30/12/13

L’Anglo-Italiano del Novantasei e la paternità


Questa storia ha bisogno di testimoni. Ma non perché, sfiduciato, ritenga di perdere colpi o abbia preso a sottostimare la mia memoria. Quando dissi che avevo visto l’Unione Sovietica allo “Zaccheria”, dicevo il vero. E l’ho dimostrato. Anche Lello, a onor del vero, aveva ragione ad insistere sul Flamengo. Ma questa storia è diversa. È collettiva, più delle altre. Perciò necessita di raffronti.

Del torneo Anglo-Italiano abbiamo avuto modo di parlare. Di quella bizzarra formula degna del Reform Club, pure. E, ancor di più, del fatto che quel torneo sia finito nel dimenticatoio come le schede telefoniche da cinquemila lire. E che abbia il potere di farti sembrare un dinosauro. Di quelli che si muovono nella camera in mezzo con le pattine della nonna. Che a terra c’è la cera. Ma c’era “Wembley” di mezzo. Ragion per cui, per i più distratti, spendiamo due parole.

[Pausa grappa]

In sostanza, svariate squadre italiane ed inglesi si affrontavano in svariati gironi misti. Di solito, erano le squadre della cadetteria a sfidarsi, nei gelidi pomeriggi infrasettimanali d’autunno. Ma non so se è sempre stato così. Poi, le compagini italiche e quelle albioniche meglio piazzate si dividevano per definire la finalista nazionale. E le due vincenti, s’affrontavano a Londra. In gara singola, trasmessa da Rai Tre. Il Foggia, retrocesso dalla A l’anno precedente, vi partecipò nella stagione 1995/96. Vinse due partite fuori casa (col West Bromwich e il Southend), ne pareggiò una in casa (con lo Stoke City) e una la perse, sempre allo “Zaccheria” (0-1 con l’Ipswich town). Quindi, di diritto, conquistò la semifinale autarchica. Ancora tra le mura amiche. Col Cesena. Non so perché questa storia mi sia tornata in mente dinanzi allo stadio comunale di Sulmona. Forse perché sulle montagne della Maiella c’era la neve. Forse perché quelle strutture di ferro invitano al sogno, al viaggio, più di un pezzo di Battiato. Forse perché c’erano dei ragazzi delle giovanili, fuori, con le tute e i borsoni. E i loro dialetti erano così diversi l’uno dall’altro da spingermi ad immaginare le loro vite. Che, come diceva quel Sudamericano, rotolano assieme ad un pallone. Che, nella mia memoria, è sempre bianco ed ha sempre i pentagoni neri. Ho sbirciato tra le inferriate, alla ricerca del manto erboso. In preda alla stessa tentazione di un Lino Banfi con gli spioncini. Oltre i quali, la Fenech faceva la doccia. Ho letto su un manifestino attaccato con lo scotch che i locali avevano appena affrontato il Matelica. E ho pensato che nessun posto al mondo – neppure la Moschea celeste – può vantare più storie di un campo di calcio. Persino di questo. Ho popolato la mia fantasia di migliaia di teste sconosciute. Di decine di migliaia di esistenze individuali, atomizzate, chiuse. Che, domenicalmente, andavano a sbocciare in una complessità emozionale che era popolo. Agli abbracci agli sconosciuti dopo quel famoso gol di Bresciani. Al pianto liberatorio quando sventammo la C2. E a decine d’altri episodi, ugualmente banali. Ugualmente immensi. No, nessuna chiesa dell’arcidiocesi, nessun ospedale da campo, può raccogliere tante involontarie solitudini e farne un mosaico.

[Altra pausa per la grappa]

Il 10 gennaio del 1996 è un mercoledì. Per sapere quali materie avessi in Orario quel giorno, dovrei recuperare i diari del quinto. Ma voi non avete idea di cosa ci sia in quei tiretti. Quindi, lasciamo perdere. Con lo zaino sulle spalle, insieme ad altri esponenti della futura classe dirigente, muoviamo dal Programmatori a Viale Ofanto. Per strada, si accodano i futuri leaders del Marconi, del Masi, persino del Volta. Un sacco di futuri medici, notai, politici, che in confronto la Marcia dei Quarantamila è il Carnevale di Rio dei pezzenti. A mia madre ho detto che non avrei mangiato a casa. “No, mamma, non mi drogo. Oggi c’è il Foggia”. La buona donna rimase sospettosa – I remember – senza credere totalmente a quella stramba verità. Diciamocelo: mia madre non ha mai creduto nell’Anglo-Italiano. Per questo non è mai stata accolta al Reform Club. È aperta solo la gradinata. Quanta gente vuoi che venga a vedere ‘sta partita? Posizionati ad altezza cerchio di centrocampo, gli striscioni, i saluti. “Che devi andare a un matrimonio?”, è la battuta più ricorrente che gli affamati si scambiano. Gli zaini uno sull’altro. Le sciarpette. Saremo trecento, forse meno. L’altra semifinale è tra Genoa e Salernitana. La finale sarà a partita doppia. Andata e ritorno. Qui, oggi, basta vincere. E avviciniamo “Wembley”. Nel mio ricordo non ci sono cori. Non siamo ancora “moderni”, e dinanzi alle gradinate semi-deserte, a nessuno da trascinare, non cantiamo per noi stessi. Al novantesimo è zero a zero. La fame comincia a farsi sentire. Come per l’Arsenal di Hornby, volano le bestemmie. Se non fossimo così affamati di questi colori, ora saremmo sazi. Invece, il buio prende a predominare sul cielo plumbeo d’inverno. Qualche faro si accende, come luci di locanda nella notte senza stelle. Il primo tempo non serve a niente, come metafora e summa del resto della partita. È uno zero a zero di difficile risoluzione, questo. Ma tra un quarto d’ora, al massimo, i rigori sbroglieranno il caso. Così, reprimiamo con uno “Sccchhhttt” strategico i morsi dello stomaco e andiamo avanti. Senza immaginare che, di lì a breve, qualcosa avrebbe reso quella partita indegna, memorabile. L’altoparlante. Lo stesso che – con un clic inconfondibile – precedeva la voce dello speaker – dell’annunciatore – quando si trattava di segnalare l’ora offerta da Ciletti. E che leggeva i risultati della C1 girone B. O che, anni prima di Francesco Salvi, faceva presente che c’era da spostare una macchina. Beh, quella volta fece un nome e un cognome. Disse che il signor Tal dei Tali era atteso. Ma non come quell’altra volta, anni prima, che c’era il padre della moglie di uno spettatore all’ingresso della tribuna. E tutti, attorno a mio padre, ipotizzarono che avesse un’amante. No. Stavolta lo spettatore era atteso a Reparto Maternità. Pathos. Timore. Nessuno guardava più la partita. Trecento paia di occhi, qualcuno in meno (ma l’abbiamo detto), fissavano la tribuna. Come ad individuare il megafono. Come a potervi guardare dentro, direttamente nella voce dell’annunciatore. Adesso quella comunità di sconosciuti voleva sapere. Doveva sapere. E la voce, teatralmente sospesa, alzandosi di un mezzo tono, continuò. E disse che Tal dei Tali era diventato papà di uno splendido maschietto. O di una femminuccia, non ricordo bene. Perché l’ovazione fu generale. Allegra e commovente. Nessuno si sottrasse a quella gioia. Come se lo “Zaccheria” avesse, d’un tratto, un figlio in più. E gli occhi si misero a vagare. Anche i miei. Alla ricerca del neo-papà. Finché, noi tutti, non lo individuammo. Anche grazie a qualcuno che lo indicava, come i marinai di Magellano indicavano le Americhe. C’era un uomo, lassù, che sorrideva. Sconvolto e felice. E scendeva i grandini saltellando. O, almeno, ci provava. Perché adesso la sua corsa verso via Napoli era frenata da un’onda lunga di mani, e pacche sulle spalle. E addirittura bacetti d’augurio. Le felicitazioni dei presenti alla vera impresa di quel giorno.

[Grappa]

Non so perché mi sia venuta in mente questa storia, col muso infilato tra le inferriate del (presumo) comunale di Sulmona, L’Aquila. Forse perché mi è venuto in mente Angelo, che mentre Manuela usciva di conto era con noi al “Bentegodi”. Ma quella era la prima di campionato. E poi a Verona. Forse perché ho pensato che quel bambino, il 10 di Gennaio, diventerà maggiorenne. E io non so, né forse mai saprò, nulla del padre. Se non che, mentre la compagna era prossima all’evento più importante di una vita, è sceso di casa, è andato a lavorare e, a digiuno, è corso a vedere Foggia-Cesena di un torneo caduto nel dimenticatoio delle schede telefoniche. Magari anche la compagna non ha mai creduto nell’Anglo-Italiano. Ma è così, signora. Suo marito era in gradinata, quel giorno. Posso testimoniare.

16/12/13

Per niente


Aversa Normanna-Foggia 3-1

L’ispettore è partenopeo. O giù di lì. Ricorda qualcuno. Salemme. O giù di lì. Parla in maniera spigliata, fa il simpatico. Il che, per uno sbirro, equivale ad una manganellata di precisione. Però, gli va riconosciuto, non è molle, arrendevole, pulcinellesco. Non dice, per esempio, che dipendesse da lui ci farebbe entrare. Tutt’altro. È scaltro nell’ammansire, ma fermo nelle petizioni di principio: “Ad Aversa non entra nessuno”, dice e ribadisce più volte. Noi, sotto una cupola di pioggia sottile, così sottile da sembrare la nebbia di Mezzacapa, mostriamo un campionario di facce stanche. Esauste. Di penzolare in attesa di un giudizio che già conosciamo. Di discutere di massimi sistemi d’evasione coi professionisti dell’incarcerazione. Abbiamo parcheggiato male. Ma male tanto. E già in questo v’è un che di inconscio. Di fatato e fatale. Non ci vorrà molto e ruoteremo il muso delle nostre diligenze. C’è chi ha persino lasciato i fari accesi. Ce lo dissero a Caserta, in anteprima assoluta: “In Campania scordatevelo!”. E Salemme non fa altro che confermare. Sfiga. Che stavolta l’uomo in divisa, dai baffi bianchi e dalla voce rotta di cazzo, che ha deciso di onorare lo Stato senza prendersi più veleno, l’avevamo pure trovato. “Quanti ne siete? Trenta?”. Ci avrebbe condotto al botteghino. Che qui, a quanto si espunge dai dialoghi incrociati, il problema è più che altro portoghese. Pre-tessera, indi. Noi il biglietto l’avremmo fatto volentieri. Pagando, s’intende. Al baffo bianco sarebbe bastato. Ma Salemme si fa chiamare “dottore” non a caso. E alè. “Ma perché non ve la fate la Tessera?”, chiede. Probabilmente è la stessa domanda che ha rivolto ai Cosentini e ai Messinesi, che pare siano transitati da queste parti. Non c’è tempo né voglia di controllare. Si risponde che la Tessera è sbagliata. Punto. Quello dice che apprezza la nostra coerenza e ci invita a fare altrettanto della sua. Punto. Che Paese balordo! Ogni dieci metri uno sceriffo diverso. Che risponde alla sua morale interiore, o ai film di Maurizio Merli che ha visto, piuttosto che alla Legge. Che dovrebbe essere la medesima. A Merano come a Teramo. C’è anche un secondo dottore. Incrocia il mio sguardo alla prevista sentenza. Mi chiede, per cortesia, di non cominciare col piagnisteo. A me! Ma Si figuri, con tutti i problemi che c’abbiamo, questo è davvero l’ultimo!

I problemi. Costante sublime. Minimo comune denominatore di questa stagione di respingimenti, che manco Malta coi barconi dei profughi. Abbiamo cominciato subito, oggi. Proprio oggi, che già eravamo al limite dell’orario. Una precedenza sottovalutata, dopo la bellezza di quindici metri di viaggio. Una macchina nel paraurti. Roba di gemme rotte, di constatazioni amichevoli, di urla nel caos del mercato aperto per Natale. Un primo distaccamento in marcia, un secondo a ruota. Il cielo bianco, la strada deserta. Fino a Candela, all’imbocco dell’A16. Velocità sostenuta. Sei macchine sparpagliate nel raggio di venti e passa chilometri. Contatto radio, come in trincea. Sappiamo che è dura. Che, nonostante l’approssimarsi delle Festività, una volta è Poggibonsi. Ma è inutile fasciarsi la testa prima di azzoppare sul reticolato dello stadio. Dobbiamo tentare. E andare. Per i motivi che sappiamo. Se guardassimo nelle tasche di ognuno, ben pochi avrebbero una dieci euro citeriore. Quella del ticket. Ma le espressioni sono determinate. O, almeno, sparsi e distanti come siamo sul selciato, le immaginiamo così. Da noi si alza e si abbassa lo stereo. Si parla di Forconi e Catanesi, in maniera alternata, tanto da aver compreso che i Veronesi del picchetto le hanno prese. O date. O boh. Di certo, erano quasi cinquecento. Un bel presidio. E non è facile, oggidì. Corriamo. Giochiamo col cronometro. Cinque, anche cinque minuti soltanto. L’anticipo determinante. Il Vesuvio sulla sinistra. Soffocato dalle nuvole. Lo svincolo di Nola. Qualche altro chilometro in linea retta. Poi, il delirio. Avevamo degli amici ad Aversa, anni fa. Una volta andammo pure a fargli visita. C’era una festa e vincemmo un barile di birra. Ci stupì la quantità di ragazzi in motorino. “Dove vanno?”, chiedemmo. “A Fuorigrotta”, ci risposero, “è a cinque minuti da qui”. Cazzo. Il concetto di geografia è legato alla percezione più dell’amore stesso. Nelle teste, le cartine ruotano come foto in Paint. Tra cent’anni qui ci sarà spazio per una sola grande megalopoli. Un ponte, uno striscione: “No al biocidio”. Il vulcano e i rifiuti atomici. O una megalopoli o il deserto. Non c’è molta scelta.

