30/12/10

Consuntivo malinconico

Mio padre mi sorride complice, dall’altro lato del tavolo: “Hai visto Fratena?”. Usa lo stesso tono con cui, da bambino, mi chiedeva retoricamente: “Meh, sei contento mo?”. Quando dava per scontato che lo fossi.
Il giro sulle macchine a scontro della villa.
Il grande sogno domenicale mio e di mio cugino Guido.
Alla fine della giostra, ritornato sulla terra, la voce di mio padre incombeva implacabile: “Meh, sei contento mo?”. Era un’apertura, certo, ma soprattutto una chiusura di credito. Della serie: hai fatto quello che volevi, adesso ti spegni. E non rompi le palle con ‘sti capricci da fighetto. Capisco l’antifona di allora.
Nel presente di questo pranzo non so come interpretarlo. “Hai visto Fratena?”, “Sei contento mo?”. “La smetti di rompere una buona volta?”. Fabio Fratena, il Buitre di Capitanata, il nostro numero 7 negli anni che furono. Negli anni eroici. L’unico idolo che abbia mai avuto.
Si, certo, cerco di cancellare l’infatuazione – che era mia ed era collettiva, a parziale discolpa – per quell’essere immondo che risponde al nome di Beppe Signori. È rossonero, cantavamo come degli idioti all’Olimpico, mentre quello ci pugnalava alle spalle ed esultava sotto la Nord. Basta, finito, cancellato. Mi dissi, in un amen. Fabio Fratena, il biondo, non l’avrebbe mai fatto. Altra tempra di persona, altro calcio.
Finì la sua carriera in un sabato di Pasqua, in quel di Caserta. Tornò da nobile comparsa nella prima serie B di Zeman, quella con la Pasta Delverde sulle maglie. A godersi un traguardo che più di ogni altro aveva meritato. È tornato ancora nell’intervallo di Foggia-Cavese, insieme ad altri ex, appositamente per festeggiare i 90 anni dell’Unione Sportiva.
Mio padre mi sorride. “Insomma, hai visto Fratena?”. È come riportare indietro gli orologi, riscoprire tra le nostre strade differenti e reciprocamente incomprensibili – i diversi, opposti modi di essere tifosi di una squadra, di una maglia – un preciso punto in comune, quella scintilla primordiale di complicità che ci rende, nonostante tutto, simili. A me non viene da ricambiare il sorriso. E non certo perché non voglia anch’io sentirmi parte di quel tutto. Non sono mica uno snob. Si, papà è un tifoso da salotto, ormai, capace di ingoiarsi d’un fiato le tre ore di insulsa diretta di Telefoggia, le cronache di Mario Schena su Teleblu, finanche la replica delle nove e mezza, e poi Baldassarre, Marsico, quello di Gercap. Ma di tornare allo stadio, no, non vuol saperne. Io ho le mie chiacchiere da ultrà. Le trasferte, i chilometri, i cori, senza saper riconoscere i giocatori, né volerlo; non ricordando interi quarti d’ora di partita. A volte, allo stadio, mi capita di concentrarmi su quanto avviene in campo. Di concentrarmi sul serio, come quando si studia Storia Bizantina. In quei minuti, decido che devo avere un’impressione, un parere, che mi servirà a dimostrare a mio padre che seguo, partecipo, comprendo. È un’usanza antica, di quelle che si trascinano compulsivamente. Come l’abitudine di ricordare a memoria i numeri estratti sulla ruota di Bari per dettarli poi a nonno Antonio, in un’epoca pre-Televideo. E quando mi accorsi che continuavo a farlo anche anni dopo che nonno se n’era andato, mi spaventai dinanzi alle certezze del cervello, inossidabili nonostante le perdite del presente.
Ma stiamo divagando.
Tornando sul punto: no, avrei voluto rispondere, non ho visto Fratena. Non ho neppure fatto caso che ci fosse. Ero giù, alla ricerca di un liquore clandestino, e mi sono compiaciuto quando ho sentito esplodere una cipolla, da qualche parte. Sotto l’albero c’è una multa in più, continuavo a cantare con gli altri. Indicavo la tribuna, dove immaginavo con soddisfazione il masticamento amaro di Pasquale Casillo. E gli altri spettatori della curva ci puntavano, ci chiedevano di smetterla con quelle canzonacce, che così stavamo rovinando tutto. Gridavano “Zeman Zeman” come a esorcizzare la nostra stessa presenza, ma senza gli ultras nessun coro può ambire a durare. E l’altoparlante della tribuna gracchiava qualcosa. No, non ho sentito il nome di Fabio Fratena. Non ne ho sentito nessuno. Perché a un certo punto è nato il solito faccia a faccia. Quei tifosi che di lato ci insultavano, perché la contestazione alla dirigenza, i cori contro Maroni e la Tessera, dal loro punto di vista, stavano stravolgendo le abitudini dello Zaccheria, rendendolo di botto un serbatoio di tensioni inesplose. E non quel catino infernale che dovrebbe essere. Anche nel giorno della gran festa. E, probabilmente mentre il mio idolo sfilava a centrocampo, io attaccavo a testa bassa.
Il solito concetto, ripetuto nei mesi fino a perdere ogni pretesa d’immanenza: caro il mio tesserato, quando Casillo ti ha ricattato promettendoti un posto di curva in cambio di una schedatura, sapevi benissimo a cosa andavi incontro. Quando hai risposto di “si” al sondaggio anti-ultras di Maroni, sapevi che ci avresti inferto un colpo probabilmente mortale. Ora che vuoi? Perché vorresti che sospendessimo tutto, che soffocassimo noi stessi, per il bene dei giocatori, dell’allenatore famoso e della dirigenza? E gli sguardi si fanno astiosi, perplessi. Divisi. Come gli abitanti di Berlino negli anni Sessanta, da un muro invisibile.
Un po’ come con mio padre, a cui non so spiegare perché non ho visto Fratena e no, non sono affatto contento mo. Ci hanno gridato “Fuori! Fuori!”. Siamo il sale di troppo che guasta la minestra. Altro che scintilla primordiale, altro che spirito comune, altro che complicità, parti differenti del tutto. Maroni, Casillo, chi per loro, hanno smascherato l’indole di questa gente. E mi hanno tolto quel gusto di sentirmi uno della comunità. Quella forza che oltrepassa i ruoli che ci siamo scelti. La foggianità, che poi a Natale sembra ancora più evidente, quasi lampante. Ora è la diffidenza a farla da padrone, mista all’entusiasmo artefatto di una piazza ansiosa di rivivere i fasti del passato. A prezzo d’estinzione. Siamo stati sfortunati.
Ma certe volte, non lo nego, vorrei tornare a quelle domeniche di fine anni Ottanta, quando a casa di nonna si parlava della partita. E ne parlava Nicola, che era un ultrà ed era stato a Licata e a Giarre, ma anche papà, il ragazzo di Paola, zia Anna, che era una semplice osservatrice. Pezzi diversi di un ingranaggio collettivo, che era la passione per la maglia, per la città, prima che Maglia e Città prendessero la maiuscola e fossero convertite in codice. Ecco. Avrei voluto rispondere a mio padre: “Certo che l’ho visto Fabio Fratena”. E risentirmi bambino, per l’intero spazio della risposta. Invece di ammettere a me stesso che qualcosa si è rotto. E difficilmente riusciremo a farlo riparare.

21/12/10

Grenoble. Resoconto di un viaggio.

