09/11/13

La trasferta più lunga



Quando ricevi certe notizie, la prima cosa che ti viene da esclamare è: “Stai scherzando?”.
Una domanda istintiva, stupidissima. Come se fosse perfettamente normale che qualcuno possa divertirsi ad annunciare una tragedia. Ma lo metti in conto all’indole. L’incredulità è una forma di resistenza umana dinanzi all’orrore. E la morte rientra – tra gli orrori – in pieno.
Così, cominci a fare telefonate, ossessivamente, freneticamente. Anche se tutti i tasselli combaciano alla perfezione e non lasciano spazio ai dubbi. O al fiato. Quando l’evidenza è contro di te e la tua sciocca speranza di sfuggire. E resti incredulo. Ti lasci sopraffare da un senso d’emergenza, di straordinarietà. Il giorno non è più lo stesso giorno, la via in cui ti trovi non è più la stessa via. E la gente attorno svanisce. Perché non sa e non partecipa.
E ti salgono alla mente i ricordi.
Ho pensato a Napoli. Al Vomero. Alla volante della polizia che mi scarica nello spiazzo del casello, dove i pullman e i furgoni sono, nella prematura sera autunnale, illuminati a intermittenza dai lampeggianti delle camionette. A quell’abbraccio inatteso. Alla sincerità di un’empatia che superava i ruoli, le pose, le mode. “Cazzo, mi dispiace!”. E null’altro da aggiungere. Se non sdrammatizzare. Perché anche saper sdrammatizzare, in un mondo che oscilla pericolosamente, perennemente, sul baratro del fanatismo, è una dote preziosa. Ti conserva umano. Ti porta a relativizzare. Eppure giochiamo seriamente, noialtri. È complicato capirci, nei nostri apparenti deliri di onnipotenza. Nei nostri discorsi sull’onore e la supremazia. Nei nostri scazzi. E sapere che c’è qualcuno che – nella semplicità dell’atteggiamento, in uno sguardo canzonatorio o nel doppio fondo di un mezzo sorriso – ti ricorda che, alla fine, stai giocando, è vitale. Ti mantiene sulla terra. Ti riporta ai bisogni autentici, ti restituisce i valori.
C’è una dose di egoismo anche nel dolore. È il tuo mondo che intendi conservare quando scuoti la testa e ti ripeti che non è possibile, che sembra ieri che stavamo lì a discutere dello striscione in Sud, del gruppo o del passaggio dei Pescaresi su Viale Ofanto. Ti aggrappi con le unghie al terreno che scivola sotto i piedi. Mentre il passato si spopola, lasciandoti solo con un presente che, più lo guardi, più non ti somiglia. Che non ha i contorni di città in cui sei cresciuto. Matteo era in balaustra. E cantava forte. Per spingere la squadra. Tu eri un ragazzino e volevi imitarlo. E lo seguivi, come logica conseguenza. Dapprima in casa, rispondendo al suo incitamento. Poi in trasferta, con le migliaia di lire per un bigliettino con un numero che corrispondeva al tuo nome. Sul pullman o sul treno speciale. Tutto qui. Semplice. Elementare. Come dev’essere.
E ti ritrovi dentro un universo parallelo governato dalla passione, quando qualcuno ti ci traghetta. E ti accorgi che non è poi così sciocco cantare a squarciagola per quelle maglie in campo. Non è disdicevole , né imbarazzante. È magnifico.
Eppure, c’è stata gente che questo passaggio non te l’ha mai fatto vivere come un rito iniziatico, come roba da massoni. Beh, è a questa gente che bisogna riferirsi quando si parla di “vecchio stampo”. E quando questa gente viene a mancare, manca sul serio.
Il fuoco di decine di torce. Come quando non era proibito.
Le teste da una parte all’altra dei gradoni. Come quando non si era in quattro gatti. E lo stile contava tanto quanto. Le mani al cielo. Tutti. Un solo striscione, un solo nome. Quello a cui dobbiamo quel che siamo, in un modo o nell’altro. Il coro: Come i vichinghi re dei mari. E non ho pensato più all’sms del primo dell’anno, quello con cui ci auguravi serenità e felicità; né alle lavate di testa ai giocatori negli spogliatoi; né a quella volta coi giornalisti; né al fatto che no, non mi sei mai sembrato cambiato dal Novantuno. “Insò, Mattè, come lo vedi sto Foggia?”. Ho fissato la foto sul carro funebre. Incredibile. Puoi non frequentarti per mesi. Ma sapere che le persone ci sono, è un’assicurazione sulla vita. L’ultima volta ci siamo incrociati di sfuggita. Non mi avevi visto. “Buon lavoro, Mattè”. E mi hai risposto voltandoti di scatto, col sorriso di chi sa che – oltre ogni divergenza scaturita dal gioco di quel mondo parallelo in cui quelli come te ci hanno traghettato – sono queste le cose che contano. Il rispetto, l’onestà, la sincerità. Come i vichinghi re dei mari. Ed è salito il magone. E la rabbia. Per la tua vita, per i tuoi figli, per la tua famiglia. Per come è andata. Per come non doveva andare. Ma anche per noi tutti. Uno accanto all’altro in quella che era la nostra casa. Così presi dalla gara del chi è migliore da dimenticarci che, uniti, siamo uno schianto. Così coinvolti nelle nostre esistenze separate da dover attendere la morte di uno di noi per ritrovare il senso di ciò che ci legava. Questo, come capita nelle famiglie, ci ha insegnato la tua morte orribile, Matteo.
Il dramma è che non impareremo proprio un bel niente.

Buon viaggio. Se esiste un Aldilà, di sicuro non avrà il prefiltraggio.

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