Allo svincolo per Villa Literno abbiamo dieci minuti di vantaggio sul fischio d’inizio. Ma di buono c’è che siamo in fila indiana. Ci inoltriamo. La campagna, da queste parti, è un concetto assai labile. Discutibile. Lo diciamo ogni volta. Un senso di abbandono strutturale. Di quegli abbandoni che non hanno a che fare con l’assenza di umanità, ma con un surplus della stessa. Frattaminore, Frattamaggiore, e più in là Casal di Principe. I quattro punti cardinali si moltiplicano, danzano senza un perché. Napoli emerge ed affonda. Uno svincolo. Campagna per campagna. Rottami. E le indicazioni per la Base Militare Americana. US Navy. Gricignano. Un reticolato, un campo di calcio, un palazzo enorme e grottesco. Quasi finto. Il sospetto che quelli dentro non si siano mai presa la briga di uscire fuori dal loro mondo incantato, curato, perfetto. Una fila di macchine interminabile. Un passaggio a livello. I dieci minuti cadono a uno a uno, come soldati di prima linea all’assalto di un caposaldo nemico. Scatta l’isteria. In questo brullo paesaggio desertico, dove ogni posto richiama un altrove radicalmente differente, ci perdiamo. Sappiamo di dover aggirare la colonna motorizzata, se non vogliamo restare imbottigliati. Ma non sappiamo se l’operazione potrà portare dei benefici sulla tabella di marcia, già ampiamente compromessa. Tiriamo dritti verso uno sprofondo, invertiamo la rotta e ritorniamo sulla statale, puntiamo un’uscita denominata Carinaro. Il telefono scotta. Altre zone industriali. Altra onnipresenza umana che prende le sembianze di lavatrici scassate ai margini dell’asfalto. Un sottopasso. Un incrocio. E finalmente un segnale. Che annuncia 4 km ad Aversa. E solo 14 a Napoli. Case. Ristoranti ed edicole. Non sembrano case, queste. “Stadio comunale”. Procediamo a singhiozzo. Guidati da indicazioni umane e robotiche contraddittorie. Alla fine, direi che ci siamo.

Il peggiore degli scenari: zero trattativa ma tante chiacchiere. Pedagogia e artefatta comprensione. I poliziotti sono tranquilli, sereni. Dicono che se ci fossimo fatti tutti la Tessera glielo avremmo messo in quel posto. A chi comanda. Certa gente non la capiremo mai. Tutti tesserati, tutti ovunque – esclusi i divieti alla salernitana – e poi? I sindacati di polizia sul piede di guerra. Sostiamo più di dieci minuti. Dall’interno giunge un grido di esultanza. Il Foggia è pervenuto al pareggio. Non sapevamo stesse perdendo, ma fa sempre piacere sapere che si segna. E che qualcuno esulta. Il tempo di sistemare la scenografia per la foto di rito, e l’Aversa torna in vantaggio. Noi urliamo contro l’ennesimo muro che ci separa dal piacere puro del sostegno. Un coro alla Tessera, uno alla nostra curva. E un paio ai nostri. Forza ragazzi! Dall’interno, nessuna risposta. Il tempo di rientrare nelle macchine e l’intero agglomerato di case evapora in un intrico di diramazioni. Prendiamo la strada di Montemiletto, a svariati chilometri da qui. Per sentirci, tra i boschi ascendenti, in concordia col clima natalizio. Da casa giungono aggiornamenti sconfortanti. Il Foggia in dieci, poi in nove. La Normanna sul 3-1. Giornata no, come si suol dire. In piazza, al paese, c’è la musica e lo struscio degli anziani. Tu scendi dalle stelle sparato a volume altissimo. I vecchi ci guardano. Gli chiediamo perché il Castello si chiama della Leonessa. Ma la musica alta li ha sballati di brutto. L’alimentari è l’unico posto aperto. Non ha alimenti. Ma la Ceres costa 2 euro. Mostaccioli. Felici per niente. 

02/12/13

La Grande Impresa



Domenica 30 novembre 2013, Poggibonsi-Foggia 0-1

Oniria

Si, la radura sulla sinistra ha un nome. A detta della cartina pluri-spiegazzata, aperta a mo’ di sudario evangelico sull’altare del cruscotto, dovrebbe chiamarsi Sibenicnik. L’Austria è alle spalle da quattro minuti. Questa è Repubblica Ceca. A Mikulov è prevista una sosta. Un pacco di Ritz, due scaldatelli, del buon vino d’Oltrecortina. Ce l’avranno il Fortore? Dobbiamo fare benzina. Il pieno. Mancano ancora 1.900 chilometri alla meta. Qualcuno dorme, con un plebiscito nell’ultima fila. Ma nessuno è stanco. E ci mancherebbe altro! Sono anni che aspettiamo questo turno di Uefa. Anni in cui abbiamo giocato in posti indicibili, riproducendo frammenti di memoria inemendabili. D’accordo, anche allora, durante la traversata, c’erano gli amici, l’asfalto, i divieti e qualche volta i gradoni e il terzo tempo. Abbiamo accumulato ricordi notevoli, quasi felici, nonostante tutto. Ma la nostra dimensione è questa. L’Europa, inutile negarcelo. E quando dall’urna di Nyon è scaturito il nostro primo avversario, ci siamo divisi in parti variabili tra l’estasi, la frenesia e l’entusiasmo. Lo Spartak di Mosca è squadra di tutto rispetto. E la Russia è trasferta da furgone per antonomasia. Ditelo a quelli del Paok. Il mezzo dondola sotto i miei piedi. Lo sento. L’asfalto ceco è quello che è. Le prime case del paese. Questo dev’essere il Villaggio artigiani di Mikulov. Un distributore. Freccia a destra. La voce di Antonio al volante: “Ma come cazzo devi fare a scrivere il resoconto?”. Ce l’ha con me. Ma come?, penso. Stiamo andando a Mosca. Basta questo a riempirmi d’ispirazione solida. Ma quello insiste: “Voglio proprio vedere che scrivi”. Il nove posti rallenta, coi suoi fari spenti scruta il primo parcheggio disponibile. Si ferma. Rumore di chiavi che vengono sfilate. Sportelli che si aprono, portellone che scivola sui cardini.

Mi sveglio.

Questa dev’essere l’Agip della Cecoslovacchia. Ma Sarni, in Cecoslovacchia, non ci è ancora arrivato. E forse neppure esiste più, la Cecoslovacchia! Mi sa che ho dormito. Ma si, sicuro. “Dove siamo?”, “Dopo Ancona”. E se non ho ricordi di Termoli, Pescara e San Benedetto del Tronto, è del tutto evidente che sono scappato a sonno. Sorrido, fingendomi tonico e pieno di me. Come solo quelli svegliati di soprassalto sanno fare. Che poi, non si è mai capito perché ci si vergogna sempre del proprio abbiocco. “Che stavi dormendo?”, “No, che sei pazzo! Avevo solo gli occhi chiusi”. Vedo la combriccola pascolare sul cemento. Non stiamo andando a Mosca. Ricordo. Tutta colpa di quella sveglia alle 5 che non ha suonato. O forse ha suonato per un po’, e poi si è intristita. Chiudendosi in sé stessa. Non dovevo addormentarmi alle quattro. Oppure, non dovevo apparecchiarmi come se davanti avessi una nottata normale. Ho un’immagine di me. Mi vedo scendere di casa, come un volontario irlandese nella bruma del mattino. Vagare. Ricordo il muso del furgone noleggiato sbucare da Via Onorato. Mi sono venuti a prendere sotto casa. Un onore inaspettato. Che mi inorgoglisce. Mi hanno riservato il posto al centro, avanti. Il più scomodo di tutti. Ma è il contrappasso. Ricordo, ho calato la testa sul petto. E, contorto come Houdini nella botola, mi sono spento. Off. Ora, non so perché, mi fingo iperattivo. La coscienza è una mareggiata calma e implacabile che, poco alla volta, guadagna metri di bagnasciuga. Poggibonsi. Giochiamo a Poggibonsi. E non credo sia il primo turno di Europa League. Non ho mai visto la scritta Poggibonsi uscire dall’urna di Nyon. Direte: Neanche la scritta Foggia, se è per questo.
Rispondo: Fatevi i cazzi vostri, voi!

Immigrant song

Son figlia d'emigrante,
per questo son distante,
lavoro perché un giorno a casa tornerò.
La porti un bacione a Firenze,
se la rivedo, glielo renderò.

Scavalliamo l’Appennino. Vento freddo, nebbia sui colli, ma niente pioggia. Le luci verdi e rosse del casello, le nostre facce sorprese d’essere già qui. È incredibile. Pensi che l’Italia sia un posto lungo e complicato da percorrere, ed ogni volta ti stupisci che avesse ragione il calcolatore elettronico. Aveva detto 6 ore, quel coso. Ma noi siamo dietrologi per natura. Ci affidiamo, ma non ci fidiamo. Eppure, sono ancora le tredici e già siamo al casello. Ansia da tempo libero. La Sinalunghese va a Porta Romana. Eccellenza toscana, girone B, tredicesima giornata. È sull’altra corsia, quella che – seguendo i precetti di Murphy – scorre più velocemente. Finestrini abbassati. Un coro, un battimani. Quelli rispondono. “Avete battuto il Castel Rigone, un mio amico gioca lì”. Non c’è niente da fare, la fama del Foggia calcio ci precede. Anche in Ossezia sarebbe successo. La statale è dissestata, ma alla meta mancano diciassette miseri chilometri. E non ci badiamo. Il paese è prossimo, e giunge allo scadere della prima cassa di Peroni. Nell’abitacolo girano panini di contrabbando. Finanche delle acciughe. La squadriglia romana chiama: “Sembra il Cep”. Il Tennis club, alcuni campi di calcio. Una specie di cittadella dello sport. Tutti giù. Non mi sento più le gambe. Sguardo circolare. È sempre rilassante questa regione. Il verde, il silenzio, l’ora di pranzo, la domenica. E per omaggiare tutto ciò, si fa pipì a ridosso di un muretto basso. Troppo basso, almeno per quelli del palazzo di fronte. Ma ormai è fatta. Certe volte, tutto sta nel principiare. E, come spesso accade, non si può tornare indietro. La casupola in legno a margine di un cancello e di una stradina in ghiaia, sembra la casa di un picchio. Di quelle che vanno tra i rami. È la biglietteria del settore ospiti. Noi, bene bene, non sappiamo cosa diremo. Abbiamo abbozzato una strategia, ma poi il J&B ha modificato radicalmente l’ordine delle priorità. Si parlotta con un paio di addetti. La polizia ci osserva stancamente. Manca ancora un’ora al fischio d’inizio. Noi ci atteggiamo a monaci pazienti. E ci godiamo l’afflusso dei foggiani, che si riversano nello spiazzale. Quello del palazzo sopra al muretto continua a guardare. O è curioso, o è rimasto pietrificato da prima e con gli occhi immoti, ci sta chiedendo aiuto. Nel dubbio, sfoderiamo indifferenza. I non residenti – tesserati o meno che siano – sono affascinanti da guardare. Ispirano un mucchio di domande e altrettante riflessioni. Ti chiedi delle loro vite, dei motivi che li hanno spinti ad andar via, di quelli che ostinatamente li obbligano a mantenere vivi i legami. Ed anche cosa li spinga a realizzare degli striscioni così brutti, a coprirsi sempre troppo d’inverno e a legarsi le sciarpe in zone dove – se esistesse un dio – non dovrebbero albergare sciarpe. Comunque, il calcio è sport popolare e d’appartenenza. Ed è bello ritrovarsi tutti.

Saluti e baci. Il whiskey che passa di mano in mano. Di ugola in ugola. Racconti, pezzi sparsi del grande mosaico della foggianità. Fotografie da un posto qualsiasi, alla ricerca di un’impresa. La casupola del picchio apre i battenti. E ci si aspetta che l’addetto di cui sbuca il mezzobusto cominci a smerciare vin brulè. Invece, tagliandi di Booking show. Noialtri ci riconosciamo. Siamo quelli con più punti di domanda sul futuro prossimo. Finché la situazione non si sblocca. [inizio passaggio volutamente criptico] Il sopraggiungere di una maschera della commedia dell’arte e diventiamo tutti Rossi. Anche quelli del Vecchio. Io sono Franco, quello è Giacomo [fine passaggio volutamente criptico. Voi fate finta di niente, tanto è gratis]. Dentro. In un angolo della gradinata. Sulla nostra sinistra, i non residenti e i tesserati, sguardi alle squadre schierate a centrocampo. Oltre, le bandiere giallorosse degli ultras di casa. Increduli, facciamo prendere aria alle pezze. E stavolta non per una fotografia di spalle. Cominciamo a incitare i nostri. E poco alla volta, come in un bar di recente apertura, cominciano a giungere avventori. Un bambino sventola una rossonera. Emozione crescente. L’abbiamo già detto che un tempo era normale andare a vedere le partite fuori casa? Penso proprio di si. Ma stavolta è una specie di regalo inatteso. Un regalo che, beninteso, abbiamo pagato coi soldi nostri. E pure tanto. Ma chi se ne frega. Siamo come quel bambino, noialtri. Campiamo di pathos. Le squadre in campo se le danno, nessuna sembra prevalere. Noi urliamo. Contro la Tessera, non contro i tesserati. Ci sono guerre che hanno bisogno di tregue. Tira vento. Poi il Foggia passa. In una sorta di mischia nell’area piccola. Goduria. Questa squadra è infingarda e stronza! Abbiamo passato anni ad inseguire piazzamenti play-off, stagioni in cui solo la prima saliva e le altre giocavano alla roulette russa. E la classifica diceva invariabilmente: quarto, quinto. E poi perdevamo in finale. Quest’anno, che basterebbe un settimo senza sforzo, questi lo andranno a stravincere il campionato. Come con Zeman e Marino. Non abbiamo equilibrio. Siamo figli di una stella emotivamente disturbata. Ma non ci pensiamo. Ci godiamo il vantaggio e cantiamo. Nell’intervallo, solleviamo personaggi di pubblico rilievo, li issiamo sulle nostre teste, poi li rimettiamo in libertà. E sniffiamo caffè. Il cielo è limpido di freddo. Nella ripresa accenderanno i riflettori. E la ripresa pure inizia. Il Foggia gestisce. I giallorossi di casa, forse, meriterebbero un rigore. Ma soffriamo solo nel finale. Il momento adatto per richiamare l’intero settore, che dopo un Foggia alè di stampo classicheggiante, s’incunea – compatto – in un lungo e magnifico coro secco. I ragazzi reggono. Il “Lotti” di Poggibonsi è espugnato. In fondo, sin dal mattino c’era aria di grande impresa. Squadra sotto la gradinata. Volevano regalarci le magliette. Noi abbiamo detto: si, si, no, no. Quelli, nella confusione, si sono offesi. Riusciamo sempre a rovinarci le giornate.