Grenoble, 16-18 dicembre

Il nero di Troia e il vino dell’Isere; la soppressata di Faeto, il salame delle Alpi, i formaggi e il caciocavallo, sul tavolo comune, mentre tra le mani sfilano fotografie, si mescolano idiomi, si arrancano spiegazioni. A dire che quella è Cremona, nel giorno dei playoff e qui sono loro a Rennes. Brindisi e abbracci, quando bussano alla porta e giungono amici che non vediamo da luglio. Da Casalecchio. È la prima volta in Francia, la prima volta che guardiamo questa amicizia dall’interno. Tanta voglia di conoscere, di conoscerci meglio. Per giungere a destinazione abbiamo marciato lungo l’Adriatica stretta nella morsa, a 30 all’ora dietro i mezzi spargisale. Dieci ore di cammino per la colazione alla Bolognina, dove ci scambiano per una compagnia teatrale o, tutt’al più, cinematografica. Pagliacci. La strada per Torino, le tristi Langhe di pianura, l’esoso Frejus. E poi, finalmente, la France. In alto i bicchieri, e la casa si riempie di fumo e racconti, mescolati l’uno all’altro in un’unica splendida cacofonia. Fuori, il freddo non è così glaciale come ce l’aspettavamo. I giacconi da neve d’alta quota restano negli zaini, a ricordarci i colbacchi di Totò e Peppino. Possiamo affrontare i marciapiedi, muoverci verso il centro città. Alle nostre spalle scorre il Donc. Silenziosamente. Le case sono moderne in questa zona. In Place Notre Dame si aprono le porte del Centenaire. Calore improvviso. Altre strette di mano, altri abbracci. È il loro feudo. La loro base. Il loro chiosco di Salvatore. Birra e Chartreuse, che sembra assenzio. 55°. L’ideale per affrontare la prima serata grenoblese. Per sentirci a casa. In pochi minuti siamo sparsi per il locale, come se lo conoscessimo da sempre. Sono incredibili queste alchimie. Intuire un’affinità, approfondirla, viverla, e scoprire che – per quanti chilometri possano dividerci – c’è un’idea che è quasi un ideale, un misto di valori e cultura di strada, che supera le barriere, finanche quelle nazionali, ed unisce, accomuna. Fa somigliare questa piazza del centro di Grenoble in una proiezione della nostra via Pagano. Ultras. Una parola che oggi come ieri ispira nei benpensanti un sordo timore dettato dall’ignoranza; che nel presente italiano è nel mirino di una crociata ministeriale dai rari precedenti, destinata a fare da scuola al resto della società attiva, sempre più intontita dai media della paura. Ma che da queste parti è ancora il nome invidiato di uno straordinario movimento giovanile. È aggregazione, socialità, valori. E condividere simili principi rende uomini (e donne) più completi. Capaci di comprendersi senza traduttori. Fuori a fumare, mentre la temperatura vacilla e crolla. Sembra una città tranquilla, questa. Ordinata, pulita, non molto rumorosa. Eppure anche nel grande assembramento metropolitano, fuori dalle mura metaforiche della città, nell’ampia periferia fatta di paesi contigui, ci sono banlieue. C’è il fuoco della rivolta che si somma alla difficile integrazione delle comunità. 40mila italiani, col loro quartiere di pizzerie sul fiume, proprio sotto le linee della teleferica. E un ritorno di machismo, un traviato senso d’appartenenza, nelle generazioni più giovani. In quei nipoti di siciliani che non hanno mai visto la Sicilia. Nell’ortodossia degli algerini di terza generazione. Nelle gang che giocano al Bronx. Ma è una città ricca, Grenoble, industriosa, che offre possibilità e non chiede molto. I ragazzi e le ragazze del Red Kaos annoverano ogni origine, lontani anni luce dal settarismo comunitario. I francesi purosangue e quelli originari di Corato. Sono ultras, e guardano all’Italia. A Genova, a Torino, a Pisa. Alla culla di un movimento che a volte noi stessi sottovalutiamo nella sua reale portata. Quasi quasi ci imbarazziamo a raccontargli della Tessera, dell’oltraggio quasi mortale subito dal nostro mondo. Un velo di tristezza per quelle curve ormai svuotate di passione, annichilite dalla prepotenza di chi scambia un mandato da parlamentare per il diritto a non portare rispetto. Considerazioni pesanti, che si alternano con originale cadenza alle domande. Siamo incuriositi, realmente, da questa realtà orgogliosa, che sappiamo “schiacciata” tra la gloria antica del Saint Etienne, quella moderna dell’Olimpique Marsiglia e quella contemporanea del Lione. E felici di rispondere ai quesiti che riguardano la nostra realtà, la sua passione. È ora di cena, e la carovana di macchine si dirige fuori città, in altura. Il ristorante è pieno, i nostri amici hanno occupato due sale. I piatti atterrano sulle tavole imbandite, mentre si alzano i cori. Quelli in francese e quelli in italiano. Anche quelli in dialetto. La neve ferma l’idillio. È rovinosa e intensa, come quella che cade da noi una volta ogni tre anni. Dobbiamo abbandonare la postazione, la balconata e le luci della città dall’alto. Tra dieci minuti saremo bloccati dal mondo. Così, torniamo a scendere, tra tornanti già imbiancati che tendono a farci stare all’erta più del dovuto. Qui sono abituati, anche se quest’anno, ci dicono, non ha ancora cominciato a fare sul serio. Atterriamo in un pub. Il centro città è innevato. Si comincia a scivolare. E, di conseguenza, a ridere delle sventure altrui. Sembra prendere vita dal freddo che fa. Non si beve in strada, così dentro la calca è impressionante. I ragazzi ci impediscono di mettere mani ai portafogli, sembra quasi una forma di religione. La loro ospitalità è molto mediterranea. Le nostre gole e i nostri stomaci dimenticano l’elemento acqua. E a notte parliamo ancora: scorriamo le foto delle loro trasferte, della vecchia curva. Scopriamo che sono in rotta con il proprietario del club, un giapponese che a stento ha mai messo piede nello stadio, e che l’avvenieristica struttura del “Des Alpes” ha tolto un bel po’ di quella poesia che c’era in altri tempi. Sono retrocessi dalla Ligue 1 l’anno scorso e quest’anno viaggiano all’ultimo posto della cadetteria. Una crisi pesante, che ha ridotto all’osso gli appassionati. Un canovaccio che a Foggia conosciamo bene. Anche i tifosi, come gli ultras, sembrano non conoscere confini. Il venerdì è il giorno della partita. Si gioca alle 20, contro il Dijon, che per noi è il Digione. Un bicchiere di vin brulé per svegliarsi, e un po’ giochiamo ai turisti. Ma la neve caduta per tutta la notte fa del ponte sull’Isere la location ideale di una battaglia di palle di neve senza esclusione di colpi. Al Centenaire troviamo la fanzine. La curva Ovest saluta gli amici foggiani, c’è scritto. In italiano. C’è anche lo scudetto dell’Uesse, e si parla della nostra città e della sua storia calcistica. Cantiamo e brindiamo, mentre la neve batte sui vetri e inonda le strade. “Ma siamo sicuri che si gioca?”, e tutti rispondono che si, che questa è una zona abituata a certe manifestazioni climatiche, che il terreno è riscaldato. Dicono, e qualcuno tra noi capisce che anche i posti a sedere sono riscaldati e già pregusta il gyser sotto il culo. Riuniti a consesso nel fondo del locale, in commissione mista, studiamo la partita. “Dov’è la Snai?”, chiediamo in francese. Bisogna scommettere sulla rinascita. 1 risultato finale, 1 parziale. E montiamo dibattito sul risultato esatto. Torna in mente una sfida d’altri tempi, nello “Zaccheria” d’altri tempi. Era l’anno della prima serie B con Zeman in panchina. Il Foggia era reduce da diversi rovesci, e in casa si affrontava il Messina. La curva non contestò, decise di sostenere quei ragazzi. E fu la svolta della stagione. Vincemmo 3-1, segnò anche Signori. “Allora è andata, ci giochiamo anche il 3-1 risultato esatto”. Per similitudine. I grenoblesi ridono, non credono alla riscossa. I biancoblu, oltre a essere ultimi, segnano pochissimo. Tre gol sono davvero troppi. Cala la sera. E siamo pronti per muoverci in corteo verso lo stadio. Sotto la fontana della piazza ci incolonniamo. Tra cori e battimani tagliamo la città vecchia, dove l’impressione di estraneità aumenta anziché diminuire. I rari passanti, i commessi e le commesse dietro le vetrine riscaldate, osservano senza partecipazione. Dev’essere dura essere ultras da queste parti. Ma i ragazzi ci credono, e cantano, e battono le mani. Noi accendiamo qualche torcia, ad illuminare la strada. Alziamo gli stendardi. Tesserati mai. Ma che bello è… C’è un parco completamente imbiancato nei dintorni dello stadio, illuminato e futuristico. Accenniamo al progetto di Casillo, scettici. Poi è di nuovo tempo di battaglie. Foggiani vs Grenoblesi, a colpi di assalti all’arma bianca, a corpo a corpo e palle di neve, sotto gli occhi distaccati degli steward. Sono in tanti, qui. C’è anche un reparto anti-ultras, mutuato da Parigi. Sembrano professionali. Superiamo le transenne e ci affacciamo sull’impianto. Un piccolo gioiello proporzionato, da 20mila posti. Ci metto tempo per capire cosa ci sia di diverso dallo stadio di casa mia. Mancano le barriere di divisione tra il campo e gli spalti. Il portiere che si sta allenando è a due passi. Ci spiegano che il Grenoble, non bastasse, è in formazione d’emergenza. Almeno sette indisponibili, e molti primavera. Ci muoviamo in curva, raggiungiamo la squadra. “Dovete vincere”, gridiamo in foggiano. Quelli ci sentono, si girano, ci guardano. Superfluo aggiungere che non capiscono. Poi ci dedichiamo ai bambini-mascotte della scuola: Sosteniamo i primi calci! Le tribune sono semivuote. In curva c’è il bar. Vin brulé e sfilatino, come non facciamo mai a casa. Il banchetto dei Red Kaos sforna fanzine e sciarpe nuove. Il gruppo si rifornisce. Dentro c’è il palchetto per il lanciacori. Lo osserviamo con invidia. È tempo di giocarsela. E la curva, coperta, comincia ad urlare. La tettoia crea un bell’effetto d’insieme, e anche se sono in cento a cantare, si sentono. Eccome. Squadre in campo. Noi, poco avvezzi alle lingue, ci sforziamo di seguire le parole, ma sono i ritornelli quelli che intoniamo in blocco. Il Grenoble, in campo, ci mette l’anima. Una prova d’agonismo che ci coinvolge, acuita dal fatto che c’è finanche qualche giocatore senza nome dietro la maglia. Non professionisti. Poco alla volta ci appassioniamo, e quando il bolide da trenta metri incrocia il sette, esultiamo. Ha segnato un ragazzo che, ci dicono, è l’unico nativo di Grenoble, della banlieue. L’unico al quale si tributa un coro. Finisce il tempo, torniamo al bar. Il primo pronostico si è rivelato fondato. Ma la ripresa riserva altre sorprese. Il ragazzotto di Grenoble segna la sua personale doppietta, poi è il Digione a rifarsi sotto, a colpire una traversa, ad accorciare le distanze e fallire per poco il pari. È una partita divertente. I ragazzi ci omaggiano di uno striscione e un bel paio di cori. Noi ricambiamo, felici e convinti. E sul finale, una botta da fuori si insacca sotto l’incrocio. È il 3-1 risultato esatto. Ci guardiamo in faccia durante la ressa. Peccato che la signora del tabacchino ci abbia detto: “In Francia non si può giocare il risultato esatto”. Fischio finale e squadra sotto la curva. Pazienza, ci accontentiamo dei 60 euro incassati. Vorremmo dire: “Stasera offriamo noi un giro”, ma non ce lo permetterebbero. Così al pub irlandese dove passiamo la serata e parte della nottata (e dove la “sfortunata” Charlotte ha deciso di festeggiare proprio quella sera il suo compleanno!), siamo ancora ospiti. Ospiti allegri di questa realtà pulita e passionale, orgogliosa e giovane, che ci ha restituito un po’ di quell’entusiasmo che in patria, tra trasferte vietate, tessere-fedeltà e presidenti padroni, avevamo perso. Anche per questo, tanto di cappello al Red Kaos. Merci beaucoup. Davvero.

