08/08/13

La penultima scampagnata


Mercoledì 7 agosto, Sturno (Av), Foggia-Palermo primavera 1-1

Ci eravamo già stati. Un paio di anni fa, che sembrano un’altra vita. La stagione di Bonacina e quella di Vespasiano sono, nella nostra memoria, scolpite negli stessi anfratti. Dati sovrapposti. Vuoi realmente sostituire il file? All’epoca, millenni orsono, giocammo contro la rappresentativa locale. E svernammo velocemente in un bar nella parte bassa del paese, a due tornanti dal campo sportivo. Niente di particolarmente rumoroso. Se non il ricordo di un periodo cupo, marchiato a fuoco dal post-Zeman, dalla Tessera del tifoso, da Casillo, dai mesi di divieto assoluto che vanno dal Flaminio a Santa Maria Capua Vetere. L’intero arco di due stagioni complete. Che muovere su Trivento fu l’apice. Ci torniamo. Con uno spirito diverso. E un’inquietudine latente, che guadagna metri nell’animo come nel football americano. Già. Perché Sturno è la terza amichevole del secondo Foggia di Padalino. E, per la prima volta in tanti anni di ritiro, le abbiamo potute seguire tutte. “Che belli i ritiri vicini”. Perché si gioca col Palermo primavera, che non sarà la prima squadra ma ha le maglie identiche, che mettono in moto un po’ di associazioni. Perché siamo in tanti, sulla linea dell’autostrada e sotto un sole implacabile. Però, non facciamo finta di niente, in settimana siamo stati promossi. Ufficialmente “ripescati” in Lega Pro. In C2, si sarebbe detto ai tempi belli. Che poi, ripescati non è il termine giusto. Perché noi non siamo mai retrocessi in serie D. Eravamo salvi in C1, sul campo, e solo il fallimento di chi sappiamo ci ha scaraventato nel girone inferiore di questi inferi che durano da quattro lustri almeno. Quindi, a rigor di logica, la Lega ci ha restituito meno della metà di ciò che ci spettava. Ma non è quello. È che queste facce qui, questa gente che gioca a sorpassarsi tra il casello di Lacedonia e quello di Vallata, hanno in fondo all’iride la consapevolezza che il ritorno tra i Professionisti – mentre da un lato rappresenta una vittoria sportiva della nostra squadra del cuore, dall’altro… – è il ritorno sulla scena di tutto quanto odiamo. E che in quarta serie era più sfumato. L’obbligo di restare a casa quando il Foggia gioca in trasferta. A Messina come a Gavorrano e a Poggibonsi. Facciamo finta di niente, ma qualcosa è cambiato. E il sospetto che l’amichevole di domenica prossima a Lacedonia possa rappresentare l’ultima scampagnata fuori porta, è una spada di Damocle sulle nostre teste accaldate. Ma per vivere bisogna ricacciare indietro i pensieri cupi. Quelli ci inchioderebbero, riducendoci all’inazione e all’immobilismo. Così, percorriamo i settanta chilometri di statale, A16 e provinciali, col sorriso ebete di un pupazzo gonfiabile e lo stato d’animo di un malato terminale in pellegrinaggio a Medjugorje. No, non Paolo Brosio. Non così gonfiabile. La carovana della Nord arriva giusto in tempo. Quindi in largo anticipo. A Sabrina non piace la pubblicità statunitense della nuova Fiat Cinquecento, la trova piena di stereotipi, e per l’indignazione decide di investire un’ausiliaria del traffico che prova ad suggerirci – a noi! – il parcheggio più idoneo. Quella, comprensiva, non dice niente. Noi ci parcheggiamo dove vogliamo. Cioè, dove c’è spazio. Poi una sfilza di maglie nere prende a salire la collina. Con una fatica non indifferente. Si, ce lo ricordiamo il campo. C’è pure il solito chiosco, che fa i soldi una volta ogni due anni. Dentro c’è già la Sud. E tanta gente, ai margini. C’è pure uno che riprende, uno che parla al microfono e uno che commenta le azioni salienti. Ma non s’è capito se poi quel che registrano se lo rivedono a casa loro, la sera, come le diapositive del mare. Il tempo di attaccare striscioni e pezze e siamo in action. Troppo in action per i trentacinque gradi all’ombra. Siamo dei maledetti forsennati. Tra cori secchi, cori ripetuti e battimani, sembriamo gli stessi di Pomigliano, quando ci giocavamo i play-off. In campo, il Foggia preme, ma i ragazzi del Palermo sembrano tecnicamente validi e quando verticalizzano fanno male (ah! Analisi tecnica!). Noi continuiamo per la nostra strada, senza soste e senza respiro. Una vita al limite dell’affanno. Girano oscure bottigliette d’acqua. Il mio cuore lo sai. Questa non è una corsa campestre, questi sono i tremila siepi. Batte solo per te! La rete si gonfia, il guardalinee annulla. Ladri! Così una selva di mani fissa l’uomo con la pettorina sulla linea laterale. E si scopre che c’avrà quindici anni. Ladri minorenni e sfruttatori del lavoro minorile! Il guardalinee in erba ci guarda, poi prende la pettorina e la consegna ad un attempato buontempone. Alt gioco. Alla fine del tempo, comunque, ci comunicano che il Foggia vince 1-0 lo stesso. Ottimo. S’era visto che esercitava pressione. La ripresa è da lavori forzati. Senza la goliardia di Agnone, spacchiamo pietre vocali. Il Palermo ha spazi. Il Foggia sembra stanco. Concede. Finché i rosanero non pareggiano. Il sole penetra nelle fessure del cranio. I cori che ne fuoriescono grondano latenza. Il tamburino esegue sonorità tribali. E, se dio vuole, la partita finisce. Un buon pari. La squadra sotto la tribuna sembra dispiaciuta. Umilmente, chiede quasi perdono per questi due punti persi. Vacillano le certezze. Non è manco Coppa Italia, questa. Ma qualcuno dovrà pur dirlo. Un’altra volta, però. Fuori. Il paese è chiuso. Sigillato. Per una birra, dice il pizzardone capo, bisogna scendere a valle e risalire. Lo faremo.  