Carbonara

Il furgone dal portellone aperto smista pacchi e buste agli emigrati. È un compendio di appartenenza. Un punto di unione tra le genti daune nel mondo. Sembra il bazar di Porta Nuova.  La polizia osserva. Vorrebbero scortarci fuori. Ma fuori dove? E perché? O forse sospettano una tratta di pomodori secchi destinati al mercato nero. Abbracci. Saluti. “Buon viaggio, voi che tornate a Foggia”. La porti un bacione a Firenze. Il sole è di un arancione pacchiano. Due mezzi, due strade: un cartello dice Firenze. L’altro, pure. Riusciamo a perderci. Ma non è un problema. Noialtri maturiamo in men che non si dica la bizzarra idea di muovere su Bologna, verso una casa, una Pam dall’odore diverso, una cucina, una tavola apparecchiata, vino e carbonara. E l’autostrada ci asseconda. Telefoni roventi, la macchina organizzativa in moto. “Ohi! Si, arriviamo tra un’oretta! Grande impresa oggi! Si, abbiamo vinto uno a zero a Poggibonsi! Grandioso!”. Poi un attimo di incertezza incrina la voce sicura. “Ah, bravi anche voi. A dopo”. “Loro chi?”, “È un amico inglese, di Hull”, “Embé?”, “Embé ho fatto il pagliaccio ch’amm vind un a zer a Poggibonsi. E quello mi ha risposto: Noi oggi abbiamo battuto 3-1 il Liverpool”. Effettivamente. Bravi anche loro.


11/11/13

Quel che c’era. Quel che c’è


Domenica 10 novembre 2013, Casertana-Foggia 0-0

Il cielo plumbeo. Finalmente. L’alternanza delle stagioni che rosicchia terreno ai luoghi comuni. A novembre a mezze maniche, no, è un concetto inaccettabile. C’è bisogno del freddo che ristora. Di felpe e giacche. E da quelle parti, il meteo porta addirittura tempesta. Il parcheggio del benzinaio è un punto di ritrovo adeguato. Picasso a noleggio con gli sportelli aperti e lo stereo a 30. Pizza e birra casuals. Con allegata pipì sul reticolato al limitar della campagna. Lo scempio dell’Hotel President sullo sfondo. Oh, alé Foggia alé, alé Foggia alé, alé Foggia alé, alé Foggia alé. Rispetto.

Nel petto e nella testa di ognuno di noi ardono ancora le torce. Quella curva come un galeone in fiamme, in lotta con le onde della bufera. A vincere la morte. Nei discorsi, Matteo è presente. La sua voce risuona nei racconti, negli aneddoti. Che ci rendono migliori senza farci tristi. D’altronde, stiamo facendo quello che abbiamo sempre fatto assieme: seguire quella maglia nelle sue disperanti avventure. Anche se non è detto che riusciremo a vedere all’opera i nostri semisconosciuti eroi. Anzi, a dircela tutta, la possibilità di essere respinti non la quotano neppure più. Eccesso di giocate anomale. Ci siamo visti presto, ma è meglio mettersi in marcia. Tanto succede sempre qualcosa. Veleggiare verso la Campania ha ogni volta un che di particolare. Affascina e limita. E non è solo geografia. Quando si scala la A14 o si declina verso la Calabria, l’impressione che se ne ricava è quella di scivolare sull’Italia e la sua vasta complessità. Quando si imbocca la Candela, invece, gli spazi si stringono d’incanto. Forse per l’obbligo di fare l’autostrada, forse per la mancanza di statali. Ma si vede il Vesuvio in fondo. E l’asse cartesiana dello spazio si zippa. Lacedonia è ancora Daunia, Vallata è già un altro mondo. A Grottaminarda si ha la percezione di essere arrivati. Ed Avellino è dietro l’angolo. Eppure, quando si deve calcolare il tempo necessario, da queste parti si utilizzano sempre i parametri del Clp. Ma le macchine non sono pullman. Neppure la nostra, a gas, che tossisce e fatica sulle salite. Freccia a destra e area di servizio Irpinia. Un’icona della Vergine brandita a mo’ di ombrello per giapponesi, guida una comitiva di pellegrini verso un Gran turismo addormentato sul retro. Pienone di viaggiatori a dividersi brioche. Per noi, bagno e tramezzini. Il frigo. Peroni a 3,10, Ceres piccola a 3,70. Sono queste le cose che fanno vacillare i convincimenti. Ladri da autogrill. Notizie da Salerno. Partita sospesa e scontri. Le conseguenze della politica dei Questori Superstar. Sorridiamo. Non è una bella cosa augurarsi la morte del calcio, ma da qualche parte bisognerà pur riprendere il filo. Rompere il giocattolo per ridare un senso alle cose. Anche se sappiamo per esperienza che quel che sta accadendo a pochi chilometri da qui, otterrà il più classico degli effetti opposti. Si parlerà di calcio in ostaggio degli Ultras. Magari si invocheranno, appronteranno e applicheranno nuovi e sofisticati metodi di repressione. Ma, per ora, sorridiamo. Del punto di non ritorno. E di chi sta dimostrando – nel modo che i giornali riterranno sbagliato e criminale – che il calcio è della gente. E senza la gente, c’è spazio solo per il teatro.

Fuori a fumare. Si, il cielo è plumbeo. Più plumbeo di prima. Ci piace. Oltre quella siepe c’è il “Partenio”. Altre storie. Fantastichiamo. Perché ci piace fantasticare. Finché una voce pacata non annuncia pacatamente che una delle vetture del convoglio ha problemi all’iniezione. Ormai non ci facciamo più caso. Siamo la Crociata dei pezzenti. Testa bassa e pedalare. A velocità contenuta. Il cartello che ci sorprende di più proclama lo svincolo per Caserta a 22 chilometri. Serpeggia scetticismo. Si paventa una misura drastica della contro-propaganda. Invece, Nola. Direzione Roma. Siamo arrivati davvero. L’autostrada costeggia Caserta verso Ovest. Lo stadio è ad Est. E piove, a secchiate. È tutto così dannatamente perfetto che viene quasi da commuoversi. Per giungere al settore ospiti dovrebbe sbucare, da un momento all’altro, l’uscita per Maddaloni. La strada statale che sopraggiunge da Napoli ed entra in città. Invece, l’uscita si rivela una pia illusione e, dinanzi alla scelta tra casello e casello, ovviamente, sbagliamo. Avessimo optato per Caserta Sud non saremmo in fila ai margini della carreggiata sotto il diluvio sottile. Circumnavigare la città. Mentre telefonicamente ci preparano la psiche allo sbarramento delle forze dell’ordine che troveremo. Ci inoltriamo. Il satellitare stima in sette minuti l’arrivo. Ma lo scetticismo è un vezzo duro a morire. “Questa non è ancora Caserta”, sentenzia qualcuno dal sedile posteriore. E reitera il suo mantra ad ogni curvone. “Hai presente quella cosa lì?”, “Eh”, “Ecco. Quella è la Reggia. Se si chiama Reggia di Caserta un motivo ci sarà, convieni?”. Ci siamo quasi. La partita, prestando fede agli orari predefiniti, è cominciata da qualche minuto. C’è ancora gente in fila per entrare. I vigili urbani ci danno il benvenuto e ci teletrasportano fino al drappello della polizia di Stato. Alle cui cure ci mollano. Oltre questo muro, s’odono cori. Noi, fuori, ripetiamo la recita del muro contro muro. Il dirigente è irremovibile. Come a Cosenza, come a Messina, come a Melfi. Ma stavolta si fa più profonda la breccia. Non è solo questione di “rapporto col pubblico”, di fare la faccia garbata, di mantenere calmi gli animi. Poliziotto buono. Non c’è solo un agente che “dipendesse da lui” ci farebbe entrare. Stavolta è un fare a capirsi. “Se ci fate entrare vi fanno un mazzo così, ci è chiaro”. L’inflessibilità dei divieti è come il Cristianesimo delle origini. O come la religione presso i Greci. In un Olimpo deresponsabilizzato, entità astratte temono il precedente. E sono disposte a comminare daspo e punizioni al primo segno di frana. Queste divinità non si pongono neppure il problema di comunicare con gli esecutori. Li ispirano. Una messinscena ben peggiore di quella per cui i Nocerini finiranno, stasera e domani, sul banco degli imputati di un’intera nazione. “Girate le macchine e andatevene”. La stanchezza nel tono è già più di un manifesto programmatico. Manca il “Per favore, che abbiamo famiglia”. E saremmo in pieno Pasolini. Nel mese di novembre, oltretutto. Capita l’antifona. Il tempo di lanciare un paio di cori al vento che, libero, sorvola gli ingressi blindati e presidiati. Lo striscione per Matteo. Anche i Casertani ne hanno fatto uno. Onore a loro e a chi, ancora, fa venire voglia di giocarlo per bene, questo gioco dell’Ultras. Un coro contro la Tessera. E l’ispettrice con la ricetrasmittente fa la sua comparsa. Ordina una volante come al Pizza taxi una Margherita con gorgonzola. Ma sono tutte donne – oggidì – gli ispettori di polizia? Una macchina bianca e verde con la sirena si offre di farci strada fino allo svincolo per la Napoli-Bari-Pescara. O è la polizia tedesca in trasferta vietata, o la Protezione animali. La carovana si muove. Tra le grate e sulla sommità della gradinata, la gente si sporge a guardarci andar via. È durata poco. Come tutte le cose belle.

Frazione di Frigento

Il cellulare di nuova generazione esegue il Buffering con lodevole solerzia. Fuori, il paesaggio scorre via autunnale. Il Foggia è piccolo, sullo schermo. La Casertana, proporzionata. Zero a zero. Un tempo c’erano le radiocronache. Un tempo c’era pure Bim, bum, bam. Inutile pensarci. La consueta birra post-partita, stavolta, rischiamo di farla atterrare sul fegato a gara ancora in corso. Come a Melfi. Inutile pensarci. La Picasso a noleggio è un puledro onnivoro che vorrebbe divorare l’asfalto. Lo teniamo a freno col la sola forza del pensiero. Da una macchina all’altra, ci comunichiamo i reciproci desideri da terzo tempo. “Grottaminarda no. Un posto più bello. Un bel bar”. Così ci inerpichiamo. E i contorni del parabrezza diventano bosco. Cinque chilometri appena, in apnea. E la connessione salta. Dannazione. Mancano dieci minuti. Da quel che abbiamo visto, non si è tirato in porta al “Pinto”. “Vi andrebbe bene il pareggio?”, “Assolutamente si”. Dritti per Frigento. Pioviggina. Perfetto. La frazione si chiama Carpignano. 612 metri sul livello del mare, duecento abitanti. C’è il santuario della Madonna. C’è l’inverno. Parcheggiamo. Il locale è bello. Domenicale. Sembra quello di Schiava di Tufino, svariati anni orsono. “Attenti al lupo” dietro al bancone, tra le bottiglie e le cartoline. Un certo reciproco imbarazzo. Sciolto nel Jack Daniel’s e nelle Budweiser. E dal flipper, ritenuto ormai gioco d’azzardo. L’Avellino è in B. Non ci sembra vero. In chiesa si recita il rosario in codice. Attorno al nostro nucleo di fanatici, cala la sera. Non ne vale la pena. Oggettivamente, scarpinare così, investirci soldi e impegno. Per essere spediti indietro con un repentino movimento del capo. Oggettivamente, però, noi non siamo l’emblema dell’Oggettività. E il calore della compagnia al decrescere della temperatura circostante, la latente consapevolezza della nostra diversità, la maniera assurda che abbiamo trovato per riempire il nostro tempo interiore, sono sensazioni sensazionali. I pensieri virano al cupo variabile. Ma quando la strada riprende a scendere, dalla macchina che ci precede giunge una telefonata: “Oh, ragazzi, su le mani, che dobbiamo fare un coro”. Viene potente. E ricominciamo a ridere. Senza chiederci più nulla.