Ancora sulla Nuova Era (il giorno II della contestazione)

Le parole.

Sono pietre, si dice di solito. Sono importanti, diceva Nanni Moretti. Pazzi squinternati, scemi, scalmanati, delinquenti. Così ieri don Pasquale, nella pittoresca conferenza stampa del dopogara. Delinquenti. Il nodo gordiano: il passaggio progressivo, a piccoli scatti fugaci, minimalista, da un termine all’altro, in una progressione di significato che, nel’economia di un discorso fatto d’un fiato, sembra logica e consequenziale. E che invece nasconde la criminalizzazione di un insieme. Di cosa siamo accusati lo sanno tutti e l’abbiamo già ricapitolato a sufficienza: l’accensione di un petardo e di due fumogeni che hanno causato alla società la bellezza di 3.500 euro di multa dalla Lega. In pochi giorni convulsi, siamo arrivati ad essere delinquenti accusati di “atti di vandalismo”. Come se la nostra principale attività fosse quella di devastare auto, incendiare cassonetti, svaligiare negozi non per fame ma per sfregio. Delle due l’una: o i termini usati hanno ancora un senso, allora la coscienza pubblica dovrebbe insorgere a reclamare una ridefinizione, nonostante l’appeal del nuovo-vecchio imbonitore; oppure davvero il concetto di delinquenza universalmente riconosciuto si è esteso senza preavviso, giungendo a comprendere tutto quanto avversi il portafoglio di don Pasquale Casillo. Portafoglio dal quale prima o poi, ma è parere del tutto personale, tirerà fuori un coniglio.

I soldi.

L’alfa e l’omega di tutto. Anche di questo ha parlato. E tanto. Ha ammesso di non aver speso, al momento, ma ha garantito di poterlo fare. Come e quando vorrà. Nel frattempo, ha blaterato del credito infinito che rivendica dalla comunità. E la comunità gli si è stretta attorno per continuare a ringraziarlo, a baciargli i piedi come a certe statue di santi, fino a consumarsi. E nel giorno della contestazione, ha isolato gli ultrà con il colpo di teatro: l’annuncio della costruzione del nuovo stadio. Come chi, sotto di parecchie fiches di credibilità, rilancia alla cieca. Ha chiesto alla stampa, in sostanza, di diventare un sindacato giallo al suo servizio. E a giudicare dalla qualità del contraddittorio, ha fatto una richiesta futile. Superflua. A nessun giornalista locale è mai venuto in mente, fino ad oggi, di scavare sotto il manto di folklore che il ritorno di questo personaggio in Capitanata suscita, per scoprire i reali intenti e il cambiamento avvento nell’orbita amministrativa, economica e finanziaria di questa città sul lastrico, in conseguenza. Pensano al circo, i nostri giornalisti. C’è da scommettere che avrebbero continuato a farlo anche senza sollecitazioni padronali. La città in cui è tornato per – parole sue – rifare i soldi che gli sono stati rubati, è rapita. Sindrome di Stoccolma, direbbero i medici. In balia del proprio rapitore. Che, come certi prestigiatori che usano l’ipnosi, può permettersi di rovesciarle addosso qualunque improperio. Ottenendo in cambio un consenso assoluto, senza se e senza ma. Un’assenza di spirito critico, una foga umorale che è tipica degli appassionati di calcio. Ma che stona con tutto il resto, quando il nuovo signore usa il calcio per giungere ad innalzare cattedrali nel deserto.

La divisione.

Quando si dice, si diceva, “tutti uniti sotto una stessa bandiera”. Lo stadio, i settori popolari, come mitico agente affratellante: il ricco, il povero, il conservatore, il progressista, il colto, l’ignorante. Fianco a fianco. A sventolare la stessa bandiera. Culto retorico dei bei tempi andati. Strapaese. Ma un fondo di verità c’era. È innegabile. La Tessera, di cui mi sto stancando persino di parlare, ha divaricato il comune sentire. Errore di chi sottovaluta per indole non accorgersene sull’attimo. Del resto, quando si affronta una scelta di cittadinanza che avrebbe richiesto le barricate per strada, con il piglio e la leggerezza di chi sceglie un film da Blockbuster, è inevitabile. Adesso è tardi. E quanto visto ieri sugli spalti dello “Zaccheria”, con interi settori che invitavano gli ultras ad andarsene fuori dalle scatole, come fossero l’unica nota dissonante di un idillio per musica e testo, non è che l’inevitabile conseguenza della frattura consumata a luglio. La gente ama i portatori di sogni, che troppe volte coincidono coi venditori di fumo. E la gente degli stadi è la stessa delle urne elettorali. I realisti che si oppongono sono accusati di disfattismo, di essere dei cronici piantagrane. E vengono ignorati, minimizzati, invitati ad accomodarsi lontano dai maestri della New Age. “Si sta realizzando un grande progetto”, dice il pulcinella capopopolo. E, siccome di ogni rosa si immagina il profumo ma non le spine, nel dubbio è meglio bandire gli scettici. Poco conta dire a questa piazza che la realtà parla la lingua dell’inganno. A quelli che gridavano “Fuori! Fuori!” o facevano gestacci poco ne cale. Vogliono sognare con don Pasquale, sognare il sogno di don Pasquale. E si schierano con lui anche quando devono sborsare 30 euro per una gradinata, 15 per una curva; anche quando denuncia e diffida, quando licenzia e offende. È il prezzo da pagare. Il tributo al sogno di tornare grandi. A noi non rimane che aprire gli occhi e considerare i fatti per quelli che sono: non esiste l’unica grande fede che affratella l’ultras e il tifoso, il ricco e il povero. Esistiamo noi, la nostra minoranza assediata (da Maroni, dal patron e dal comune sentire dei cittadini “per bene”). Ed esiste il resto, col proprio approccio alla domenica sportiva. E tra noi e loro, la trincea.

Nota bene per il prossimo futuro.

Nessuno si permetta di accusare noi, il nostro modo oltranzista di amare questa maglia. Perché servirebbe solo da alibi. Gli dei da ringraziare per lo schifo vissuto ieri sono altrove. E non serve alzare il polverone della civiltà da imparare o della dietrologia a buon mercato. Ognuno si assuma le proprie responsabilità. Che quando lo stadio non sarà che un mortorio organizzato, una sala da thé all’aperto, una banca dati vivente di aspiranti all’autopsia, non potrete fare altro che rimpiangere i bei tempi della mitologia classica. E magari approfittarne per farvi un esamino di coscienza e comprendere di quanti ossequiosi si è lastricato il sentiero che porta all’ormai prossima, e quasi attesa, scomparsa del tifo.