Bobby Fred

Ci inoltriamo. In salita. La Chiesa di San Michele Arcangelo è una foto incassata nel muro. Quella originale è venuta giù nel terremoto dell’Ottanta. Quella ricostruita è una mostruosità evidente. La piazza è un saliscendi. Troviamo il nostro angolo, guidati come al solito dai tavolini rossi della Peroni. (Che per noi fungono da segnalazione nautica). Davanti a noi, il nonno del Tennis Club ha allestito il suo banchetto. Giocattoli. “Ma è festa patronale?”, domandiamo agli avventori del bar. “Domani”. E di cose così ne scopriamo altre. Tipo che a qualcuno Foggia sembra bella e pulita. E che lo scorbutico barista, intento a riprendere il figlio con la sua radiocomandata, tra un’oretta metterà su la brace. Sulla rotonda dinanzi alla chiesa, un palco annuncia serata musicale. E il Concato in sottofondo, da solo, non basta a giustificare il deserto umano che abbraccia la struttura. Noi, invasi da una stanchezza che rasenta la vecchiaia dello spirito, non beviamo con la stessa verve di sempre. Talune bottiglie da 0,33 volano al cestino non ancora finite (anche perché il figlio dello Scorbutico, finito di giocare con le macchinine, si mette a sparecchiare con zelo e predisposizione). E quasi sempre calde. Sigarette mai spente. E un tressette comprensivo con un signore che sorvola sul livello dei suoi avversari. Poi le casse diffondono La canzone del sole. E impazza il dibattito. Se la signorina sia una ricca borghese di facili costumi o, più facilmente, che il signorino sia un idiota. Proletario o no. Ferma, ti prego, la mano. Idiota. Il congresso vota il suo pazzo. Per quattro volte di fila. Vince sempre lui. Serpeggia diserzione. Arrivano i panini. Il monumento commemora gli eroi di Sturno caduti nelle guerre d’Italia. Sul basamento, una foto di gruppo del paese durante il fascismo. I fascisti in divisa sono otto. Un buon risultato. Attorno, facce di ventenni che sembrano cinquantenni. Visi affilati, particolari, identificabili al primo sguardo. Tre ragazzini seduti di fronte hanno la stessa faccia. Che inquietante meraviglia, la genetica! “Ce ne andiamo?”, “Si”, “Magari aspettiamo il primo pezzo del gruppo”. Ma il gruppo si fa attendere. Alle dieci, ancora niente. Serpeggia nervosismo. La piazza, nel frattempo, s’è animata. Forse perché è andata via la voce di Concato. Altro giro di birre. Il terzo.