09/11/13

La trasferta più lunga



Quando ricevi certe notizie, la prima cosa che ti viene da esclamare è: “Stai scherzando?”.
Una domanda istintiva, stupidissima. Come se fosse perfettamente normale che qualcuno possa divertirsi ad annunciare una tragedia. Ma lo metti in conto all’indole. L’incredulità è una forma di resistenza umana dinanzi all’orrore. E la morte rientra – tra gli orrori – in pieno.
Così, cominci a fare telefonate, ossessivamente, freneticamente. Anche se tutti i tasselli combaciano alla perfezione e non lasciano spazio ai dubbi. O al fiato. Quando l’evidenza è contro di te e la tua sciocca speranza di sfuggire. E resti incredulo. Ti lasci sopraffare da un senso d’emergenza, di straordinarietà. Il giorno non è più lo stesso giorno, la via in cui ti trovi non è più la stessa via. E la gente attorno svanisce. Perché non sa e non partecipa.
E ti salgono alla mente i ricordi.
Ho pensato a Napoli. Al Vomero. Alla volante della polizia che mi scarica nello spiazzo del casello, dove i pullman e i furgoni sono, nella prematura sera autunnale, illuminati a intermittenza dai lampeggianti delle camionette. A quell’abbraccio inatteso. Alla sincerità di un’empatia che superava i ruoli, le pose, le mode. “Cazzo, mi dispiace!”. E null’altro da aggiungere. Se non sdrammatizzare. Perché anche saper sdrammatizzare, in un mondo che oscilla pericolosamente, perennemente, sul baratro del fanatismo, è una dote preziosa. Ti conserva umano. Ti porta a relativizzare. Eppure giochiamo seriamente, noialtri. È complicato capirci, nei nostri apparenti deliri di onnipotenza. Nei nostri discorsi sull’onore e la supremazia. Nei nostri scazzi. E sapere che c’è qualcuno che – nella semplicità dell’atteggiamento, in uno sguardo canzonatorio o nel doppio fondo di un mezzo sorriso – ti ricorda che, alla fine, stai giocando, è vitale. Ti mantiene sulla terra. Ti riporta ai bisogni autentici, ti restituisce i valori.
C’è una dose di egoismo anche nel dolore. È il tuo mondo che intendi conservare quando scuoti la testa e ti ripeti che non è possibile, che sembra ieri che stavamo lì a discutere dello striscione in Sud, del gruppo o del passaggio dei Pescaresi su Viale Ofanto. Ti aggrappi con le unghie al terreno che scivola sotto i piedi. Mentre il passato si spopola, lasciandoti solo con un presente che, più lo guardi, più non ti somiglia. Che non ha i contorni di città in cui sei cresciuto. Matteo era in balaustra. E cantava forte. Per spingere la squadra. Tu eri un ragazzino e volevi imitarlo. E lo seguivi, come logica conseguenza. Dapprima in casa, rispondendo al suo incitamento. Poi in trasferta, con le migliaia di lire per un bigliettino con un numero che corrispondeva al tuo nome. Sul pullman o sul treno speciale. Tutto qui. Semplice. Elementare. Come dev’essere.
E ti ritrovi dentro un universo parallelo governato dalla passione, quando qualcuno ti ci traghetta. E ti accorgi che non è poi così sciocco cantare a squarciagola per quelle maglie in campo. Non è disdicevole , né imbarazzante. È magnifico.
Eppure, c’è stata gente che questo passaggio non te l’ha mai fatto vivere come un rito iniziatico, come roba da massoni. Beh, è a questa gente che bisogna riferirsi quando si parla di “vecchio stampo”. E quando questa gente viene a mancare, manca sul serio.
Il fuoco di decine di torce. Come quando non era proibito.
Le teste da una parte all’altra dei gradoni. Come quando non si era in quattro gatti. E lo stile contava tanto quanto. Le mani al cielo. Tutti. Un solo striscione, un solo nome. Quello a cui dobbiamo quel che siamo, in un modo o nell’altro. Il coro: Come i vichinghi re dei mari. E non ho pensato più all’sms del primo dell’anno, quello con cui ci auguravi serenità e felicità; né alle lavate di testa ai giocatori negli spogliatoi; né a quella volta coi giornalisti; né al fatto che no, non mi sei mai sembrato cambiato dal Novantuno. “Insò, Mattè, come lo vedi sto Foggia?”. Ho fissato la foto sul carro funebre. Incredibile. Puoi non frequentarti per mesi. Ma sapere che le persone ci sono, è un’assicurazione sulla vita. L’ultima volta ci siamo incrociati di sfuggita. Non mi avevi visto. “Buon lavoro, Mattè”. E mi hai risposto voltandoti di scatto, col sorriso di chi sa che – oltre ogni divergenza scaturita dal gioco di quel mondo parallelo in cui quelli come te ci hanno traghettato – sono queste le cose che contano. Il rispetto, l’onestà, la sincerità. Come i vichinghi re dei mari. Ed è salito il magone. E la rabbia. Per la tua vita, per i tuoi figli, per la tua famiglia. Per come è andata. Per come non doveva andare. Ma anche per noi tutti. Uno accanto all’altro in quella che era la nostra casa. Così presi dalla gara del chi è migliore da dimenticarci che, uniti, siamo uno schianto. Così coinvolti nelle nostre esistenze separate da dover attendere la morte di uno di noi per ritrovare il senso di ciò che ci legava. Questo, come capita nelle famiglie, ci ha insegnato la tua morte orribile, Matteo.
Il dramma è che non impareremo proprio un bel niente.

Buon viaggio. Se esiste un Aldilà, di sicuro non avrà il prefiltraggio.

26/10/13

La normalità antecedente



Venerdì 25 ottobre 2013, Cosenza-Foggia 1-1

Dev’essere lo stesso per gli spazzini.
Dopo che passi gran parte della tua vita tra i vicoli, a riempire buste di lerciume, dimentichi che al mondo esistono pure le persone pulite. È una questione di prospettiva. Così, mentre l’ispettore brizzolato col cappello ci parla sforzandosi di mantenere la calma, e placidamente ci inviti a non farci “daspare”, ci sembra tutto assurdamente normale. Normale. Che dietro agli uomini in divisa brillino le luci dei fari, che oltre questo cancello metallico e il conseguente terrapieno di cemento armato, vi sia un settore ospiti. E un grande prato verde dove nascono speranze. Abbiamo completamente rimosso che un tempo era questo il motivo per cui si viaggiava. Si comprava un pezzo di carta da un omino chiuso in un cubicolo, come un prete al confessionale, e si varcavano velocemente gli accessi. E, una volta sui gradoni, si cantava, si sudava, si lottava. Per la maglia. O per la squadra, quando ancora la maglia non si portava. Adesso, questo onesto servitore dello Stato ci sta illustrando, con la cura di un buon padre che spiega il mondo a dei bambini neanche tanto discoli, che per il nostro bene è opportuno ruotare il muso delle nostre quattro macchine e puntarlo verso casa. Che di mezzo ci siano 60 o 600 chilometri, poco cambia. E a noi, che abbiamo sentito questo discorso altre tre volte in poco meno di due mesi, sembra già normale. Se non logico. Gli esseri umani si adeguano in fretta ai mutamenti. Dev’essere stato così anche per le specie sopravvissute alla glaciazione. Che ti guardi intorno e non vedi mammut e dinosauri, dopo che per una vita sono stati lì. E dopo cinque minuti, ti abitui. La vita va avanti.

In un parcheggio di un centro commerciale. Roba da Wolverhampton. La scelta tra due direttrici di volo. Una lunga e dritta, l’altra più breve e pittoresca. Anche nei saliscendi e nei lavori in corso. Optiamo per la seconda, ma ricorrendo al voto di fiducia. Tangenziale a uscire. Puntiamo sulla Basilicata più profonda. Abbiamo una scorta di birre a fare da apripista al più classico dei William Lawson’s. Ma siamo senza borse frigo. Così, l’accendino che funge da stappa bottiglie è costretto ad un superlavoro. Ascoli, Candela. San Nicola di Melfi. Il Foggia gioca di venerdì. Al covo, per stasera, preparano dolci e rum. È incredibilmente affascinante sapere di essere in luoghi diversi e concentrarsi, con la stessa dedizione, sui medesimi colori. Contribuendo a spingere quella palla in porta come e più degli undici in campo. Era così ai primissimi tempi del gruppo. O quando la brigata bolognese ci raccontava delle partite viste dal cinese. Seguire questa squadra di emigranti ed esuli sparpagliati nei bar di mezzo mondo, è come per due innamorati – nell’era pre-Skype – fissare la stessa stella. Noi siamo dei privilegiati. Noi ancora possiamo cullare il sogno di vederla dal vivo, quella maglia. Solitamente indossata da cessi col pedigree da cessi. No, non si dice così. S’è ripresa, questa squadra. Ha vinto in casa e poi a Messina, ha pareggiato con l’Ischia dopo aver dominato un tempo. Oggi va a far visita alla capolista. Speriamo gradisca. Ma in cuor nostro sappiamo di avere le stesse possibilità di entrare che avevamo sul traghetto per la Sicilia. Rionero, Istinto brigante, la sagoma solida di Castel Lagopesole. Prima sosta per la pipì a undici chilometri da Potenza. Riempiamo i plastici calici di whiskey e osserviamo. È un discreto plotone, questo che si allarga sul piazzale. La nostra, però, constatiamo non senza una punta d’amara tristezza, è la macchina più anziana. Trentacinque anni di media. Una cosa da deformare il ghigno al disgusto. C’è gente qua in mezzo che non lo conosceva neppure a Zuzzurro! Buttiamo giù la nostra razione di veleno, e ripartiamo. Titograd. Brienza. La nostra ram ci comunica impressioni di ottobre. Ci siamo già stati qui. Era il 2009. E tutto, dal cielo plumbeo al colore del pietrisco, ci sembra intatto. Sembra quel mattino. Una vita fa. L’orrore. Il WL è finito! È un attimo. La nostra vettura lascia sfilare il piccolo corteo. Le quattro porte si spalancano come per un assalto al portavalori. Tutti giù. E gli abitanti del mezzo si immergono fino al bacino nel frenetico viavai della Quinta Avenue. Ad un barista si spiega che il calcio non è più quello di una volta. Non è “quel che proviamo”. Mentre qualcuno punta una Sigma che, in realtà, è un vivaio. Dio benedica sempre quei frangenti in cui ci si perde. Perché ritrovarsi è strano. Nell’abitacolo ricomposto fanno capolino, nell’ordine, un Bellmore impacchettato e un pizzico di vanagloria. “La ragazza del negozio mi ha lasciato il suo numero”, “Davvero? Te l’ha scritto di nascosto?”,  “No, è sul bollino”. Sala Consilina si mostra a sinistra. Fa schifo come ogni volta. Calabria. La Sa-Rc sembra sgombera e lineare. Sembra un’autostrada. Il nuovo nettare apre dibattiti e comparazioni. Ad un certo punto, urlano tutti. E nessuno ascolta nessuno. Si spazia dalla Supporter Card agli Scotch, da Wikileaks al turismo religioso. Una babele al cui confronto i System of a down che piazza il pilota suonano docili alle nostre orecchie come la Royal Philharmonic. Ci ricompattiamo, senza essere venuti a capo di nulla, a 70 chilometri dalla meta. È buio, ormai. A detta dei navigatori che ci mobbizzano, arriveremo alle 20:11.

Cosenza , vista da qui e a quest’ora, sembra Potenza. Se non proprio Catanzaro. Svincoli a dismisura, palazzoni intesi come nuclei abitativi a sé stanti, isolati e conclusi. Eppure la ricordavamo bella. Le luci del San Vito sono fredde. Eravamo custodi di una memoria differente. Persino l’ingresso al settore. Ma erano altri tempi. Era la normalità precedente. Dai finestrini ci è passato accanto il botteghino. Le luci nel loculo di cemento comunicavano apertura. Il plotoncino di agenti che ci viene incontro e chiude a doppia mandata il cancello, tutt’altro. Il dialogo col dirigente è breve poco dinamico. Non resterà alla storia delle trattative. Più o meno come la Conferenza di Monaco. Noi diciamo quel che diciamo sempre, che vorremmo entrare a vedere una partita di pallone. Pagando, s’intende. Quello si stringe nelle spalle e risponde che no, non è possibile. Proviamo un paio di carte a sorpresa, ma non c’è sorpresa che tenga quando la controparte non è disposta a giocare. Quindi vabbé, ciao. La foto canonica, di spalle, con le pezze. No, non è una nuova moda. Noi non viaggiamo per riempire un album. O, peggio, ritenerci migliori di altri che non si mettono in posa fuori dai settori inviolabili. Se fosse questo il nostro intento, saremmo da ricovero coatto. Noi ci muoviamo con la speranza incrollabile di riuscire a varcare quelle soglie e vedere i nostri crossare, lisciare, spazzare l’area. Come certi malati terminali che organizzano le vacanze estive. Per far si che un briciolo di normalità antecedente seguiti ad imporsi nelle nostre esistenze. Plasmate anche su questo. E se il brivido – oggi come oggi – viene dalla mezzeria che finisce sotto la carrozzeria e dai chilometri che si inseguono sui cartelli, allora non badiamo a spese. Anche se fa male ammettere che così è riduttivo. Che sembrano lontani anni luce i tempi in cui allo stadio si poteva entrare. Ma è quanto di meglio abbiamo. E lo conserviamo gelosamente. Circumnavighiamo la città, rassegnati all’evidenza. C’è la diretta Raisport. Direzione Nord. La prima uscita ci annuncia che siamo prossimi ad un posto che si chiama Montalto Uffugo. Anche questa è poesia. Sapere che esistono luoghi sulla Terra che passano, in un clic della freccia e per una coincidenza del fato, dall’assoluta insipienza alla piena familiarità. Poesia. Una volata e ci ritroviamo, senza fiato, faccia a faccia col gestore di una pizzeria. Che stava chiudendo. C’è una saletta, a sinistra. Un televisore. Spento. Il pizzaiolo garantisce che anche loro stavano vedendo la partita. Ma non c’è bisogno di accattivarci. Siamo affamati e non desideriamo altro che mangiare. E vedere il Foggia. L’ispettore, allo stadio, ci aveva garantito che si fosse sul due a zero per il Cosenza. Come se fosse bastato quello, un risultato avverso, a farci desistere. Uno che ha paura di perdere non tifa per il Foggia, amico. Ordiniamo quattro, forse sei pizze con la nduja. È appena cominciata la ripresa. Uno a zero per loro. Pizze al tavolo. “Hai dell’olio piccante?”. Il pizzaiolo, che è calabrese e su queste cose non scherza, risponde (piccato): “Perché? Non è già piccante?”. Forse abbiamo fatto una gaffe, ma guai a tirarsi indietro: “No”. E piovono peperoncini, grandi come fragole. È una mattanza. L’urlo del pari su rigore è straziante. Sembra dire: sono qui a due passi, non possono sentirci. Anche nella grappa c’è il peperoncino. Offre la casa. A cerchio, brindiamo. Al pari in casa della capolista. Alla nostra forza d’animo. Alle battaglie perse. Agli altri al covo e ai foggiani che, in mezzo mondo, hanno urlato come noi al pareggio. Ai chilometri che ci separano da casa e a quelli che faremo la prossima volta. Alle rossonere. Il tempo di entrare in macchina. E resta sveglio solo l’autista. Ma è tardi per portare indietro le lancette del tempo e brindare anche a lui. Si potesse fare, torneremmo indietro all’epoca in cui si poteva comprare un pezzo di carta da un tizio chiuso in un cubicolo. E si poteva vedere il campo di gioco.