10/12/10

Nota triste sulla nuova era

Nell’anno primo dell’Era della Tessera, ironico sarà morire uno per volta, sotto “fuoco amico”.
Come nelle trincee della Guerra Mondiale. Generali imbevuti d’accademia e di cavalleria da tavolo, graduati folli e ideologizzati, cinici per cupidigia, per ingordigia, arrivisti leccaculo, spie. A lanciare l’assalto suicida alle linee nemiche, a muovere uomini verso il fuoco. Col binocolo in mano. E poi i carabinieri in retroguardia, a servire i boss di turno. A scegliere uomini, a metterli al muro, uno ogni dieci, la decimazione. A fucilare italiani per punirli di aver disobbedito all’ordine assurdo di farsi massacrare; a giustiziare codardi veri o presunti. Loro, che in prima linea non c’erano mai stati.
Succede così.
Esagerato.
Di diffida non si muore. Di reato da stadio neppure. Non bisogna piangersi addosso prima del tempo. E sia. Riaffioriamo dall’analogia bellica. E proseguiamo fuor di metafora: qua non bastava Maroni, ci voleva pure Casillo!
Il sogno, il miracolo tante volte invocato al cielo dalla plebe superstiziosa, si è avverato. E lo ha saputo persino Virgin radio. Il processo di beatificazione è cominciato a luglio. E la città s’è stesa come un sudario sotto i piedi del Redivivo.
Sei mesi. Sei mesi dal suo primo intervento in tv. La voce del vecchio padrone che torna dall’Ade ad accampare diritti di successione. Calde lacrime agli occhi dei nostalgici della fu Zemanlandia (sic), l’agorà a dibattere accanitamente sulle picconate e sulle promesse, così simili a smargiassate da non meritare neppure attenzione, dell’antico signore di queste terre. “Riporto Zemàn, riporto Pavone, torniamo in serie A!”. Follie d’inizio estate. E, sotto la crosta dell’apparenza, il preciso piano di una nuova scalata. L’intera città, dalle sue fragili istituzioni in balia dei venti alla più accorta e servile imprenditoria, schiava contenta, rientrava nel piano industriale di rinascita del riconosciuto marpione. Bonapartismo, si direbbe in politica. Cesarismo. Aizzare le folle al suono di un progetto bellicoso, rispolverare il passato, l’epica dell’età dell’oro, e pilotare la massa sognante e feroce (che mai, prima d’allora, sembrava essersi accorta della decadenza in cui era sprofondata) nei fianchi molli delle burocrazie: gli otto soci, certo, ma anche il sindaco, l’Assindustria, e chi più ne ha più ne metta. Una spada di Longino, brandita con schiamazzante puntualità ad ogni scadenza vitale di quel calvario che è stata l’estate 2010 dell’Unione Sportiva. Alla fina l’ha spuntata, e tutti sappiamo come è andata. È rinato il circo equestre: la Gazzetta, il Corriere, il Guerin Sportivo, persino il Manifesto, a sgomitare per osservare da vicino la fecondazione in vitro del dinosauro. Jurassic park sul manto erboso dello Zaccheria. Nani, trapezisti e ballerine alla corte del Boemo, mentre Don Pasquale incassava la concessione quindicennale gratuita dello stadio comunale, estrometteva baristi e venditori abusivi dal tempio, raccattava in giro giovani under 20 (che fruttano denaro a mo’ di bonus dalla Lega per ogni domenica che giocano) per simulare una squadra da donare al Profeta (schermo blindato per ogni accenno di critica tecnico-tattica-filosofica), aumentava a 15 euro i biglietti dei popolari e legava l’abbonamento alla Tessera del tifoso.
Poi ci si sono messe le multe: le bottigliette di plastica che volano in campo a battezzare l’arbitro cornuto, vezzo tipico del tifoso-medio dalla notte dei tempi, ma anche il consueto armamentario degli ultras: dai cori contro quel pezzo di merda di Maroni fino all’accensione di torce, fumogeni, petardi; dallo sventolio di bandiere fuoridimensionate agli schizzi d’acqua sui guardalinee.
Esternò, don Pasquale, dopo la prima multa in quel di Fano.
“Imbecilli”, fece vergare allo scrivano Zingarelli. Provocò la piazza, che compatta gli faceva quadrato attorno, minacciando l’aumento dei prezzi e sollecitando una più attenta e mirata repressione. Come a dire che prima dell’avvento del suo secondo regno, la questura era rimasta colpevolmente con le mani nelle tasche. Ed ora il signorotto sentiva impellente il bisogno di assoldare nuova cavalleria fedele nel feudo lasciato per troppo tempo in balia di incapaci e blandi esecutori.
Ma ciò non ha impedito che lo stadio rimanesse uguale a sé stesso. Uguale a ciò che è sempre stato. A ciò per cui ha fascino. Basta pensare ad una festa di compleanno. D’improvviso uno dalle retrovie si fa spazio ed in onore del festeggiato accende un fumogeno. Invariabilmente uno nella calca a ridere, dirà a mo’ di commento: “E che stai allo stadio?”. Retoricamente, perché è chiaro che lo stadio è il luogo dei fumogeni. Per tutti, da sempre. Ma non per la Lega. Non per la “legge”.
Un capopopolo accorto, attento alla propria gente, alzerebbe lo scudo ed impugnerebbe nuovamente la spada di cui sopra. Rozzi, Anconetani, Viola, l’avrebbero fatto, ai tempi. Avrebbe alzato la voce contro la loggia dei potenti del calcio. Avrebbe attaccato il santuario delle multe assurde e dei provvedimenti disciplinari. Avrebbe disseminato il verbo, coalizzando le società affini. Si sarebbe attaccato al telefono, svegliando di notte presidenti cavesi e nocerini, tarantini e beneventani, per chiamare a raccolta, per dire “Basta!” agli sciocchi cavilli che strozzano il calcio in Lega Pro.
Probabilmente avrebbe fatto anche l’esempio della festa di compleanno.
Perché 18mila euro di multa per cori contro Maroni e colore sugli spalti sono davvero troppi per qualsiasi logica. Avremmo sentito don Pasquale starnazzare per qualcosa di condivisibile. E forse anche la mia generazione, che sperava d’averlo salutato per sempre sedici anni orsono, avrebbe avuto simpatia per la sua causa. Per la crociata dei pezzenti della serie C. Magari non l’avremmo mai detto esplicitamente e in pubblico. Ma una guerriglia mirata al calcio dei divieti e dei soprusi l’avremmo gradita. Altroché.
Invece, il signore che tutti qui chiamano “don” pur non avendo mai preso i voti ecclesiastici (!), ha scelto una differente exit-strategy. Ha aumentato i biglietti della gradinata a 30 euro. 30 euro, 60mila lire, per una partita di terza serie. Decimazione. Anzi no, fucilazione di massa. Rappresaglia. Per punire gli ultras che, orfani (e non certo per colpa loro) della Curva Nord, si sistemano proprio nell’angolo della cosiddetta Tribuna Est.
E la piazza, che avrebbe dovuto insorgere, ammaliata dalle parole del caudillo di San Giuseppe Vesuviano come e peggio dell’equipaggio di Ulisse con le sirene, ha appoggiato incondizionatamente. Dopo annate di fuochi artificiali e poveri animali vivi costretti ad una fuga disperata in campo (i conigli barlettani, i galletti baresi), si è improvvisamente retrodatata educata. Di un’educazione speciale, inglese. I baronetti della minchia hanno detto “Basta!”. Basta con gli ultras e la loro inciviltà. Basta con questi delinquenti mascherati da tifosi. Ne hanno invocato la denuncia (anche con l’ausilio delle telecamere a circuito chiuso), l’arresto, la deportazione, la lapidazione. Tutto, pur di compiacere le ragioni irragionevoli del nuovo signore a costo zero. Uno che vuole fare l’imprenditore senza mettere a conto i normali rischi d’impresa (in questo non diverso da Marchionne, ma lasciamo stare); uno che vuole fare il capopopolo senza popolo. Senza intelligenza. Senza riconoscenza, senza rispetto, nei confronti di chi il Foggia l’ha seguito nelle notti più scure della mezzanotte. “Ma che vuoi che gliene freghi a quello…”, dicono i più avveduti, quelli che la sanno lunga, a mezza bocca. “Quello soldi vuole fare!”. Indubbio. Triste e indubbio.
Così come indubbio è che questo continuo parlare di soldi, questo strapotere dei soldi, questo ritenere i soldi unico valido fine per qualsiasi sacrificio e al contempo unica giustificazione seria per qualsiasi azione, stia smorzando la fiamma di una passione che sembrava inestinguibile.
Anche questo è molto triste. Ma sembra interessi solo ad una minoranza di sudditi.

