finestrella sulla strada, le tendine tirate, una bottiglia di brandy e mezzo metro di neve a terra. Godermi il silenzio. È un delirio, ne sono conscio. Del resto, mi ricordo come fosse ieri quella volta che a Tolentino, Jordan chiese di scappare via, che un'altra sorsata di silenzio e sarebbe impazzito. Ci ricompattiamo. Mentre io mi soffermo su alcune storie Viennesi, il settore divampa. Ed è bello, ad agosto come a novembre, in piena estate come nell’inverno del nostro scontento. È spettacolo. Dai balli di gruppo alla squadra sotto la curva. Che poi non è una curva. Due a zero per noi. Raccattiamo le masserizie. E pure le scorze di melone di pane volate in campo. Speriamo non ci diffidino. Ma di questi tempi.

Il caso Agnone

 “Abbiamo tempo per una birra?”, “Si, per una birra si”. Una e basta, che c’è gente che lavora. E qua, pure abbandonando gli altri alle loro gare d’alpinismo con la macchina, ci vorranno almeno due ore per giungere a casa. E ci stiamo trattenendo troppo. Certo, c’è la signora Mancini, ed è sempre un piacere. Parliamo di ripescaggio. E della Curva Nord ancora chiusa. Dei manutentori inoperosi, ben oltre le promesse. Poi sbuchiamo sul parcheggio. Enzo propone il bar che sta di fianco al muraglione dietro la porta. Io insisto che voglio vedere la piazza. Diamine, siamo nella capitale europea delle campane. Un tocco di cultura, un brivido di caratteristico. Siamo o non siamo sofisticati? Ma quello dietro sbraita: “Per il tempo che dobbiamo rimanere, non ne vale la pena”. Gli altri, però, sono rustici quanto me. E il paesello è effettivamente una bella sorpresa. Balconi pieni di fiori s’affacciano su strade strette e piene di negozi, con prevalenza dei caseifici e delle macellerie. Mi piacciono i posti dove il mangiare è al posto d’onore. Ed è onnivoro. Un bar ci sfila sulla sinistra. Due minuti dopo, uno sulla destra. Ma siamo ancora noi ad aver fatto inversione. Il Bar del Legionario. Nome evocativo. Ci parcheggiamo. Il tempo di una birra, non penso faranno in tempo ad arruolarci per Fiume. Sotto l’ombrellone. Arachidi e patatine. Poi anche la focaccia e la pizza rustica. E quist ce piac a fa a nuje! Un giro di Peroni da 0,66. E il Foggia in pullman. Ci alziamo ad applaudire gli eroi. Ma sono distanti. Non si capisce se hanno capito. Non si capisce se hanno reagito. A dire il vero, non si capisce manco se sono loro. Potremmo aver applaudito gli Alpini. O i pensionati delle Poste&Telegrafi. Vabbé, sono comunque meritevoli. Eroi anche loro. “Che ore sono?”, “Le sette e mezza”. È tempo di andare. È tempo di migrar. Un’idea fa contatto, come i cavetti della batteria. “Una bottiglia per il ritorno?”. Giacché noi ci muoviamo a litri, come Guccini. Un signore ci indica un alimentari. Poi ci tiene ad aggiungere che siamo uno spettacolo. Che ci ha visti cantare. “Specie quella cosa sul Vesuvio”. Old style. Un gruppetto di vispe massaie ci depista. Lo fanno sempre, queste donnacce. Così imbocchiamo la stradina a salire che porta alla piazza. E la magia ci rapisce. Don Matteo fiuta un cold case e lo segue fino alle estreme conseguenze. In su per la collina. Noialtri a ruota, come gli ispettori dell’Agenzia delle entrate, visitiamo gli esercenti. Uno per uno. Piazza Plebiscito. Il Caffè Letterario. Il biliardino. Sono le venti passate. Gli alimentari sono tutti chiusi. Ma in compenso c’è un bel bar. Con la tv fissa su Sky Tg 24 che, a sua volta, si è fissato con la sentenza Berlusconi. Quattro anni. Un giro di birre per riprenderci dalla scarpinata. E poi andiamo, si spergiura. Sono le 20,10.
Alle 22, dall’albergo, spuntano i giocatori dell’Agnonese. E si uniscono a noi. Discorsi nostalgici sul calcio che fu. Un’ora dopo vanno a nanna, che sono in ritiro da tre giorni soltanto. Noi diciamo che è tempo di migrare. Don Matteo ha perso una serata di lavoro. O forse era questo il lavoro da assolvere. Procediamo al giro della staffa. È giunta mezzanotte. Ma l’insegna del Bar del Legionario è ancora accesa. Vi giungiamo dopo aver giocato a frisbee con un sottobicchiere lungo tutta la discesa. Sport estremi. Il Royal Baby s’è convertito ai gelati al tiramisù. Un whiskey e, all’una, la Skocca ci chiama dalla Madrepatria. “Siamo al secondo tornante sulla strada del ritorno”, “Bene, vi aspetto sveglio”. Siamo lumache. La certezza di avere una casa, a casa, è il motivo che spinge ed andare. Senza guscio, non usciremmo neppure.




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