 

17/10/13

Casa sua


Ecco fatto. Bravi.
Cinque anni di daspo a quel medico che entrava con l’accredito da giornalista al campo sportivo.
Quello che durante l’ipocrita minuto di raccoglimento per le vittime di Lampedusa ha attirato l’attenzione dei presenti urlando che se fossero rimasti “alle case loro” sarebbero ancora vivi.
Cinque anni di interdizione dallo stadio. Con obbligo di firma.
Bravi. Bis. Avete creato il martire.
Avete  trasformato una spacconata figlia della voglia di protagonismo in un esempio.
Vi piace. Lavorare per emergenze, comminare punizioni eclatanti, aggiungere sempre nuovi capi d’accusa al già sovrabbondante carnet della repressione da stadio.
Senza possibilità di difendersi, senza avvocati difensori a recitare un copione. Daspo. Una lavata di mani degna del Prefetto di Giudea. Perché bisogna dare un segnale. E a voi piace dare segnali.
Anche se non si capisce più in funzione di che.
Lo stadio, certo. Un tempo il luogo della libertà assoluta, dell’aggregazione e della socialità senza vincoli o guardiani. Perché la polizia in curva non poteva entrare. Oggi – nell’epoca delle telecamerine rotanti e del controllo totale – il tempio dell’etica. Un’arena morale. Il lavacro d’ogni abominio. È all’interno degli stadi che siamo tornati a perdere quella maggiore età che detenevamo. E siamo tornati scolaretti. È all’interno dello stadio, più che in ogni altro posto canonico, che lo Stato – nella figura dei Prefetti, dei Questori, dei responsabili del reparto celere, dei finanzieri – è tornato ad imporre il suo ruolo genitoriale. Non più individui perfettibili, capaci di sbagliare (e pagare), ma comunque responsabili integrali delle proprie azioni. Ma minorenni costantemente sotto schiaffo, affidati in tutela alle grinfie dell’Istituzione, punitiva come il dio dell’Antico Testamento. Lo stadio è la casa del padre. Attorno al rettangolo verde, come attorno alla tavola domenicale coi parenti, i bambini devono filare dritto. Dire sempre “per piacere”, “grazie”, parlare solo quando interrogati e soprattutto comportarsi bene. Non c’è spazio per le cattive parole, gli insulti, gli attaccabrighe.
Fuori – tra poveri in guerra tra loro, precariato sottopagato, assenza di sicurezza e incertezza del presente – è il caos. La crisi, come la chiamano. E i suoi risvolti. Ma dentro, varcati quei tornelli, l’Italia del 2013 diventa l’Argentina del 1978. Solo che non c’è la Mondovisione. Non è a chi ci guarda da casa oltreconfine che dobbiamo dare un’immagine di efficienza e serenità. È a noi stessi. L’Italia vuole che gli Italiani si percepiscano così. Se una curva canta contro i Napoletani, la si chiude per “discriminazione territoriale”. Se si fischia un giocatore avversario di colore, si multa la società per razzismo. Se si accende un fumogeno, al reo si vieta l’accesso al campo e alle sue adiacenze per diversi mesi o anni. Lo Stato-padre non vuole che si oltraggi il dì di festa. Tutto deve andare dentro come se il fuori non esistesse. E il dissenso, qualsiasi dissenso, non deve più avere ragion d’essere.
Ora, si, capisco, sembra un volo troppo ardito, considerato il punto di partenza.
E invece no. Quello lì, il medico che va in televisione, è un signor nessuno. Un fascista, un giornalista, uno che avrà anche in vita sua definito “idioti” o “pseudo-tifosi” quelli che fanno le cose che facciamo noi di solito. Però, ragioniamoci, cinque anni di daspo sono una mostruosità senza capo né coda. Tanto valutandoli per quel che sono, come impedimento di assistere ad uno “spettacolo”. Ancor di più prendendoli per quel che rappresentano. Un Esempio, appunto. Tra quelli che esultano perché se l’è cercata e meritata, c’è qualcuno oggi che si sente più sicuro? Voglio dire, sicuro di poter esprimere quel che pensa in un agone pubblico? Eliminato il giornalista, nettata la coscienza – come se avessimo debellato il germe del razzismo spegnendo la voce, per quanto sgradevole, di un singolo razzista… oltretutto per procura sbirresca –, c’è qualcuno che si sentirà tranquillo nell’esternare le proprie convinzioni, sapendo di avere addosso gli occhi rotanti dello Stato-padre?
Direte: ma non è certo una novità! I romanisti che si girarono di spalle durante il lutto obbligatorio per Raciti, i fischi ai caduti di Nassirya. Furono puniti. Tutti puniti.
Certo. Ma nessuno di noi esultò. Si disse felice che il nostro Grande Fratello ci avesse messo ai ceppi. Abbiamo gridato all’assurdità di quella sfilza di provvedimenti relativi al reato di opinione. Perché l’opinione espressa dai repressi ci garbava, e questo ha reso il nostro urlo più automatico e sentito. Ma adesso che non ci piace, che si fa? Si dice che han fatto bene dalla Questura e ci prepariamo da soli la tagliola nella quale andremo a mettere la caviglia?
Parere personale, provo disprezzo per i razzisti. Per quelli espliciti e per quelli camuffati.
Ma trovo altresì indecoroso non considerare il contesto entro cui i meccanismi repressivi si autogiustificano nel nome di una pretesa, presunta idea media dominante. Non è a suon di leggi ad hoc e di provvedimenti folli che si combatte il pregiudizio. A suon di leggi e provvedimenti piuttosto si impone quel melenso, borghese, elitario Pensiero d’equilibrio, buonista e socialdemocratico; che s’ammanta di impegno laddove non cela nient’altro che indifferenza e superiorità. Ma l’Italia non è Fabio Fazio. E, a furia di mettere a tacere per decreto i bassi istinti, si finisce come certi aristocratici francesi, che seguitavano a frequentare i palchi dei teatri mentre fuori stava già fischiando il pentolone che li avrebbe spazzati via. Che prima o poi il ragioner Ugo Fantozzi tornerà a dire che “la Corazzata Potemkin è una cacata pazzesca!”. E beccherà novantatre minuti ininterrotti di applausi. E forse cinque anni di Daspo.
Ragion per cui, se posso permettermi, un consiglio: occhio ad annuire quando le Questure reprimono un pensiero. 

14/10/13

Lo Stretto in blu


Domenica 13 ottobre 2013, Messina-Foggia 0-3

Qualcuno sostiene che siamo pazzi.
Che dev’esserci per forza qualcosa di distorto, finanche di malato, in certi comportamenti.



La pancia del barcone è un hangar, solenne di pilastri come una chiesa di metallo. Gocciola e puzza di piscio, ferro, tubi di scappamento e acqua di mare. L’abside è un anfratto buio. I nostri tre mezzi residui sono spenti e chiusi a chiave, nascosti da un velo di nero incerto. È andata così. E un po’ ce l’aspettavamo. Ogni viaggio è un viaggio della speranza. Ogni villaggio di questo Paese è un’isola. Come la Sicilia. Ogni contrada ha le sue leggi, il suo modo di applicarle. Qui sono stati categorici. Bisogna fare marcia indietro. E gli altri si sono già issati lungo le ripide scale interne del traghetto di Caronte. Sono sul ponte, aria in faccia, pronti al movimento del cargo, a osservare la Calabria in avvicinamento. 16:40 l’orario previsto per la partenza. Ma alle 16:05 l’urgenza beffa i turisti ordinari. Dobbiamo lasciare questo posto e farlo in fretta, sorvolando sul protocollo della Compagnia. Siamo rimasti in due giù, nella pancia del traghetto. Il rumore dei motori in accensione è un basso che ruggisce costante. È frastuono. L’addetto in pettorina gialla precede l’addetto in pettorina celeste. Gridano qualcosa, lo si intuisce dallo sforzo e dal labiale. Ce l’hanno con noi, anche perché siamo gli unici abitanti dell’hangar. Ma sembrano cefali. O spigole. Non arriva che un suono confuso. Mi avvicino e quelli mi urlano in faccia. Con spirito di servizio e senza cattiveria: “Tutti fuori! Dovete uscire!”. Ma siamo appena entrati!, vorrei rispondere. Siamo stati respinti sul bagnasciuga, come non riuscì a Mussolini con gli Angloamericani. Provo a replicare, ma quelli insistono: “Siete voi i tifosi del Foggia?”. Mi guardo attorno. Giuro, non c’è altra anima viva in questo scenario di metallo già quasi sottomarino. Gli altri sono su, al bar o in bagno. Ormai rassegnati al buco nell’acqua e con la testa ai tanti chilometri del ritorno. “E allora dovete uscire, subito!”. Ma chi l’ha stabilito? “La polizia”. Ho il tempo per quantificare l’agitazione in distanze. Se aggiro il mezzo parcheggiato, imbocco la porticina a tenuta stagna e salgo le tre rampe, ci metto meno di un minuto. Se invece sfilo nello spazio fino alle fauci spalancate del mostro, alla terraferma, ce ne metto altrettanti. Opto per la seconda e mi avvio, a riveder la luce. Fuori, lo scenario del porto trasuda emergenza. Due camionette della polizia bloccano ogni varco. Gli uomini di pattuglia delle volanti, nervosi, sono più distanti. I turisti, in pantaloncini, magliette da rugby colombiane e le turiste in immaginifici vestitini corti e shorts, osservano senza comprendere. Il Comitato Centrale è rappresentato da tre individui. Due esponenti della digos di Messina e l’ispettrice in jeans, che coordina le operazioni. Al consesso è stato invitato anche un dirigente della Compagnia dei traghetti. Sono molto agitati. Molto. Soprattutto l’ispettrice. Sopraggiungo mentre il responsabile della Compagnia sta dicendo: “Se li faccio uscire, poi devono rifare il biglietto”. Il primo della digos incrocia il mio sguardo. “Che sta succedendo?”, chiedo. “Niente, niente”, s’affretta a rispondere, “Non è a voi”. Come sarebbe “non è a noi”? Ci hanno appena chiesto di fare dietrofront, di ritornare a terra! In un lampo intuisco. Questo traghetto “speciale” che sta per lasciare l’isola sulle ali dell’eccezionalità, è materialmente lo stesso che i Pescaresi stanno aspettando dall’altra parte, a Villa San Giovanni, per raggiungere la Sicilia. Per andare a Palermo. Dovessimo incrociarci nelle operazioni di sbarco/imbarco, l’effetto potrebbe essere una divertente festa patronale. L’ispettrice parla al telefono. Si allontana. Convoca i suoi. Rasentando l’isteria. A quel punto decido di rientrare e annunciare la lieta novella. Come un Evangelista. Come un discepolo. Ma gli altri – senza attendere – si sono riversati giù nella stiva. E avanzano. Nella mia direzione. I loro sguardi trasmettono rabbia e frustrazione. I loro gesti sono determinati. E penso che sia giunto, l’attimo. Quello in cui l’adrenalina entra in circolo. Quel momento eterno in cui il cervello si fa di anfetamine. E s’anestetizza. Mi viene fuori un sorriso sghembo. In ogni caso, non sarò venuto invano.

Prove a favore: il San Filippo è uno stadio grande, moderno, che ha fatto la serie A. Prove a discapito: nelle grandi città, di solito, il controllo poliziesco è più serrato e meno alla buona rispetto ai piccoli centri. Prove a favore: a Lecce siamo entrati. Prove a discapito: vabbé, che ne parliamo a fare. Sabrina ha finito di lavorare alle 5:20. Si sente sveglia e decide che guiderà per il primo tratto. Gli altri tre furgoni si allineano. Sfila la Puglia. Precede, come spesso accade, la Basilicata. E, in maniera inattesa, la Calabria. Che è lunga anziché no. Un paese dietro l’altro, comunità generate dalla stessa statale Ionica che rischia, ogni giorno, di farne strage. Bar, pizzerie, ristoranti. Il mare sulla sinistra. E cascate di peperoncini fuori dai chioschi. A Roseto Capo Spulico ci sono decine di sciarpe nel luogo in cui fu ritrovato, ucciso, Denis Bergamini. Ne onoreremo la memoria al ritorno. Ora abbiamo il tempo alle calcagna. La Salerno-Reggio è zeppa di interruzioni e lavori in corso. Da sessant’anni. O, forse, è proprio così che dev’essere. Dai ponti si scorge la Sicilia. In fondo alla scarpata, tra baie ricavate dalla roccia, le spiagge bianche sono punteggiate di bagnanti. Il display in macchina indica i 30 gradi. Ultimi chilometri allo svincolo per Villa San Giovanni. Il primo tratto di Sabrina è durato 570 chilometri. Un paio di inversioni azzardate e uno sguardo all’orologio. Manca un’ora al fischio d’inizio. Alla biglietteria dell’imbarco delle Ferrovie, ci comunicano che il prossimo traghetto partirà alle 15:45. Noi diciamo che veniamo da Foggia. Come se la risposta fosse la logica conseguenza di chissà che. La ragazza fa spallucce. Come la famiglia di Nazareth, cominciamo un frettoloso calvario tra i terminal. Finché non ci imbattiamo in una capanna. Il bue e l’asinello dietro allo spesso vetro ci alitano in faccia che tra dieci minuti si parte. E ci sparano un prezzo da furto. Bruceranno all’inferno. Presumo lo sappiano. I mezzi si incolonnano. Gli abitanti scendono a pascolare asfalto nel paese-imbarco. Qualcuno fotografa il mare. Ultimi romantici. Quando il traghetto attracca e spalanca sferragliando le sua interiora ad una volontaria ispezione autoptica, i professionisti del terrore principiano a lavorarsi ai fianchi gli sprovveduti. “Non ce la faremo mai. Il viaggio dura 40 minuti”. E se qualcuno prova a contraddirli, la risposta è invariabile: “Mo che vedi”. I profeti di sventura sono foggiani anche quando nascono in Slesia. A noialtri piace predire catastrofi che ci riguardano. E leggerne, sul volto degli altri, l’effetto che fa su di noi. Come allo specchio. È difficile da spiegare. Ma se Foggia fosse San Francisco, ogni giorno sarebbe il Big One. Sopra il blocco si frantuma. Tra ponte e bar. Una dozzina di incoscienti corre a comprare arancini con la stessa intelligenza di quelli che ordinano paella all’aeroporto di Barcellona. Ha fretta, la nostra stirpe. Sente la fine vicina. Da sempre. Al bar si fanno anche incontri interessanti. No, non quella col vestito blu. Quella è sposata e c’ha due figli, cazzo! Ma quelli che ci stimano e ci ammirano perché “noi di queste schifezze non ne facciamo”. Il rumore del mare è un taglio. Il Borghetti non ce la fa a risvegliarmi. Neanche le secchiate d’acqua in faccia. A terra ci aspetta la polizia. Inevitabile. Le segnalazioni saranno partite dal Continente. Messina è un curvone che trapassa il pontile di sbarco e sale. Scendiamo felici e pronti. Di Messina non vedremo altro. Ma non possiamo saperlo.