24/11/10

La faglia

Qui non è questione di uova o di galline. E neppure di concatenazione logica. Il prima e il dopo, in questa storia, non c’entrano. C’entra l’approccio. Prima di Foggia-Viareggio – e si parla di un paio di mesi fa, di meno e non di più – con la città estasiata che aveva assaltato le ricevitorie per i biglietti, esplorai le lande alte della Curva Sud. Da non tesserato, mi ero posto a disposizione di chiunque avesse voluto sapere perché mai i gruppi avevano deciso di “transennare” e lasciare vuoto il centro della curva per dieci minuti, come forma di protesta nei confronti del decreto Maroni. La gente, di lato, era tanta. E continuava a sbucare dagli ingressi, ad ammassarsi. C’era tensione nell’aria. Bastò una parola. L’insofferenza dei “laterali” nei confronti degli energumeni che costringevano la brava gente ad un supplizio inutile per la causa e dannoso per la squadra, era evidente; lo consideravano un esercizio di pura prepotenza senza spiegazioni. E si che quella era la brava gente che – per paura di non trovare un tagliando, paura peraltro indotta dal terrorismo societario – aveva sottoscritto il progetto di farci fuori dagli stadi. Anteponendo la voglia di vedersi gli undici ragazzini di Zeman alla libertà, erano corsi a farsi schedare, perché non avevano niente da nascondere. La miccia s’accese e la discussione, accanita da ambo le parti, durò oltre quaranta minuti. Inutile entrare nei dettagli: qui non si parla di chi soffra di più, di chi ami maggiormente quella maglia. E neppure di uova e di galline, di chi sia nato prima, come s’è già detto. Il blocco della curva è stato riproposto. I primi dieci minuti “senza ultras” – che nell’accezione popolare vale a dire: senza cori, senza colore, senza calore – si sono ripetuti con l’Andria e col Siracusa. Ho vissuto la cosa in sordina. Con la Ternana, però, sono tornato alle lande alte. Ed è stato diverso. Niente miccia, niente tensione, meno gente. L’aria elettrica del grande evento pittoresco si era infranta nella routine. Gli abitanti delle zone in questione s’erano fatti posati, tranquilli, placidamente rassegnati a quel nuovo rito, vissuto con un misto di insofferenza e naturalezza, come il pagamento di una bolletta dell’Enel. Ma c’era qualcosa in più, di inedito. Una barriera invisibile, impalpabile, eppure spessa e invalicabile, tra me e loro. Cresciuto nell’epica della comunità, di quel sentire che affratella, di quella fede che unisce le anime distanti, non avevo mai provato questo senso di distacco. Né mai ipotizzato che potesse esistere. I ragazzi che sedevano alla mia sinistra, in attesa dell’inizio della partita e della fine del rito, mi ignoravano. Ed io ignoravo loro, dandogli le spalle. Niente, neppure la polemica di due mesi prima, univa i nostri due mondi. L’uno in lotta disperata contro il baratro, terrorizzato dall’idea dell’estinzione; l’altro sereno, furbo al punto giusto da non farsi risucchiare dai gorghi dell’ossessione passionale, distaccato eppure partecipe al solo evento sportivo. Tra me e loro, una faglia come quella che minaccia San Francisco. Parlavano tra di loro. Di Ronaldinho e Ibrahimovic, di Quagliarella e del Fantacalcio. Modelli generazionali differenti, approccio. Niente in comune. I novanta minuti di calcio dal vivo come antipasto anomalo ad una domenica come tante, da vivere tra prepartita Sky e posticipo. C’è il derby di Milano, come se la cosa potesse in qualche modo tangerci. E mi è risalita in gola una frase letta in adolescenza, scritta con l’Uniposca nero sull’Invicta arancione: Per noi il Foggia non è una questione di vita o di morte. È molto di più. Una gradassata figlia dell’età, senza dubbio. Ma lo scarto tra quell’impulso totalitario e il relativismo sciatto di quei giovanotti, m’appare ancora adesso ugualmente doloroso. Ne parlavo ieri sera con un amico. Penso d’aver capito come stanno le cose. Non è questione di Tessera, è questione di testa. E di cuore. La sfida di Pisa, vietata, l’abbiamo vissuta chiacchierando amabilmente del più e del meno. La partita di Nocera, vietata, l’ho vissuta alla brace: seppie, salsicce, melanzane. Avrò visto quindici minuti della prima e dieci della seconda. Perché quella squadra televisiva non m’appartiene, non è mia. E quando pensi che potrebbe essere un calo di passione, una specie d’anticipo della pace dei sensi, ritorna alla mente il Foggia dell’Aquila e quello di Gela. E ti rendi conto che non è così che stanno le cose. Il Foggia di Mario Schena e Teleblu è il Foggia dei tesserati. È il Foggia dei ragazzini relativisti, quelli oltrecortina. Quelli separati in casa. Un’altra squadra rispetto a quella per la quale tifo. Non c’è storia. E non è questione di chi sia nato prima tra l’uovo e la gallina. Semplicemente, non sono io che ho scelto una squadra tra le duecento possibili; è il Foggia che esiste perché esisto. Dolce arroganza in tempi di naufragio. Fondata, oltretutto: la Lapponia è lì, ma la differenza tra non averla mai vista e ritenerla inesistente è minima. Un limbo.

“Meglio il Foggia” a Sky (Canale 200 – ore 10,30)

Nel dicembre del 2007, ispirati del nume tutelare Nick Hornby e dalle magliette a strisce rossonere dell’Unione Sportiva, demmo alla luce il nostro primogenito letterario. Decidemmo di chiamarlo riecheggiando un vecchio titolo del Corriere dello Sport: “Juve o Milan? Meglio il Foggia”. Le edicole e le librerie cominciarono a spacciare questa nostra piacevole fatica – pubblicata grazie all’impegno incosciente del nostro editore Corrado Rainone e impreziosito dalla stupenda prefazione di Darwin Pastorin – e quel Natale si riempì di ricordi. “Dall’odore acre dei lacrimogeni di Foggia-Varese al catenaccio irriducibile di Pino Caramanno. Dalle speranze di Pippo Marchioro alle scope Pippo nella notte della promozione in B”. Così spiegava il trafiletto che siamo stati abituati a leggere e rileggere. Per dare un’idea del nostro azzardo di un viaggio sentimentale nella storia della squadra che di gioia impazzire ci fa. E non solo.

Nel maggio del 2010 la nostra creatura è diventata adulta. È uscita fuori dai confini della provincia, e grazie ad una nuova incoscienza, stavolta della Bradipolibri di Torino, il viaggio sentimentale è ripartito: nuova edizione, nuova confezione, e due capitoli in più, per arrivare a lambire le tappe più recenti di questo piccolo grande amore. La sconfitta di Cremona nei play-off del 2008, la sconfitta di Benevento in quelli del 2009. C’è una squadra che di gioia impazzire ci fa.

Giovedì 24 novembre 2010 la nostra avventura si arricchisce di un nuovo capitolo: alle 10,30 saremo infatti ospiti della trasmissione Sky Sport Caffè, canale 200 del decoder. Probabilmente racconteremo di quel gol di Barone a Trapani, di quei ragazzini che in strada sognavano la serie A, di quegli adolescenti che videro cadere la Juventus allo “Zaccheria”, o dei giovani che retrocessero a Salerno o che, nello spareggio di Ancona, videro spalancarsi le porte della C2. Oppure, più prosaicamente, ci chiederanno di Zeman.

In ogni caso, segnatevi l’appuntamento.
Noi vi garantiamo che faremo di tutto per arrivare in tempo.


Il collettivo Lobanowski

01/11/10

I fischi rivelatori

Domenica 31 ottobre, Foggia-Siracusa 0-2

Secondo tempo, sicuramente. Il minuto non lo so. È sempre difficile stabilire il minuto. Neppure per approssimazione. Quando si canta si guarda in balaustra. O ci si guarda attorno. L’orologio, o il cellulare che sia, rimangono ignoti. Fuori posto, come una palla ovale o una racchetta. Anzi, capita spesso di confondere il prima col dopo. In fase di consuntivo.
Due a zero per gli ospiti. Questo è certo. Un centrocampista dei nostri sbaglia un lancio.
Ed il velo d’ipocrisia di migliaia di tifosi della stagione 2010/11, dei nostalgici della cosiddetta Prima Zemanlandia alle prese col sogno del remake, di fan del Progetto casilliano, di cultori seguaci della competenza di Pavone, del “finalmente se ne sono andati quegli otto pezzenti”, è venuto giù. Fragorosamente. Col suono ridicolo dei fischi, dei Buuuu!
E di sepolcri imbiancati si è svelata la curva.
La piazza – ansiosa di abbeverarsi alla luce dei nuovi successi – si è riscoperta già stanca di “soffrire” a metà del girone d’andata. Omuncoli senza dignità, stufi di perdere alla prima difficoltà. Ambivano a godersi lo spettacolo del 4-3-3, a circondare d’effluvi circensi il Ritorno del Profeta nella sua Patria adottiva. Si erano sobbarcati i chilometri per Vasto, in piena estate, in una sorta di pellegrinaggio della speranza, per gridare il nome del vate. E chissà cosa credevano d’aver fatto. S’erano finanche sentiti offesi quando quei cattivoni degli ultras gli avevano oscurato la vista del campo con l’indefesso sventolio dei bandieroni.
E nonostante degli undici penosissimi anni di C non abbiano vissuto che racconti o propaggini (tipo la sfida promozione con la Nocerina, o il Brindisi, o l’Andria, o i tre playoff consecutivamente persi), è bello constatare la fine prematura della loro pazienza.
Il disvelarsi della loro consistenza reale, a prescindere dai proclami da bar.
Adesso che fare?
Insultarli sanguinosamente, come meriterebbe la loro assoluta mancanza di dedizione alla causa? Schernire la loro disperante assenza di stoicismo, l’indisposizione al più primitivo senso del dovere?
Irridere la minima soglia della sopportazione dimostrata?
O piuttosto andare a ripescare quello che l’eco, il vento, ha portato a noialtri nei quattro mesi della nuova avventura della Triade. Riprendere gli stralci. Lavorare d’archivio. Quando ci dicevano che eravamo egoisti ad anteporre la nostra protesta contro la Tessera al sacrosanto giuramento di sostenere la maglia, la squadra, finanche la società, che tanti sforzi aveva fatto (!) per tirarci fuori dall’anonimato delle ultime stagioni.
“Li lascerete fare a pezzi nei campi infuocati della C1 solo per una vostra questione di principio”, accusavano scambiandoci per boy-scout.
“Sono ragazzini di vent’anni, hanno bisogno della bolgia dello Zaccheria”, ci rinfacciavano criticando la scelta delle curve di non cantare per i primi dieci minuti. “A cosa serve regalare l’inizio agli altri?”. Lo sanno i lanciacori quanta fatica serva per coinvolgere questi deprivati a fare la loro parte nella “bolgia” (perché anche la passione, da queste parti, si delega: sono gli ultras a dover fare il casino di cui poi si vanteranno con gli amici, non certo loro, che scalderebbero il posto di cemento se non fosse apertamente inadeguato sedersi nei “popolari”).
“Voi non volete bene al Foggia”, chiosavano.
Poi capita che un centrocampista sbagli un lancio sul 2-0 per il Siracusa. E i principi vanno a farsi fottere. C’è chi sbraita, chi dice “basta!” come un amante tradito (ma da che?), chi si ripromette che mai più, mai più si lascerà sedurre da una promessa, chi molla a venti dalla fine, chi arriva a ripensare alle proprie teorie sul Maestro, azzardando uno Zeman “sorpassato, superato”.
Che spettacolo vedere le proprie convinzioni alimentarsi di nuova linfa.
E pensare che questa gente, non più tardi di una settimana fa, gridava al miracolo per il punto conquistato al Flaminio. Pensare che è per colpa di questa gente che non ha nulla da nascondere – muta all’occorrenza e opportunisticamente voltagabbana – che devo lottare per procacciarmi il biglietto già dal lunedì mattina. Ma le profezie si realizzano, e chi nasce tifoso d’occasione, da tifoso d’occasione campa. E muore. Per tutto questo, e molto altro ancora, quando un giorno mi chiederanno di questa partita inutilissima col Siracusa, “Cosa ricordi?”, risponderò: I nuovi fedeli che fischiavano l’Us Foggia. Rivelando se stessi.

