05/08/13

Il suono delle campane


Agnone, 1 agosto 2013, Olimpia Agnonese-Foggia 0-2


Fosso. Avvallamento. Fosso. Crepaccio. Fosso. Tagadà.
Sabrina – perché da noi le donne non solo parlano, ma guidano pure! – pilota la festa di Sant’Anna sulla strada che ci ha consigliato chi sappiamo. Perché è così che funziona. Un compunto addetto alla logistica studia le mappe, la cartografia classica e quella satellitare, fino ad individuare il percorso di avvicinamento più idoneo, in base ai parametri della distanza e del tempo di percorrenza. Lo comunica agli altri già nei giorni precedenti. Gli altri accettano. Convinti. Poi, cinque minuti prima della partenza vera e propria, salta su qualcuno. E sbraita: “Chessò?”. Scuote la testa. E propone una strada alternativa. Anzi. Non propone. Fa passare per ingenua la gran massa. Indica un sentiero tra i boschi di conifere. Un acciottolato simile a quello che i tedeschi si trovarono davanti durante l’offensiva delle Ardenne. E porta a testimonianza un suo zio che, immancabilmente, o fa il camionista o “fa sempre questa strada”. Gli altri, quelli che avevano condiviso il percorso del cartografo ufficiale, accettano. Per non sembrare degli allocchi. Noi, alle due e passa del pomeriggio, eravamo ancora convinti che la Termoli-San Salvo e la deviazione verso Trivento, fosse la strada giusta. Ma un consesso di scettici ci ha canzonato. “Si va per Campobasso, poi Isernia, come se volessi andare a Roma”. Eh. Ma noi non stiamo andando a Roma. Stiamo andando ad Agnone.
Inutile puntiglio.
Soldati, siamo. Accettiamo. E a mezz’ora dall’inizio della sfida con l’Olimpia, come ciclisti al cartello dei dieci chilometri, ne mancano ancora trentacinque. E sono tutti così.
Curva. Fosso. Avvallamento.
La macchina saltella, agile e aggraziata come una gazzella inseguita da un licaone.
Agnone è quel paese spiaccicato sulla montagna. Seicento e passa metri sul livello del mare. E meno male che hanno edificato il viadotto nella vallata. Sennò sulle volute ascensionali ci facevamo vecchi. Fosso grande. Burrone. Avrai la festa di Sant’Anna da aspettare.
Ci siamo. Sguardo all’orologio. Le cinque. Il paese, seguendo frettolosamente delle precise indicazioni casuali e le macchine che ci precedono, finisce in una strettoia. Un paziente nonno ci suggerisce di fare inversione. A meno che noialtri non si voglia campeggiare in quel vicolo chiuso, godendo dell’aria fresca e catramosa del non avere vie d’uscita. Sento un coro dentro una bottiglia.
Ampio parcheggio. La tribuna. Un signore, all’ingresso, ha l’ingrato compito di chiedere un’offerta. Come in chiesa. E, proprio come in chiesa, le nostre facce sono mortificate. I nostri gesti, misurati. Il nostro peccato, mortale. Pazienza. Quando sarà la nostra ora, ci metteranno in conto anche questa sgarbatezza. Per ora, il problema non si pone. Sfiliamo in basso, magliette nere, tra la gente assiepata sugli spalti che ci osserva. Incontriamo altri foggiani. “Che strada avete fatto?”, “La Termoli”. Sguardi a metà tra il “te l’avevo detto io” e il “vafammocc a mamt” si intrecciano in un amoroso abbraccio. Ci sistemiamo. La partita è iniziata. L’Agnonese è una squadra di D. Come noi. “No, noi siamo ripescati”. Ah, beh. Il terreno di gioco è un tappeto. Liscio e comodo come al biliardo. “In Molise stann i sold”. Per questo non ci vogliono. Per questo vanno invasi militarmente. I primi cori. Timidi. Si tratta pur sempre di rompere la quiete. Di urlare nel silenzio. E non siamo così pazzi da farlo come se fosse la cosa più normale del mondo. Se uno urla per strada, quello è. Ci prendiamo gusto. Sentiamo svariate paia d’occhi addosso. La nostra diversità ci strappa sempre un sorriso compiaciuto. Ma dice: Amarti ancora? Si. E che senso ha “amarti ancora” e “fallo dolcemente”? Ma non dice “fallo”, dice “farlo”. Io ho capito “amarsi”. Vabbù, canta e basta. Senza fare troppe domande. Borghetti, Peroni e sherry. Lo sherry, e capì? Roba di lusso. È dolce, è sherry. Certo. Lo sherry amaro è un Petrus. L’arbitro ha dei capelli ambigui. Il Foggia gioca, e ci mancherebbe altro. Il primo tempo finisce zero a zero. Sparpagliamoci. Socializziamo. Sono bei posti, questi. Ogni volta, mi assale una nostalgia del non vissuto. Di tutte le vite che potevo essere e non sono stato. Campare qui, in una di quelle case del centro storico, con la finestrella sulla strada, le tendine tirate, una bottiglia di brandy e mezzo metro di neve a terra. Godermi il silenzio. È un delirio, ne sono conscio. Del resto, mi ricordo come fosse ieri quella volta che a Tolentino, Jordan chiese di scappare via, che un'altra sorsata di silenzio e sarebbe impazzito. Ci ricompattiamo. Mentre io mi soffermo su alcune storie Viennesi, il settore divampa. Ed è bello, ad agosto come a novembre, in piena estate come nell’inverno del nostro scontento. È spettacolo. Dai balli di gruppo alla squadra sotto la curva. Che poi non è una curva. Due a zero per noi. Raccattiamo le masserizie. E pure le scorze di melone di pane volate in campo. Speriamo non ci diffidino. Ma di questi tempi.