“Vi aspettiamo dalle due e mezzo”, dice il poliziotto della volante d’accoglienza. “Quanti siete?”, “Trenta, anzi trentuno, perché c’è anche una ragazza”. Suspance. I mezzi sul ciglio della strada. Il traffico sfila distrattamente per ascendere in centro. Il poliziotto sembra tranquillo e ben disposto. Sono quelli che non fanno carriera ad aspettare i ferryboat. Ci riferisce che è questione di minuti. Il tempo di sistemare il settore – anche se noi lo prenderemmo pure così, sporco e in disordine – e di organizzare la scorta. “Quanto dista lo stadio?”, “Cinque minuti”. Serpeggia insolito ottimismo. Una seconda e una terza volante sopraggiungono. Ma restano a distanza. Il plotone dei 30+1 si sparpaglia, si raggruppa in micro-comunità. Un furgone spento intercetta la frequenza della diretta dal San Felice. I minuti passano. E non succede niente. Se non radi dialoghi con i poliziotti buoni. Che sembrano impotenti. Sanno. Sanno più di quel che dicono. Poi, d’improvviso, l’assurdo. Giglio, di testa, su azione d’angolo. Il Foggia è in vantaggio. Gooooooooooolllll. Urliamo tutti. Mavafammok. Pensiamo. Sta squadra idiota. Con noi si intimidisce. Adesso, addirittura, sta vincendo a Messina. E noi siamo a due passi. E non possiamo vederla. “Lo fanno apposta, lo fanno apposta”, sussurra qualcuno, cattivo come un monaco a caccia di streghe. E propone il linciaggio. La mozione – che avrebbe vinto a man bassa – non viene votata solo per il sopraggiungere di due camionette. Che, a tenaglia sullo spartitraffico, sembrano nostre amiche come le truppe francesi a quelle tedesche sulla Somme. Siamo chiusi. E qui entrano in scena i tre del Comitato Centrale. L’ispettrice dice che no, senza biglietti non si va da nessuna parte. Gli altri le fanno eco: il botteghino ha chiuso all’una, nessuna eccezione possibile. Noi proviamo a scalare gli specchi siciliani, come quelli di Archimede. Si tenta la via dell’eccezionalità, tanto in voga presso le forze dell’ordine. Ma niente. A quel punto qualcuno sfodera l’arma segreta. E dice che siamo di Foggia. Questa cosa comincia a insospettirmi. L’uomo-digos fa spallucce. Non conosce la maledizione segreta nascosta in questa formula. Come me, del resto. Dire che siamo di Foggia equivale a “Per il potere di Grayskull!”. Fatto sta che non c’è spiraglio. E a noi non va di stare lì ore a discutere. Si gira il cozzetto. Si torna ai pulmini. L’uomo-digos ha anche detto d’aver provato a contattare i responsabili della società. Della nostra società. Ma che quelli non ne hanno voluto sapere. Meglio così. Le camionette organizzano un cordone sanitario per permetterci di ripercorrere i cinquanta metri a ritroso in tutta tranquillità (!). L’addetto all’imbarco fa sfilare il primo furgone. Poi alza la manina verso di noi, che seguiamo a ruota. Ci arrestiamo, con tanta fiducia nella sua professionale perizia. E guardiamo il furgone che è passato scivolare nel ventre della nave. E il portellone chiudersi, mentre quella cosa che galleggia si stacca dalla riva. Un nano-secondo di incertezza, poi tutti giù dalle macchine. Indichiamo il mostro che ha rapito i nostri amici. E l’afa diventa gazzara. Olè. Tutti noi contro gli sbirri. Tutti gli sbirri contro gli addetti. Tutti gli addetti contro i turisti. Tutti i turisti contro quello del meteo. Le pattuglie contro la celere. L’ispettrice contro la digos. L’Italia in venti secondi. Un gran casino senza responsabili. Perché le inflessibili ed eterne regole di un minuto prima, si volatilizzano cinque secondi dopo. Un digossino prova ad arginare le proteste annunciando che il prossimo traghetto partirà tra quaranta minuti. E lo dice come se fosse una cosa bella. Poi, vista la nostra reazione, manco fossimo poppanti, indica in mare una barca a caso e dice: “Eccolo! Eccolo! Quello è il vostro!”. Occhi stretti per lo stupore. Noi ci chiediamo tante cose. Tipo: ma perché non bloccarci all’andata, dall’altra parte, senza mettere in scena sta costosa pantomima? E soprattutto: ma a sto punto non era meglio farci vedere la partita? Ma ormai è tardi. E la legge – come ammettono anche loro – ogni zona d’Italia la applica “a modo suo”.

Dentro in tutta fretta.
La pancia del barcone è un hangar, solenne di pilastri come una chiesa di metallo.
Dall’altra parte, dunque, ci sono i Pescaresi. Ma questi sono furbi. Non lo ammettono. Sminuiscono. Corrono da una parte all’altra, si urlano ordini, per poco non si mettono le mani addosso. Eppure fingono serenità, come il Tg4 durante un colpo di Stato. Quando, però, le camionette s’imbarcano con noi, con un rumore di gomme assai simile ad un ingranaggio gigantesco, non si può più fingere che tutto vada bene. Si, ci sono i Pescaresi. Ma non ci saranno scontri perché “mica è una guerra”. Ehm. “Vorremmo farle presente, ispettrice, che un nostro mezzo, per vostra negligenza, è già in mezzo al mare. Come Capitan Findus, ha presente?”. L’istintivo dilatarsi delle pupille e la punta di pallore imprevista, oltre alla perdita istantanea del sorriso d’ordinanza, ci fa comprendere che no, questo non l’aveva previsto. E l’adrenalina dilaga. Nessuno sta più fermo. Ci immaginiamo pirati all’assalto per riscattare nella lotta i nostri mezzi caduti in mano nemica. Il braccio di mare è troppo vasto per le nostre aspirazioni. Un furgone di inglesi parcheggia dietro la camionetta. E gli sbirri rimangono imprigionati. Sul ponte ci guardano tutti. Come fossimo animali in gabbia. Poi d’incanto, la Calabria. Il portellone che si abbassa, lentamente, aprendo sempre più larghi squarci di luce in alto. Il porto di Villa San Giovanni è militarizzato. Blu fuori, blu dentro. Il Foggia raddoppia. E un grido di giubilo che stona col contesto s’alza barbarico da un abitacolo all’altro. Non vediamo nessuno, se non una fila di teste incuriosite e di auto con gli sportelli aperti. Quella della digos, che dovrebbe/vorrebbe portarci fuori di qui, per poco non si conficca in un ostinato vecchio al volante di un piroscafo a ruote. L’anziano riottoso ignora la paletta. E si incunea. L’ispettrice prova a conficcagliela nel cuore, scambiandolo – con ogni evidenza – per un Non Morto. Lì in fondo, si, li vedo. Li vediamo. Bloccati da svariati mezzi cingolati, i Pescaresi con la Away card sembrano immobili. Alla prima curva, un furgone dei loro ci incrocia. Parolacce reciproche, gestacci, tanto per non perdere il ritmo. L’imbocco dell’autostrada immaginaria che porta a Salerno. Soli, finalmente. Liberi. Di sbagliare strada e trovarci sotto Catanzaro ed un cielo a pecorelle tagliato dalle scie chimiche; di maledire la sorte che ci vuole assenti ad un 3-0 fuori casa; di scoprire che la domenica Le Fontane del Lido sono prese d’assalto; di scegliere un bar a Torre Melissa e di affrontare la nebbia e l’ignoto, ripercorrendo mentalmente una giornata di straordinario disagio, figlia di un inevaso quesito di buon senso. In fondo avevamo solo chiesto: “Capò, m’è fa trasì?”.

Qualcuno sostiene che siamo pazzi.
Che dev’esserci per forza qualcosa di distorto, finanche di malato, in certi comportamenti.

Quel qualcuno ha ragione.

07/10/13

Le case loro


“Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste.” (P.P.Pasolini)

Ah, l’avessimo fatto noi!
Allo scoccare del minuto di silenzio. Di (ipocrita, certo, mica dico il contrario…) raccoglimento per le donne, gli uomini e i bimbi morti a Lampedusa. Un urlo, un coro, uno sguaiato abbaiare. “Potevano restarsene alle case loro!”. Gridare invece di applaudire. O tenere la bocca chiusa. Come forma di ancestrale rispetto umano.
Li avremmo sentiti, gli untuosi, meschini Varriale. Sadici e lussuriosi nel loro finto sdegno moralista: “Gli Ultras sono il cancro del calcio!”, avrebbero sentenziato.
Prima di lanciarsi in disamine alla Crepet sul disagio giovanile, la forza ottusa del branco, l’assenza di valori positivi, la mancanza di padri. Prima di invocare la mano forte della repressione. Sarebbero tornati a dibattere, con la competenza di un monaco di clausura, di blocco delle trasferte, di chiusura dei settori, di pene da acuire. Avrebbero, compiaciuti e tonti, rispolverato il consueto arsenale di ferri vecchi: “Sono bestie, non tifosi, questi qua”.
Invece l’ha fatto un giornalista.
Ieri, prima di Foggia-Martina. Un giornalista. Anche se da queste parti si usa questo termine per definire qualunque pagliaccio che, al lunedì o al venerdì, va in televisione a dire che la difesa a tre è un azzardo e che questo Foggia non andrà da nessuna parte.
Ha urlato, mentre i duemila dello “Zaccheria” – Ultras compresi – erano in silenzio.
Perché la morte merita silenzio. Ha rotto l’incantesimo perché l’ansia di protagonismo supera la decenza, quando non si è nessuno. Se non quello che gridava quando il Foggia faceva gol in trasferta. Che è un po’ come tenere da conto il parere di quello che grida “Scope! Scope!” per strada. Con tutto il rispetto.

Ora, il punto non è la tanto invocata libertà di pensiero e di espressione. (Anche se poi ad invocare la costituzionale libertà sono sempre più spesso quelli che si riempiono la bocca col Fascismo in pillole).
Il punto è la disparità di trattamento.
Per un minorato che urla uno sproposito in tribuna stampa, non si invocano multe e galera. Non si impone la ferrea morale dell’Inquisizione. Ci si indigna superficialmente. Ma, di solito, si tace. Uno, perché non si ha il coraggio di andare controvento, rovinandosi il proprio bacino di amicizie utili (anche solo per entrare allo stadio con gli accrediti e tirare i piedi all’inverosimile). Due, perché magari il minorato ha – nel suo becerume – espresso un parere condiviso.
Certo, se fossero restati a casa (ammesso che ne avessero una non requisita dall’Agip Petroli), forse sarebbero ancora vivi. Come tutti i morti sulle strade. Come tutti i morti sul lavoro. Come tutti quelli investiti dai pirati della strada o sbranati dai leoni nei tendoni del circo. A casa, a meno che non ti crolli un pezzo di soffitto in testa o non ti dai fuoco ai fornelli, è più difficile morire. Ma sei bianco, europeo, caucasico. E puoi anche permetterti il lusso di spirare in trasferta. Nessuno lo noterà e, alla fin fine, rientrerà tra le attività lecite.
Quel che certa gente proprio non tollera, è il soffocamento derivante dal perbenismo di moda. Perché quelli, i morti di Lampedusa, erano negri. Ed è quello che crea lo scarto.
Da qui il bisogno di farsi sentire del razzista. Di scegliere con cura un proscenio. L’impossibilità presunta di definirsi compiutamente, coscientemente, razzista. Che opprime come un cappio.
E in un Paese ipocrita, che plaude la Bossi-Fini e indaga i sopravvissuti al naufragio mentre s’atteggia a dolente per i defunti e li considera, come Letta, compiutamente italiani post-mortem, la voce del giornalista in cerca di fama finisce per rappresentare la coscienza sporca, ma autentica, di una nazione che ancora si sogna serraglio monoculturale.
Per questo l’Ordine dei giornalisti si limiterà ad una strigliata di capo; per questo le varie emittenti locali non applicheranno alcun boicottaggio del personaggio, se non per un periodo molto limitato. Perciò anche noialtri non invocheremo i ceppi.
Perché è un uomo medio. E non è un Ultras.
Si possono punire quei cattivoni chiusi nelle gabbie dei settori, per sentirsi migliori.
Ma l’uomo medio non si può colpire. Perché è ovunque. Anche nel doppio fondo degli involucri più progressisti.
Del resto, come si spiegherebbe altrimenti la levata di scudi contro gli Ultras che, in una giornata afosa di agosto, schizzarono acqua sul guardalinee di Fano, procurando 1.500 euro di multa al Foggia di Casillo; e il silenzio complice che accompagnò gli 8.000 euro di sanzione che investirono la stessa società per i “Buuu” della tribuna centrale ad un giocatore dell’Atletico Roma?
Si spiega così. Che è più facile alimentare un folk devil esterno, che fare i conti con sé stessi.