24/10/10

Il giorno dell’immaginazione

Sabato 22 ottobre, Atletico Roma-Foggia 3-3

La sicurezza e lo spirito dei tempi

Un rettangolo di carta di basso lignaggio; carta plebea e vagamente filigranata, color bianco sporco con tristi motivetti marroni, tipo video di Peter Gabriel. Il timbro della Siae sulla cucitura, la dicitura “Intero – 1° posto, prevendita: 0698764”. Lo spettatore è tenuto a conservare il biglietto nel luogo della manifestazione e nelle immediate adiacenze. Peccato.
Peccato non poterlo portare in giro per mostre e vernissage. Perché questo tagliando è un’opera d’arte. Magari non un capolavoro, ma neppure il semplice pezzo di carta che vogliono farci credere (quelli che in vita non hanno apprezzato né Van Gogh né Ivan Graziani). È la prova tangibile – la metafora, direbbero i critici letterari – dell’inutilità. Incarna lo Spirito dei tempi. La carta igienica del sistema Maroni. Ne ho raccolti un paio da terra. Tra qualche anno avranno un valore inestimabile. Me li rivenderò su Ebay in tempi ancor più cupi, se proprio Sotheby’s non apprezza.

Fiumi di parole sulla sicurezza, la violenza, l’incubo uligano d’oltre Adriatico. Migliaia, decine di migliaia di sillabe pronunciate da questori, prefetti, ispettori, agenti di campo, presidenti, steward. Migliaia di euro per ammodernare gli impianti sul modello carcerario più avanzato, altrettanti per tentare di mettere in pratica i decreti ministeriali, per fingersi tedescamente efficienti.
E poi, un bel sabato di ottobre, tutti al botteghino, a quaranta minuti dal fischio d’inizio, a premersi l’uno sull’altro, a spingersi, a vedere la fila crescere a dismisura, disorganizzarsi a dovere, a rischiare d’abbattere un reticolato, voltare l’angolo, snodarsi. E tra le urla dei tifosi dell’Atletico e di quelli del Foggia, nella divisione sostanziale e sostanzialmente inutile tra tesserati (dove sono le vostre corsie preferenziali, amici?) e non, tra romanisti e laziali zemaniani, nel melting pot delle 14,30, rivivere le scene del 1984, e tornare per un attimo a stringere la mano di papà intento a litigare con quei pezzi di merda che non aprivano mai più di una porta. A risentirne quasi l’odore di Denim e Nazionali senza filtro sulle mani. Non ricordo chi fosse il ministro degli Interni nel 1984, ma di sicuro non pensava agli stadi. Faceva riunioni col cappuccio, magari, organizzava stragi di Stato, insabbiava e si lasciava corrompere, probabilmente, ma allo stadio si andava liberamente, rudemente, senza ammortizzatori. Era un’esperienza adulta. E qui, ora, è lo stesso. E non possiamo rallegrarcene a dovere. Perché bisognerebbe fingere che in mezzo non ci sia stata la retorica scassa-cazzi pluriannuale sugli ultras e la Tessera. Fingere che non abbiano fatto degli stadi quel che ne hanno invece fatto. Il cassiere sarà felice, penso, ma con che faccia si va in giro a dire che è normale avere problemi dinanzi a 4mila spettatori quando di solito se ne fanno 500? Allora perché mai questa cavolo di squadra gioca al Flaminio, se non ha che 500 affezionati sostenitori? Perché non se ne torna nel quartiere, se mai ne ha avuto uno? Per tutto questo, quando quel poveraccio (o quella poveraccia, non lo so perché non sono mai arrivato a vederne la luce in fondo al tabernacolo) impegnato a battere i nominativi di tutti i presenti nella sua tomba-unico sportello aperto, mentre in coda selvaggia si sta coi soldi contati e i documenti come allo sbarco ad Ellis Island; insomma, quando l’addetto/a ha annunciato che era finita la carta per stampare i tagliandi e bisognava ripiegare su alcune riserve in attesa da quando Cindy Lauper cantava a Deejay television, la risata collettiva ha rischiato seriamente di ammazzarli. Se non fosse che la gente era troppo nervosetta, in quel budello da sardine, per poter sorridere della sceneggiata. Che per noi era cominciata lunedì. Biglietti in vendita, disponibili presso i punti vendita autorizzati, recitava la nota. La solita sfilza di domande incompetenti – “Ma si può andare nel settore ospiti?”, “Ma ci vuole la Tessera?” – poi il primo nascente segnale di allarme: “Hanno bloccato la vendita dei settori per non tesserati”. “Ma come, - ci chiedevamo – che vuol dire? La trasferta è libera, non ha limitazioni territoriali. Cos’è questa, la nuova frontiera della lotta ai refrattari?”. Ecco, se avessimo trovato i nostri bravi tagliandi nella settimana foggiana, se nessuno avesse esercitato le sue geniali pressioni demotivanti sul tizio di viale Ofanto, a quest’ora non sarei qui. Non perderei tempo e non farei massa. Ergo: non ne farei neppure perdere. È quello che spiego ai miei vicini, romani, foggiani e oriundi. E a cadenze precise qualcuno urla qualcosa su Maroni o sulla sua genitrice. Gente comune, eh, mica facinorosi alla Ivan di Belgrado. Nel 1984 nessuno pensava alle mamme dei ministri, mentre si era in fila al cancello dello Zaccheria. Era un mondo adulto: esisteva una sorta di patto di reciproca indifferenza che, a conti fatti, salvava l’onore di tutti. Si sbagliava da professionisti.