Poi da una luce azzurra, da una gialla, e dall’assenza di un’ovazione, capiamo che i ragazzi sono in giro. Via, via, vieni via con me. Un Paolo Conte da piano bar, anni Ottanta. Ma pur sempre Via con me. Ci alziamo, andiamo sotto il palco. Ci guardano, ma è tutto sotto controllo. Non siamo molesti, né entusiasti al punto da risultare fuori luogo. E scatenare la ritorsione. Non perderti per niente al mondo lo spettacolo d’arte varia di uno innamorato di te. Intermezzo. Placidi, stiamo per salutare il paese. Quando, all’improvviso, non si capisce più niente. Enzo vede la luce. E, come un pastorello di Fatima, corre ad annunciarlo a tutti. I suoi occhi sono trapassati da lamine di laser, le sue parole sono confuse. Più del solito. Ci chiede di seguirlo, che dietro l’angolo sta succedendo qualcosa. Qualcosa di grosso. Arriviamo. E quel che vediamo è raggelante. Un corteo. Un trattore sospinge un trono rosso porpora. Davanti, di fianco e dietro al catafalco in avvicinamento, un gruppo di bodyguard con dei fucili di plastica. Il capo delle guardie del corpo avrà settant’anni. Sul trono, Bobby Fred. L’estroverso del paese. L’Estroso, come dice la moglie dello Scorbutico. Vestito da papa, con tanto di tiara e pastorale. A bocca aperta, fissiamo lo spettacolo. Sogniamo o siam desti? Il serraglio s’avvicina. Il papa benedice. La piazza ondeggia, lo adora. Decine di digitali immortalano il suo passaggio. “L’anno scorso è arrivato in carrozza”. Dev’essere come la Festa della Dea. Ci passa vicino. Ci dice: “Forza Palermo!”. Ed è lì che lo riconosciamo! L’abbiamo visto al campo. Quel soggettone sulla cinquantina e passa, coi capelli lunghi e gialli, con le lentine blu. Quello che si voleva fare la foto con Arnaldo! Pensavamo fosse un pazzo. Ma costui è un genio. Il suo corteo regale, la sua papa-mobile, sparisce in un viottolo, lasciando la gente ilare e soddisfatta, con un sorriso di beatitudine (e scampato pericolo) sulle labbra. Poi torna. A quel punto, a grandi falcate, decidiamo di fendere la piazza. Dobbiamo consegnare a Papa Bob la sciarpetta. Quella di Carmine, che nessuno di noi ne ha portata una. Arriviamo sotto il seggio del pontefice. Allunghiamo il vessillo come in Piazza San Pietro si allungano neonati. Una delle guardie del corpo afferra la sciarpa. La controlla come se fosse un cibo da assaggiare. Poi la gira al Papa Re. Che, senza pensarci su due volte, se la attorciglia attorno al collo. Il nostro applauso è fragoroso. Lo sguardo di Enzo è quello di Brosio. Quando ha visto la Madonna. O quando ha sgamato la moglie. “Forza Foggia!”, grida il Pontefice. Le guardie del corpo applaudono, la piazza li segue. È il tripudio. Un gol inatteso, che gonfia i cuori di gratitudine. Questo perfetto sconosciuto ci ha conquistati. Ma le sorprese non sono finite. Il soggettone non è solo un istrionico cabarettista situazionista. Muove verso il palco. Noi pensiamo: Oddio, oddio, oddio. Vuoi vedere che, vuoi vedere che. Si. Sale, con i suoi uomini in nero. Il settantenne lo annuncia, dopo aver minacciato di aprire il fuoco su tutti. Johnny Rotten della Bassa Irpinia. E lui guadagna il microfono. “Da oggi c’è un terzo papa”. E noi andiamo fuori di cotenna. Rock&Roll allo stato puro. Canta. Quell’uomo canta. Tre pezzi, suoi. Di cui uno in inglese. O in farsi, non s’è capito. E noi, coi nostri battimani, siamo il suo Fan Club. C’è dell’Elvis, nella sua impostazione canora. C’è del Toni Renis. C’è del Debord. C’è dell’Hannibal Lecter. Alla fine, il visibilio copre tutti. E lui saluta, per primi, “i giocatori del Foggia”. Che saremmo noi. La piazza si gira, festante. Le massaie ci fissano sorridenti ed incredule. Noi applaudiamo. Mentre Papa Bob comincia a snocciolare i paesi a cui tiene. Flumeri, Grottaminarda, Frigento. E “Foggia, nostri grandi amici”. Poi annuncia che la piazza potrà rivederlo tra quindici anni. E un attimo dopo risale, che ha dimenticato di ringraziare Sturno. Imbocchiamo la discesa con lo sguardo allucinato e il passo infermo. È successo davvero. E noi stavamo per andarcene.

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