03/10/13

Figli delle stelle


Mercoledì 2 ottobre 2013, Lecce-Foggia 1-0

La casa cantoniera è una grigia sagoma a forma di casolare che si staglia sulla più cupa delle notti stellate. Nell’abitacolo fa caldo da annebbiare i finestrini. Forse perché siamo in dieci. Forse perché il motore è acceso. Ma il furgone non parte. La frizione è andata. O forse la trasmissione. O chissà cos’altro. Così, all’improvviso. Come i meteoriti. Dio, perché ci hai abbandonato! Le due e mezza. E dalla piazzola fissiamo la cascina in lontananza. Riflessioni intime, complesse. In momenti come questi, tutto si srotola chiaramente sul proscenio delle nostre coscienze: la vita è un limbo tra un fusibile che salta e un alternatore che ci molla. Le trattative al telefono sono un nastro che gira all’indietro. Occhi stanchi, voci esasperate. Dov’è Dio? Dov’era a Palma Campania? I mezzi di soccorso stanno per partire. Da Torremaggiore a questo sprofondo, ci metteranno almeno un’ora. “Sembra affidabile”, aveva detto qualcuno a Brindisi. Parlando del nove posti e attirandosi addosso lo sguardo maligno della divinità. E l’Affidabile ci ha scaricati all’ultima pipì. Poco prima dello svincolo per Trinitapoli. Usciamo a fumare e l’escursione termica è glaciale. Sulla lurida piazzola di sosta, è perpendicolarmente caduto l’inverno. L’intera gamma dei supereroi. L’uomo torcia, l’uomo maxipizza, lo skinhead. Il pazzo dorme il sonno del giusto. E, placido, sogna deflagrazioni. Le tre di notte. E attendiamo l’aiuto da un cielo avido.

Eppure, stamattina era quasi primavera. La statale per San Severo appariva soleggiata. Le prostitute appesantite. Una sola spia gialla sussurrava d’un marginale problema al led del freno. Al distributore di benzina, all’ottimistico appuntamento delle cinque, un altro furgone recava la nostra medesima dicitura pubblicitaria sulla fiancata. Ci sono anche tre macchine. Un bel numero, rincuorante, per affrontare l’incognita. Lecce, sedici anni dopo l’ultima volta. Eravamo gemellati, un tempo. Ma un tempo, eravamo gemellati con svariati soggetti. Poi i rapporti si sono incrinati. Ma è sapienza di pochi. Non è strano, per chi come noi ha vissuto distante per così tante stagioni. Loro sono stati nuovamente falcidiati dalle diffide dopo la finale play-off persa col Carpi. La Nord del “Via del Mare” sconta oggi l’ultimo turno di squalifica. Una ventina di Peroni saranno appena sufficienti a calare sul Salento. C’è chi sostiene che si potrebbero investire in alcolici anche i soldi messi da parte per il biglietto. L’ipotesi di assistere alla partita è remota quanto l’improvviso benessere ad Haiti. Ma siamo in ritardo di buoni venti minuti sulla già ritardataria tabella di marcia. Quindi, ci accodiamo senza ulteriori discussioni, e i pensieri si vaporizzano. Le tensioni sono il frutto avariato dell’attesa. E le difficoltà si superano marciando. O viaggiando, come in questo caso. La SS16 è uno scenario familiare. Fino a Cerignola e a San Ferdinando, scivola liscia tra poderi diroccati, campi a perdita d’occhio e radi capannoni. Oltre Ofanto, s’incunea trafficata tra paesi in espansione, insegne e stabilimenti industriali. Le comunicazioni tra i mezzi della piccola carovana sono ridotte all’osso. È giorno pieno e ci teniamo d’occhio. Come i bambini il vicino di posto durante le gite scolastiche. Tra di noi, ipotizziamo una sosta dopo Monopoli, ma l’età è quella che è, e la birra gonfia gli stomaci e le vesciche. A Bari pisciano tutti. La sera ci coglie impreparati. Brindisi sembra sempre più vicina di quanto realmente sia. Nell’abitacolo si insinuano Gianni Bella e Miguel Bosè. Questo amore non si tocca! Le litanie e i cori reiterati si fanno più radi allo svanire del giorno. I vampiri sono all’erta. Un’area di servizio a quaranta chilometri dalla meta. Sono le 19:35. Ci guardiamo soddisfatti. Non è da noi essere in perfetto orario. Ci concediamo un giro di Molinari e Borghetti. Questo corpulento barista ha dei prezzi da night club. Ma, dinanzi alle nostre timide lamentele ultras, risponde che è lì dalle quattro del mattino. Noi ci intristiamo, manco fosse colpa nostra. Siamo dei mostri a non volergli dare cinquemila lire per una sambuca. L’aria è pungente e – finalmente! – rende necessari i giubbini. Cappucci, scaldacollo, felpe. Quegli attesi orpelli che rendono un brutto ricordo i torsi nudi di Teramo. Nell’oscurità, un bel gruppetto, non c’è che dire. Sta andando tutto liscio. Un mezzo dietro l’altro per l’ultimo tratto. Occhi aperti e cuore allegro. In radio passa del fruscio sottomesso alle chiacchiere. Trentacinque chilometri, trenta, ventinove, squillo al cellulare. Ha bucato. Una macchina ha bucato la posteriore sinistra. È ferma un chilometro indietro. Una disdetta. Un sortilegio. Ci fermiamo anche noi. Abbiamo le facce degli stoici. Di quelli che sanno che la sorte avversa non si può combattere, solo aggirare. In piedi sul parapetto della statale, illuminati dall’arancione intermittente delle quattro frecce, intoniamo cori alle stelle: Grande Carro alè, Carro alè, Carro alè, Carro alè!

Tangenziale Est. Siamo in ritardo di un quarto d’ora. Roba di lusso, per i nostri ritmi. L’auto dalla gomma bucata sfoggia un timido ruotino sgonfio. È al centro del plotone. Il raccordo con lo stadio è lungo e deserto. Le luci del “Via del Mare” sono ormai visibili sulla destra. Il cartello che indica “Tifoseria ospite” è involontariamente ironico. Ha la stessa valenza archeologica dell’indicazione per i templi di Agrigento. In un futuro prossimo, le Pro Loco organizzeranno torpedoni per andare a visitare i settori, e una guida autorizzata dal Comune parlerà agli arzilli turisti dell’epoca in cui tanta gente si spostava per seguire la propria squadra. Di quando altri torpedoni inondavano le vie di comunicazione. Indicheranno i gradoni. I turisti scatteranno foto. Entriamo nel parcheggio. Deserto e buio. Peggio della repressione, c’è l’indifferenza. I varchi per il settore sono qui di fronte. Ma non c’è nessuno a darci il benvenuto. O a dirci che dobbiamo sloggiare in tutta fretta. L’adrenalina diventa uno straccio per asciugarci uno sconfortato sudore. Bussiamo ad una camionetta. Non abbiamo scelta, se non vogliamo rimanere nel piazzale fino alle prime luci dell’alba. Il poliziotto anziano ha le gambe distese e gli scarponi sul cruscotto e lo sguardo assopito. Uno sguardo da turno d’ottobre della Coppa Italia di Lega Pro. Si volta placido, come se dovesse dare un’informazione stradale. Ci vede. Si scuote. E bestemmia. Non si può mai stare tranquilli. Scendono. Diciamo quel che diciamo sempre, che al netto dell’ideologia da trasferta senza tessera, è la più schietta delle verità: “Dobbiamo fare il biglietto”. La partita è iniziata da 25 minuti. Il Foggia, incredibile a dirsi, perde già uno a zero. Giro di telefonate. “Come mai questo ritardo?”, “Abbiamo bucato”, “Quanti siete?”, “Trenta”. Nessun problema. Cinque euro a testa e via. Il whiskey può attendere. Mentre Haiti comincia a sperare. Varcare un cancello non è mai stato tanto eccitante come in questo periodo. Ci raduniamo ai piedi della scalinata interna. Entriamo tutti assieme, compatti, in linea. Senza tessera, ovunque ti seguirem, ovunque ti sosterrem, senza tessera. Nel deserto, l’urlo di trenta persone può diventare un tuono. Qualche fischio dalla gradinata, ma tutto sommato l’impressione è quella di essere andati a disturbare una veglia. Le curve vuote, qualche centinaio di spettatori in tutto. Seduti. A guardare il rettangolo. Lo guardo anch’io. Mi emoziono a pensare alla prima volta che lo vidi, in notturna. 1992. Ventuno anni fa. Ci posizioniamo. Noi del Foggia. Noi del Foggia. Noi del Foggia. Siam gli Ultrà.

Non parliamo di calcio. Perché quelli lì, in maglia bianca, col pallone proprio non ci dialogano. Anzi, sembra vi sia un astio esplicito. Quando Zizzari fallisce a porta vuota, lo sconcerto lascia il posto all’ilarità. Si urla a squarciagola in uno stadio vuoto. Non è mai una bella impressione. Ma noi siamo su di giri. Volevamo esserci, e ci siamo. Non possiamo non dedicarci Storia d’amore. Da prendere sul serio come ogni pezzo di Celentano. Tirati in volto e determinati, votiamo per alzata di mano la versione di Che bello è che più ci aggrada. Vince l’immancabile Vesuvio. Berlusconi vota la fiducia. Curva Democratica conquista una vittoria storica. Io trovo un euro. Lo intasco con gusto, immaginando d’averlo sottratto ad un tesserato. Ma se così non fosse, se qualche non tesserato ricorda di aver perso un euro nel settore ospiti di Lecce, può contattarmi in privato. Glielo farò recapitare. Il resto, è silenzio. Il Foggia non ha vinto, stranamente. Ma epicamente viene sotto la curva. Cessi! Cessi! Cessi!, vorremmo gridargli, come zii in tribuna. Siamo sempre con voi è quel che diciamo davvero. Ma la cessaggine è fuori discussione, nascosta tra le righe del sostegno. Poi il rettangolo di gioco si spoglia. E solo a quel punto, dinanzi al niente, possiamo urlare con tutto il fiato residuo che abbiamo in corpo, che in campo c’è solo il Foggia.

PS: Tuturano

PPS: “Non entrano più le marce, uagliù”, “Meh, che veramè!”, “Si, giuro”.

30/09/13

Santa Croce

Domenica 29 settembre 2013, Tuttocuoio-Foggia 2-2

Ci sono zone in cui il WWF non s’addentra.
Zone che la Protezione civile ritiene sicure di per sé. Sostenendo, non senza ragioni, che non corrano il rischio d’essere raggiunte da mano umana. Metti i Pink Floyd. Ci sono percorsi non obbligati. E cartine geografiche soppiantante dai Tom-tom che soppiantano il libero arbitrio.
E ci siamo noi.
Tra i boschi che Sereno Variabile definisce immancabilmente “di lecci e di castagni”. Tra colline dolci sovrastate dal cielo nero e scosse dalla pioggia. Tra i vitigni. Su e giù. Inseguendo una libellula in un prato. Tra cartelli che indicano Siena ed altri che rimandano ad Arezzo. E una vaghissima idea dei sussidiari delle Elementari. Seguiamo Firenze come certi monarchi francesi il sogno di Grendeur. Non confessiamo a nessuno che temiamo seriamente d’esserci smarriti. Parliamo. Di quel che siamo diventati. Di quel che è diventato il sistema entro il quale ci muoviamo. Una piazza come la nostra, che muoveva moltitudini quando il numero era più importante dello stile. Ridotta ad un paio di nove-posti verso una meta sconosciuta come la Norvegia. San Miniato? Ponte a Egola? No, Santa Croce sull’Arno. Concetto semplice, che solo la cocciutaggine di chi ancora non s’adegua, impedisce di farsi destinazione concreta. “In sette ore ce la facciamo?”, “Evò”. La Campobasso è un sentiero in braille. Si percorre a tentoni conosciuti. Il Cristo “a rondine”, il curvone a destra che trasporta mugugni, i bar di Venafro. A Cassino, a giudicare dalle crocerossine in divisa, la battaglia è ancora in corso. E la linea del fronte tedesco non si sfalda. No, non abbiamo i Pink Floyd. Sentiamo quel che si prende. Radio Maria si prende sempre, ma è un’ovvietà. A Firenze ci sono i mondiali di ciclismo. E diluvia. Ad Arezzo, annuncia Isoradio, c’è un incidente. Io penso che vorrei fare il concorso per lavorare nell’Aiscat. Il furgone che ci precede vibra pericolosamente. Sembra l’asse delle ruote posteriori. Il gommista annuncia che trattasi di gomma ovalizzata. La cambia, si sporca e vince una birra. Perdiamo mezz’ora. Ma la tabella di marcia verso il nulla non pare risentirne. Rientriamo sulla A1, involandoci verso la tempesta. In amor vince chi fugge. Lo svincolo pare una svolta bucolica, un modo per riempirci gli occhi dell’agreste Toscana che il mondo ci invidia. Si rivela un denso passaggio a vuoto. Questo dev’essere il Chianti. O il Nevada. I contatti tra i due mezzi sono una scarica elettrica tra cellulari. La domanda è reiterata. E serve per il navigatore: “A Santa Croce… ma sono sedici volte che lo ripetiamo!”. Non entra in testa, come la tabellina del sette. Poi la statale sembra vezzosamente costeggiare un fiume. L’Arno. Come i pellerossa, decidiamo di seguirlo. Arriveremo alla baita. Valichiamo Montevarchi, San Giovanni Valdarno, Figline, tra i ritratti di Coccimiglio, di Ciccio Baiano e dell’ultima tragica C1. A Incisa guadiamo il fiume. “Sembra Pontevecchio”, esclama una voce in prima linea. “Dov’è che siamo?”, gli fa eco una seconda, in seconda. “Pontevecchio”. “Efess, angor?!”. Il malcontento dilaga. Dovremmo esserci quasi, ma sono quasi le quindici. L’abbiamo presa larga. E fortuna che non ci vediamo dall’alto, a volo d’uccello. Che i nostri miseri occhi umani non possano partecipare alla percezione della deviazione che, in realtà, seguendo la carreggiata, facciamo. Pontassieve. E piove. E per radio dicono che il Cagliari è impegnato con l’Inter e la Juve ha rubato. Viviamo in un deja-vu, come il modellino di una nave in una bottiglia. Sembriamo Albanese in “E’ già ieri”. Dal campo sportivo ci chiamano quelli della Brigata Bologna: “Ma dove cazzo siete?”. Noi vorremmo dire che lo sappiamo, ma non sappiamo mentire. E, siccome a chi dice bugie Gesù mette in fuoco in bocca, scoppiamo a piangere. “Calmi, state calmi, che la biglietteria rimane aperta per tutto il primo tempo”, “Ma voi avete fatto i biglietti?”, “Si, si, tutto a posto”. Da lontano c’è la cupola del Brunelleschi. “Ma non dovevamo passare per Firenze?”, “Si. Quella è Cleveland, difatti”. L’umore migliora. Come un condannato a morte che tenta il suicidio e viene curato, la bella notizia dei botteghini viene subito bilanciata dal gol del Tuttocuoio. “Ma tu quindici anni fa pensavi che avremmo mai giocato col Tuttocuoio?”, “No. Ed è per questo che adesso non do per scontato che tra quindici anni l’Italia sarà ancora una penisola”. Il casellante ci garantisce che tra venti chilometri saremo giunti a destinazione. Dopo trenta non è ancora successo niente. E quello che succede al quarantesimo, è un quadro impressionista della nostra confusione mentale. (Noi dovremmo giocare solo con squadre che hanno una stazione ferroviaria dove ferma un Intercity). Il primo furgone, stanco di proseguire dritto verso Pisa, imbocca un’uscita. A caso. Quelli che, dal mezzo che segue, assistono impotenti all’insano gesto, non hanno la forza di reagire. E siamo a San Miniato. Il perché siamo qui, beh, è tutt’altra storia. Il Tom-tom ha preso, a tutti gli effetti, il comando del battaglione. Il Tom-tom è il nostro capo-ultras. Dovesse diventare anche il nostro lanciacori, sarebbe affascinante. “Tra duecento metri: Il Foggia è tutto per me”. Un reticolo di vie, di cos e cos. Nomi a vanvera e inversioni di marcia. Pianto incipiente. E, dopo tanto vagare, un ponte. Chiediamo ad un fulminato al volante dove diamine giochi il Tuttocuoio. Quello ci indica la strada per i Campi Sportivi. Più d’uno, che esagerazione! E mentre attendiamo che scatti il verde, viviamo il miraggio collettivo di un nove posti che ci taglia la strada in senso inverso. Ma ormai, non distinguiamo più la realtà dalla messinscena. Giungiamo al “Masini” durante l’intervallo. Ci sono altri foggiani, fuori. Ci stavano aspettando, sostengono. E il tono sembra quello di un rimprovero. E via col valzer. Un tipo in rosso con l’auricolare, frettolosamente ribattezzato Ispettore, ci parla placidamente. Dice che ormai la Signora-del-botteghino ha chiuso e lui non può farci niente. Chiediamo dove sia adesso la Signora-del-botteghino. Quello, col dito, ci indica la volta celeste, tanto da farci sospettare che la Signora-del-botteghino sia la Madonna di Pompei. Cerchiamo di essere diplomatici. Ma quello rientra, riesce da una porta di ferro, poi ripete che no, non può proprio farci entrare. A quel punto il nostro rappresentante si lancia in un’accorata filippica di cinque minuti. Le nostre ragioni, tutte. In foggiano stretto. Noi annuiamo convinti. L’Ispettore improvvisato ha gli stessi occhi nel vuoto di Paolo Brosio. Al che una voce intima al rappresentante: “Forse è meglio che parli in Italiano”, ma quello si risente, e sbotta: “Il dottore capisce, non è mica del Venezuela!”. Lo dice in foggiano, ovviamente.
Il “dottore” dice che capisce.
Il “dottore” finge.
Il “dottore” è una meretrice.