Il circo di Zeman

Alla fine della giostra, riemergo dalla calca. Ammaccato, ma vivo. C’è chi mantiene la fila. Un paio di bustoni di Nastro Azzurro e Peroni da 0,66, e ci si accampa. Si tira fiato, mi accendo una sigaretta. E per la prima volta da quando abbiamo parcheggiato il furgone, provo a mettere in fila le sensazioni. Vedo. Il Flaminio da fuori è un signor impianto. Osservo: “Cristo santo!”. Servirebbe l’abilità di uno scrittore specializzato in pellegrinaggi, riti sacri collettivi, roba da Paoline così, per spiegare quel che brulica sul piazzale. Il meglio, il peggio, il banale. Centinaia di teste a zonzo, formiche indecise, a spasso: muoversi, orientarsi, affondare, riemergere. Catturare emozioni. È un grande evento folk. È la Fiera di Santa Caterina, ma non quella di adesso e neppure quella di via Galliani. È la Fiera di Corso Giannone, o l’Embell Riva. Un circo in cui tutto si mescola, e l’evento fa da pura quinta scenografica. Come i venditori d’acqua e noccioline a Vermicino. Sedicenni bardati di sciarpe comprate al chiosco; accenti della provincia, foggiani di stanza a Roma, abitanti della Capitale in cerca di brividi altrui, o di ricordi a basso costo. Non ci credo. È tutto così surreale che riesco ad immaginare nani e draghi alati. Ogni tanto lo sguardo di qualche ultras sembra chiedere soccorso e conforto: si muovono spaesati, questi briganti da migliaia di chilometri a stagione. Non riescono a spiegarsi cosa stia accadendo. Mi volto e vedo Balbo. Abel Balbo. è con due amici, attende i biglietti, come noi tutti. Stappo una birra grande con l’accendino, accendo una Lucky strike di Angioletto. Pare ci sia Previti, e pure Bobo Craxi. I vip: un’ipotesi che non avevo contemplato, eppure di cose brutte brutte ne penso di continuo. Lo dico, e un codazzo di individui taglia la strada. Da destra a sinistra. Dall’entusiasmo, dev’essere come minimo un Casillo. Invece è Venditti. Antonello Venditti. Dalla fila, in fondo alla mia visuale, uno gli grida “Romanista di merda!”. Ma quello ride, felice di essere ancora riconosciuto, di vivere ancora nello strapaese dei balocchi. Foto col cantante, bandiere, svariati “Forza Foggia!” e anche qualche suocera al telefono. Altri draghi spiegano le ali sulla piazzaforte romana, mentre improvvisati organizzatori d’eventi provano a depistare per alleggerire il caos: “I foggiani non tesserati possono andare a fare il biglietto in Curva Sud. Pagano direttamente alle porte”. Come all’oratorio. Un altro pensiero sentito al Ministro e alla sua mamma. E vediamo Gigi Di Biagio. Sembra la notte degli Oscar. Manca il red carpet. Vaga, Gigi, fissando il cellulare. “Ohi, Gigi, ma oggi per chi tifi?”, lui sorride. Enzo bada al concreto: “Gigi, perché non ci offri una birra?”. Quello guarda la busta ancora piena, “Certo, – dice premuroso – potrebbero non bastarvi. Andiamo al chiosco”. Solo che il chiosco ha una fila di ben due persone e Gigi si annoia ad aspettare, così mette mano al portafogli, afferra 2 banconote da 10 e dice: “Ve le offro, ma me ne vado”. Non so perché, riusciamo a fare a meno della sua compagnia, mentre ridiamo come idioti. Adesso perfettamente in linea col carnevale. Pagliacci. Pensiamo: “E se andassimo a caccia di grandi ex?”. Si propone un tariffario: da Signori pretendiamo almeno una cinquanta, Codispoti e List sono dispensati. Pagaci, pagaci, pagaci da bere, [nome giocatore], pagaci da bere!

Le famiglie allo stadio

Muoviamo verso il nostro boccaporto. Alla fine della fatica, c’è stato un errore di calcolo. Sono le 15 passate. E non ho il biglietto. Ma la preoccupazione è un’altra: “Mica ci sono tesserati qui?”, chiediamo al funzionario in giacca. “No, – fa quello spazientito – non ce ne sono”. Bene, entriamo. Mentre da dietro qualcuno sta chiedendo: “Mica entrano anche i tesserati?”, e quello risponde che no, non entrano, ma neppure è bello che li trattiamo come appestati. Peggio, direi, visto che la peste nessuno se la va a cercare con le sue mani. Tecnica sperimentata: Ceska, più bassa, passa i controlli arancioni indicando me che mostro quella cartacea cosa qualsiasi che garantiscono essere il ticket, e nel gioco di rimandi schizza dentro prima che quello possa rendersi conto. Ma l’amico è in gamba e mi blocca. “Guarda che con un biglietto entra una sola persona”, “Certo”, “E allora la ragazza?”, “Quale ragazza?”, “La ragazza mora coi capelli lunghi?”, “Quale ragazza, non c’è nessuna ragazza”, “Come no?”, “No”. Nel regno zemaniano dell’illusione, il ragazzo non si convince d’aver avuto un’allucinazione, mentre io lo rassicuro che sembro uno psichiatra. “Tranquillo, non c’è nessuna ragazza”. Ma il funzionario in giacca, un diverso, sente puzza di imbroglio e non ci sta a farsi gabbare. Arriva di gran carriera, con l’aria di chi dice che non gliela si fa. Ascolta una leggenda arancione che parla di una ragazza mora dai capelli lunghi, annuisce serio, afferra un ragazzo a caso e gli dice: “Fammi vedere il biglietto”. Come se avesse una precisa strategia d’indagine. Quello, stupito, glielo consegna. E il furbacchione può finalmente esclamare: “Questo biglietto è falso, manca il timbro!”. Una risata vi seppellirà. E si che c’era bisogno di grande fantasia per immaginare che quelle cose sarebbero state un biglietto! Penso non se lo augurassero neppure quelle cose stesse! Si, è sabato e si possono fare le fotocopie, ma sarebbe mancato il tempo materiale. E poi… difficilmente si pareggia un’opera d’arte di tal fatta. Il dibattito si sposta sul biglietto, un paio di poliziotti mi contendono la perquisizione, mentre uno steward arancione resta perplesso a ricostruire i suoi ultimi minuti. Passo il primo controllo, gli altri sono già al secondo. Aspetto Giuseppe, che si è attardato, e commetto la strepitosa cazzata di accendermi una sigaretta. Un agente si volta di scatto. Mi riperquisisce. Vuole indagare. Gli stadi devono tornare ad essere luoghi per famiglie non fumatrici. E senza vizi, visto che a Manu sequestrano la bottiglietta d’acqua per Aurelio, 13 mesi e prima trasferta in furgone. “Il bambino, se avrà sete, potrà andare al bar”. Al bar immaginario della sua infanzia, quello con le marmotte che servono bicchieri con gli ombrellini, visto che questo stadio del Sei Nazioni, dentro, è un rudere. Già che c’era poteva consigliare ad Aurelio di bere direttamente la condensa dalle perdite nelle tubature. Il secondo controllo scatena il dibattito. Un ragazzo mai visto indica gli agenti e dice: “È per questo che non ci vado più allo stadio”. Il padre annuisce. Mi fa ancora male sentire queste cose. Avrò modo di dirlo al cameriere del ristorante di Frascati, che più o meno ci fa la stessa confessione. A 22 anni si è rotto il cazzo di sbirri e controlli. Terza perquisizione, poi il gruppo vacanze è accompagnato nei loschi sotterranei cadenti del nostro gioiello del rugby. Quando giungiamo a rivedere il cielo, il Foggia sta perdendo 1-0.

Mediocrità e dintorni

Ma che bello è stare insieme a te. Il settore dove siamo, mi dicono, normalmente è chiuso. Ma non è normale neppure vendere 4mila biglietti. Noi siamo in alto, ultima fila a cantare. Dietro, ma anche sotto, molte facce sconosciute e tanti commenti in romanesco. Studenti e tante ragazze, che non sempre sanno cosa mettersi per simili occasioni. Di lato, in curva, i tesserati. Li vedo intenti a battere le mani. Saranno quattrocento, forse qualcuno in più. Sfilacciati. Angioletto dice di non ripetere l’errore di giudicarli da un solo punto di vista. Esistono gli ultras a questo mondo ed esistono i tifosi, sostiene. È il tifoso a segnare lo scarto che permette di vedere l’ultras, un po’ come nella scala evolutiva della specie. Sarà, ma anche tra di noi i tifosi sono tanti. Con tanti cellulari puntati, alla giapponese. Ogni tanto seguono un battimani, ogni tanto canticchiano qualcosa. Ma nella sostanza, sono sempre gli stessi quelli che si sbracciano e urlano forte. Un signore si aggrega al nostro gruppo. Si sgola, tanto che alla fine gli regaleremmo la maglietta, se ne avessimo. Il Foggia pareggia su mischia da angolo. Noi urliamo che è gol dal cross in mezzo. Alla fine l’arbitro ci asseconda. I cori si fanno anni Novanta e coinvolgono i nostalgici. Il Foggia segna altre due volte. La tribuna esplode, come la gradinata e la curva. Ma quanti ne siamo? Difficile stabilirlo. Mi diverto solo se. Siamo un po’ staccati dal resto dei nostri, e per quanti sforzi si facciano, sembrano vani. Amici, fuori dallo stadio, dicono che non è così, che anzi si è sentito tutto. Ma noi, prima ancora del rigore a favore dell’Atletico che cambia le sorti del match, abbiamo già battezzato come “mediocre” la prova sugli spalti. “Cori secchi, servono cori secchi”, ci esortiamo in bagno all’intervallo. Abbiamo subito il secondo gol su rigore netto, dicono tutti, ma l’espulsione del nostro difensore è esagerata. La ripresa è tesa, emozionante. Noi sbandieriamo e arrivano anche gli agognati cori secchi. Noi vogliamo questa vittoria. L’eco ci conforta, ma ormai abbiamo un’opinione ed è noioso rimettere sempre tutto in discussione. I nostri si difendono, noi facciamo la nostra parte, ma troppe chiazze occasionali restano mute ad osservare il campo. Non va. O, almeno, non va a noi che abbiamo l’occhio allenato. Alla fine l’Atletico pareggia con Baronio, uno che – come dice Lello – gioca da fermo. Ma ormai abbiamo individuato nell’arbitro l’artefice di questo rovescio. Il tabellone dietro di noi dice 3-3. In tribuna ci sono tanti ragazzini. Tra di noi, il solo Aurelio a proprio agio che scappa tra i seggiolini costringendo Manu e Ceska a fantastici placcaggi nel tempio del rugby. Il Foggia attacca. Siamo condizionati da Zeman, questa la vogliamo vincere. Perché la meritiamo. E quando uno dei nostri la mette a giro sul secondo palo, e la palla sfiora il montante, la delusione è autentica. Mi volto a guardare il display. Recita: 91’22”. Sarebbe stato fantastico. Tre a tre. È il risultato finale. Chissà come l’ha presa Venditti. Chissà Bobo Craxi.