Il caso Agnone

 “Abbiamo tempo per una birra?”, “Si, per una birra si”. Una e basta, che c’è gente che lavora. E qua, pure abbandonando gli altri alle loro gare d’alpinismo con la macchina, ci vorranno almeno due ore per giungere a casa. E ci stiamo trattenendo troppo. Certo, c’è la signora Mancini, ed è sempre un piacere. Parliamo di ripescaggio. E della Curva Nord ancora chiusa. Dei manutentori inoperosi, ben oltre le promesse. Poi sbuchiamo sul parcheggio. Enzo propone il bar che sta di fianco al muraglione dietro la porta. Io insisto che voglio vedere la piazza. Diamine, siamo nella capitale europea delle campane. Un tocco di cultura, un brivido di caratteristico. Siamo o non siamo sofisticati? Ma quello dietro sbraita: “Per il tempo che dobbiamo rimanere, non ne vale la pena”. Gli altri, però, sono rustici quanto me. E il paesello è effettivamente una bella sorpresa. Balconi pieni di fiori s’affacciano su strade strette e piene di negozi, con prevalenza dei caseifici e delle macellerie. Mi piacciono i posti dove il mangiare è al posto d’onore. Ed è onnivoro. Un bar ci sfila sulla sinistra. Due minuti dopo, uno sulla destra. Ma siamo ancora noi ad aver fatto inversione. Il Bar del Legionario. Nome evocativo. Ci parcheggiamo. Il tempo di una birra, non penso faranno in tempo ad arruolarci per Fiume. Sotto l’ombrellone. Arachidi e patatine. Poi anche la focaccia e la pizza rustica. E quist ce piac a fa a nuje! Un giro di Peroni da 0,66. E il Foggia in pullman. Ci alziamo ad applaudire gli eroi. Ma sono distanti. Non si capisce se hanno capito. Non si capisce se hanno reagito. A dire il vero, non si capisce manco se sono loro. Potremmo aver applaudito gli Alpini. O i pensionati delle Poste&Telegrafi. Vabbé, sono comunque meritevoli. Eroi anche loro. “Che ore sono?”, “Le sette e mezza”. È tempo di andare. È tempo di migrar. Un’idea fa contatto, come i cavetti della batteria. “Una bottiglia per il ritorno?”. Giacché noi ci muoviamo a litri, come Guccini. Un signore ci indica un alimentari. Poi ci tiene ad aggiungere che siamo uno spettacolo. Che ci ha visti cantare. “Specie quella cosa sul Vesuvio”. Old style. Un gruppetto di vispe massaie ci depista. Lo fanno sempre, queste donnacce. Così imbocchiamo la stradina a salire che porta alla piazza. E la magia ci rapisce. Don Matteo fiuta un cold case e lo segue fino alle estreme conseguenze. In su per la collina. Noialtri a ruota, come gli ispettori dell’Agenzia delle entrate, visitiamo gli esercenti. Uno per uno. Piazza Plebiscito. Il Caffè Letterario. Il biliardino. Sono le venti passate. Gli alimentari sono tutti chiusi. Ma in compenso c’è un bel bar. Con la tv fissa su Sky Tg 24 che, a sua volta, si è fissato con la sentenza Berlusconi. Quattro anni. Un giro di birre per riprenderci dalla scarpinata. E poi andiamo, si spergiura. Sono le 20,10.
Alle 22, dall’albergo, spuntano i giocatori dell’Agnonese. E si uniscono a noi. Discorsi nostalgici sul calcio che fu. Un’ora dopo vanno a nanna, che sono in ritiro da tre giorni soltanto. Noi diciamo che è tempo di migrare. Don Matteo ha perso una serata di lavoro. O forse era questo il lavoro da assolvere. Procediamo al giro della staffa. È giunta mezzanotte. Ma l’insegna del Bar del Legionario è ancora accesa. Vi giungiamo dopo aver giocato a frisbee con un sottobicchiere lungo tutta la discesa. Sport estremi. Il Royal Baby s’è convertito ai gelati al tiramisù. Un whiskey e, all’una, la Skocca ci chiama dalla Madrepatria. “Siamo al secondo tornante sulla strada del ritorno”, “Bene, vi aspetto sveglio”. Siamo lumache. La certezza di avere una casa, a casa, è il motivo che spinge ed andare. Senza guscio, non usciremmo neppure.




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