L’ultima trattativa naufraga come la Conferenza di Monaco. Restiamo fuori. Il botteghino ha una tettoia. In piedi sulla tettoia, il rettangolo di gioco si vede meglio che dal settore del “Viviani” di Potenza. Saliamo tutti. Il Foggia, in maglia bianca, sembra manovrare con difficoltà, ma manovra. Noi diamo il via al sostegno. In gradinata, diversi foggiani non residenti. In tribuna, diversi foggiani non residenti. Il Tuttocuoio è nero verde. Torna in mente il 4-2 di Sassuolo. Il trauma collettivo. Di solito, la tua infanzia finisce quando capisci che puoi prendere quattro gol a Sassuolo. I bolognesi escono e ci raggiungono. Anche per questo, è bello avere un gruppo. Quando i tuoi rinunciano ad un posto in tribuna per darsi alla macchia al tuo fianco. Il Foggia pareggia su rigore. Poi passa addirittura in vantaggio, su rigore. L’impressione è che, senza rigori, non segneremmo mai. Questa evidenza un po’ intristisce. Noi cantiamo, i residenti al Nord ci fotografano, la digos ci video-riprende. La Sigora-del-botteghino ci guarda e veglia su di noi. Dall’alto dei cieli. Siamo in dirittura d’arrivo. Sta arrivando la prima vittoria della stagione. C’è entusiasmo. Io guardo spesso giù. Il salto che mi riporterà a terra mi preoccupa. Vorrei evitare il Pronto soccorso di Santa Croce. Ma, nel bel mezzo del pensiero stupendo, il Tuttocuoio – che non è il Cuoiopelli, a quanto pare – pareggia. Come, bene bene, non s’è capito. Mancano tre minuti. E il Foggia non ha la forza di tornare a galla. Applausi alla squadra sotto la tettoia. La sensazione è che questi ragazzi siano il proverbiale elefante che, dopo atroce sforzo, non possa partorire che topolini. Tre miseri punti in cinque partite. Dopo aver dato l’idea di una fatica immensa. Ma non c’è tempo per pensarci. I saluti con i non-residenti sono frettolosi. Neanche il tempo di una birra. Bisogna consegnare i mezzi. Riprendere l’autostrada. E quando vediamo il primo furgone puntare decisamente su Pisa, ignorando che la Firenze-Roma si chiama così perché si imbocca a Firenze, capiamo. Che sarà involontariamente Aurelia. Cecina-Grosseto-Civitavecchia. Un rosario d’acqua a secchiate, il caso della cioccolata alla fidanzata che sparge acredine tra gli abitacoli, tre improvvisi cedimenti del motore. E un panino con la coppa a 1,90.
In definitiva, non è successo niente.

24/09/13

La formula dell’alchimia



Domenica 22 settembre 2013, Melfi-Foggia 0-0

Il libro è voluminoso, aperto sul leggio, due passi corti a destra dell’ingresso laterale. Navata della cattedrale.
Amate dunque lo straniero, poiché anche voi foste stranieri. Deuteronomio 10:19.
Fuori, la piazza si sviluppa rettangolare. Le nuvole grigio-nere scalano le colline. Il vento prematuramente gelido sferza l’acciottolato. Un deserto che conosco. Mi prendo i meriti d’aver indossato una felpa. Anche se so che non è andata così. Solo con la camicia da macellaio serbo sarei eroicamente svenuto. Casuals. Oggi eravamo tutti casuals.
Il rumore dei passi riecheggia nel silenzio totale del pomeriggio. Qui non arriva l’eco di Tutto il calcio minuto per minuto. Il bar è distante. Il whiskey dovrebbe sempre avere dei bicchieri adatti. La Roma sta vincendo il derby, il Sassuolo è già matematicamente retrocesso alla quarta giornata. Ma quel calcio ci interessa quanto il terrorismo islamico in Somalia. O le dispute di confine nello Yemen. Il boato che arriva ai gol dell’Inter, poi,  è così simile a quello della Partita del cuore da mettere i brividi e riempire di sgomento. Meglio inoltrarci tra il pulpito e il coro di questo duomo normanno. Il campanile è chiuso. Saremmo saliti volentieri. Magari dal punto più alto, saremmo riusciti a vedere il cerchio di centrocampo. Respinti, siamo stati respinti. E i soldi che abbiamo risparmiato al campo, li spendiamo in J&B, Glen Grant, Borghetti e Jameson. E mettiamo pure i 50 centesimi nel marchingegno pretesco che serve ad illuminare la teca dietro l’altare maggiore. San Teodoro Martire è un cadavere, riesumato dal cimitero di San Callisto. Non ce l’aspettavamo proprio.
Veniamo dal castello. Che il cielo così malridotto dava un senso di Cornovaglia. Si alle residenze inglesi! Veniamo da un altro bar, sfuggito alla mareggiata degli anni Zero. Angusto e affollato di oggetti sepolti. Svariate pubblicazioni sul brigantaggio lucano esposte in una vetrinetta, souvenir da autogrill, quaderni, chewing-gum a palline nella boccia di plastica trasparente, la reclame di una marca di perizoma. E il rude bancone, vagamente obliquo, variamente sprofondato da un lato. Più che un bar, uno spaccio di alcolici incastonato nella cambusa di una nave a picco. Il nostromo è rude quanto il bancone. Radionorba in sottofondo ci annaffia di Bisceglie-Taranto. Ma è quando dice qualcosa a proposito del Martina, che il nostromo s’inalbera. “Oggi c’è Melfi-Foggia”, annuncia con un misto di sdegno e rimpianto, come se noi non lo sapessimo. Riempie i bicchieri da amaro come se versasse Novalgina. Il whiskey dovrebbe sempre avere dei bicchieri adatti. “Che brutta fine ha fatto il Foggia”. Ci guardiamo. Non replichiamo. L’evidenza, del resto, è evidenza. Ma quello insiste, e dopo aver fatto gocciolare un Caffè Sport in un altro recipiente a caso, e aver sparato 2,50 per una focaccia neo-borbonica, proclama che “poi, il Foggia non merita neanche di stare in questa categoria. Il Melfi meritava di essere ripescato in C1”. A quel punto, è inevitabile farsi diga e arginare lo sproloquio. O, quanto meno, chiedere – di grazia – da cosa nasca quel dispari e bizzarro convincimento. Si inalbera: “Sono undici anni che siamo in C2”. E l’affermazione dovrebbe bastare. Perplessi, facciamo notare che – se così fosse – noi dovremmo essere in Europa League da un pezzo. Solo a quel punto Mastro Livore capisce che siamo foggiani. E ci accusa: “Voi siete stati ripescati ingiustamente!”. Ma no, buon oste, noi eravamo belli placidi in Prima divisione, salvi e satolli. È che siamo falliti. Ma quel che ci è giunto non è che la metà di quel che ci spettava. Niente da fare. “Noi meritavamo! Foggia è una città, noi siamo un paese!”. E la sentenza, unitamente allo sguardo fisso e vitreo e al timore che ci tolga – per punizione – la residua dose di liquore nei bicchieri, ci porta a convenire. I paesi meritano di essere ripescati. In quanto tali. Il Tuttocuoio dovrebbe, a quest’ora, essere nel girone col Marsiglia. Un altro giro di alcool. Altra tirchieria militante. E la polemica sulla focaccia rancida, che rischia di rompere definitivamente i rapporti bilaterali. Come per le due Coree. Usciamo a respirare. Il castello, “dimora prediletta” di Federico II. Come tutte le altre. “Leggenda vuole che intorno al 1520 il signorotto locale sovvenzionasse un oscuro personaggio, un frate dall’identità sconosciuta, incaricato di trovare il modo di trasmutare i metalli in oro con l’utilizzo dell’alchimia. Pare ci fosse riuscito. Le sue formule alchemiche sono vergate da qualche parte nel castello, ma nessuno le ha ancora trovate”. Noi veniamo bloccati all’ingresso e manco ci proviamo. È un giorno scorbutico, questo. Sostiamo nel patio fortificato, a parlare di cavalleria medievale e di streaming che si blocca. Abbiamo avvisato casa. Nel caso dovesse succedere qualcosa al campo, un colpo di telefono. Ma i mezzi di comunicazione tacciono.
Ci va bene un pari a Melfi? Boh!
Di fondo sta che ci eravamo avviati carichi di speranze. La distanza ridotta, la cittadina meridionale, inducevano ad un ottimismo senza basi. Nell’ultimo tratto della superstrada, quello che aggira il paese per puntare verso Rapolla, un paio di pattuglie della polizia ci avevano obbligato ad aggrottare le sopracciglia.
Al parcheggio del campo sportivo, poi, la camionetta e le due macchine della polizia, ci convincono che non sarà semplice. Siamo una settantina. Avanziamo colorati. Non siamo male affatto. Il poliziotto più anziano ci viene incontro. Il dialogo non è aspro, ma breve si. Dice che contatterà il funzionario per imbastire una bella trattativa. Il campo è oltre questa discesa di asfalto e ghiaia. Oltre la radura e i container dei terremotati. A concentrarsi, si intravedono i fari tra gli alberi e uno spicchio di tribuna. Il poliziotto anziano torna scuotendo il capo. Il dirigente è già nello stadio e non intende parlarci. Crediamo sia l’inizio di un braccio di ferro. Abbiamo tutta la calma e la pazienza che servono. Ci spiegano che “il Termoli ha avuto una multa di duemila euro due settimane fa”. Prima di rispondere che la cosa non ci riguarda, capiamo che parla del Teramo. E la cosa si, ci riguarda. Ma perché un dirigente di polizia si preoccupa delle multe di una società di calcio? È come se un il procuratore di Messi si occupasse di spaccio. Ma magari lo fa. Ad ogni modo, lo stallo è totale. Stancante. Siamo un branco di orsi in gabbia. Ci muoviamo avanti e indietro, come galeotti. Qualcuno guadagna terreno verso la campagna, il fianco della collina, e alza il collo per provare ad immaginare il terreno di gioco e gli spalti. Ma da qui è impossibile vedere. Si sentono, invece, i cori dei padroni di casa. Anche degli ospiti tesserati. L’attesa logora. I minuti passano lenti. E dopo mezz’ora, chiediamo nuovamente l’incontro al vertice. Ma il funzionario è inflessibile. Non si tratta coi non-tesserati. È andata buca, ormai è chiaro. Ma ci siamo. E ce lo siamo detti da subito: comunque vada, lo facciamo per noi. Quindi, zero rimpianti. A testa alta, verso il sottobosco e controvento. Le mani al cielo. L’urlo, secco: Curva Nord Franco Mancini! E l’impressione che, dal basso, qualcuno faccia silenzio per qualche secondo. Del resto, nessuno si era illuso che a Melfi avremmo trovato proprio noi la tanto ambita formula dell’alchimia. 

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