Appendice e dedica al nostro piccolo ultras

Nel box in cui veniamo chiusi, vaghiamo. Sembra vagamente Benevento, nel giorno famoso della sconfitta play-off. Pare che anche stavolta vogliano evitare gli incontri. E fanno defluire i tesserati. Pensano che siamo alla guerra civile. Nell’attesa, il protagonista è ancora Aurelio. Lo è stato dall’inizio. Potrà dire d’aver vissuto la sua prima trasferta autentica a 13 mesi. Un lusso riservato solo ai predestinati. Gli ultras tibetani potrebbero selezionarlo come un Lama. Il furgone, gli autogrill, “Date un occhio se vedete i baresi”. Nella sera già invernale lisciamo un’uscita e vaghiamo per 2 ore tra i Castelli, in una delle zone più impervie e selvagge d’Europa. A Frascati ci aspetta il vino d’osteria e la porchetta offerta da Angioletto, che nella vita ha smesso d’essere un individuo e ora altro non è che una funzione: il padre di Aurelio. E una funzione, si sa, non compie gli anni. Né stasera, né giovedì. Altre tavole imbandite, altre bettole spartane, altri terzi tempi ci attendono, mentre noi stessi attendiamo il tempo tenendo alto un coro. Sempre lo stesso: Aurelio non si tessera!

11/10/10

La rampa di Gela

Domenica 10 ottobre, Gela-Foggia 2-1

Il Foggia di Lanciano e di Barletta è roba da tesserati, vissuto in tv con un crescente sentimento di inadeguatezza, di non-appartenenza. Il Foggia del ritorno allo Zaccheria, quello visto e non vissuto col Viareggio, resta materiale da tifosi di gradinata. Quello di Cava e di Castellammare, poi, talmente finto, costruito, appartiene per intero ad un concetto astratto, etereo di “tifoso”. Non è di nessuno.


La traversata


I fari tagliano un buio carico d’acqua. Non piove ancora con decisione, ma i tergicristalli sono all’opera. Tutti a destra, e-eh, tutti a sinistra, alé-alé. Dal buio del circondario – Puglia estrema, Basilicata, forse un pezzo di Campania, forse la taiga russo-siberiana – ritagliamo solo la forma del furgone che ci precede. E quando la carreggiata si piega di lato, la notte rilascia l’immagine di uno degli spettacoli più affascinanti in natura: il convoglio. Sette, otto furgoni intervallati da diverse auto private. La Foggia non tesserata punta a Sud. Biglietti in tasca, quelli della tribuna, costati 20 sudatissimi euro. Ma non omologarsi ha un prezzo, ed intendiamo pagarlo. Le birre passano di mano in mano, sostituiscono i termos di caffè. Davanti, un Johnny Walker da traversata fa meno danni di un Borghetti incontinente. Vorrei restare sveglio il più a lungo possibile. Vorrei vedere la Sicilia dell’interno. Ci lasciamo alle spalle Sala Consilina, e con commozione crescente ammiriamo i lavori statici sulla Salerno-Reggio. Si toccano velocità impensabili, in alcuni tratti si sfiorano i 40 km/h, in altri la carovana diventa la fila dei dieci piccoli indiani. Quando quantifichiamo in 300 e passa i chilometri ancora da percorrere prima di passare al traghetto, affoghiamo il dispiacere del realismo in barrette di Kinder confezione famiglia. Tre ore e mezzo, forse quattro, a sentire Enzo che parla di arancini allo zafferano. Ne parla ininterrottamente da giovedì, ormai, tanto che ho deciso di non prepararmi neppure un panino per non guastarmi la sorpresa. Le luci dell’alba salutano il tratto migliore dell’intera arteria, quello dove le macchine camminano in due diverse corsie (incoscienza pura!) e mostrano le stupefacenti sopraelevate nella loro raggelante bellezza. Si vede il mare, e di fronte la Sicilia, mentre i paesi dell’ultima parte di strada sul continente sono macchie indistinguibili sotto l’asfalto. Le 8 passate quando raggiungiamo l’imbarco di Villa San Giovanni. Stazione marittima, sgranchirsi le gambe. A vederci così, tutti giù dai mezzi, siamo una discreta macchia nera. È faticoso mantenersi coerenti, sopportare l’avversa fortuna, quando cedere sembrerebbe così facile, quasi ovvio, quasi scontato. Invece. Il piacere matto che si prova nel soffrire da stoici e poter mantenere la testa alta, non ha prezzo. E non è uno spot. Sul traghetto si può ascendere ai piani alti. Facciamo le rampe come bambini in estasi. E quando il mezzo si muove, sentire il freddo sulla faccia, staccarsi dalla terra ferma e puntarne un’altra, è una sensazione piacevole. Si sta come nostromi a sfidare il vento contrario. E le metafore pioverebbero facili, se volessimo rimanere nel banale. Invece. Bandiera pirata issata sulla balconata. Messina in avvicinamento. Poi di nuovo giù, di nuovo dentro i mezzi, di nuovo lo spettacolo del convoglio. In autostrada fino a Catania, ma la Sicilia che scorre di lato riesce ugualmente a catturare lo sguardo. Ha carattere, quest’isola, anche se il tratto più interessante, ne sono certo perché è l’unico che voglio vivere a occhi sgranati, sarà quello interno, la statale per Caltagirone e Gela. E mica per niente, dopo una nottata passata a far funzionare il lettore cd del Ducato, a riascoltare un balbettante Giuliano Palma e sentir saltare i Bluebeaters, a cantare una versione live di Notte prima degli esami beccata in radio, gli occhi si fanno improvvisamente pesanti. E cado nel vuoto dell’incoscienza proprio nel momento tanto atteso. Lo svincolo. Quando li riapro mancano trenta chilometri alla meta. Mi sono perso tutto. Bevo whiskey attaccandomi alla bottiglia come un ubriacone di lungo corso. Attorno le luci sono limpide, la campagna è arida e gialla e al contempo verde e fresca. Sull’altura, Niscemi. Dietro, nel furgone, c’è vita. Si parla di arancini al ragù e di varianti alle alici. Probabilmente non hanno parlato d’altro durante l’intero viaggio. Mi ricordo di avere fame. Tanta fame. Fame autentica. Il faccione dell’eterno bambino dei Kinder mi sorride ammiccante dalla confezione sul cruscotto: “Cazzo vuoi?”. L’ultimo cartello. Gela.

Gela

Estrema periferia. Un traffico da ingorgo, che ci vorrebbe Johnny Stecchino. Clacson che strombazzano. Qualcuno ci saluta dagli abitacoli e dai marciapiede. Noi siamo una specie di pachiderma, di capodoglio in cerca di spiagge grandi abbastanza per permetterci d’arenare. Non chiediamo di meglio. Senza coscienza, sospinti dalla marea, ci ritroviamo dinanzi allo stadio, riconoscibile da una fila di bandiere biancoazzurre sui pennoni. Il parcheggio è nei paraggi. Sono le 13. Undici ore scarse dalla partenza a piazza Libanese. Il fumogeno degli Orange illustra ai passanti il nostro benvenuto. “Fate i bravi”, ci sentiamo dire da dietro. I quattro carabinieri hanno facce da Sedotta e abbandonata. Uno prova a fare l’ostile, quasi l’ordinato. Ma, diciamocela, non è credibile, e la sua mossa si limita a farci parcheggiare tutti nello stesso verso. Un ottimo lavoro. Un altro, faccia da persona per bene, alza la voce nel parlare al telefono: “Ma sono qui, ti dico… Ho capito… Ma ti garantisco che ce li ho davanti”. Viene da sorridere. Evidentemente s’aspettavano solo quei 5 tesserati. E si che siamo nell’era telematica che annuncia l’era dei microchip. Ho fame e allungo l’attesa ripulendo la mia parte di furgone. Il Conte e Davide mi danno una mano. Siamo pronti. Pronti per assaporare uno dei motivi di questa trasferta, i fantasmi evocati da Enzo per una settimana. Puntiamo il primo bar. Una volante ci affianca. Ci accompagna. Chiuso. Allora il ragazzino nel mezzo bianco-blu ci indica un secondo approdo. Puntiamo a quello, con lo stomaco in trepidante attesa. Ma la signora ne ha due solamente, e sono freddi e simili a quelli che si trovano al Pic-nic o al Capriccio. Usciamo, con un principio di sconforto incipiente. E un nuovo carabiniere si intromette nella discussione. “Sentite, ma ci dovete seguire ovunque?”. Quello un po’ ci resta male. Risponde: “No…”. Come a dire: vi stavo solo facendo compagnia. Recuperiamo parlando di cibo. Ci spiega che la Sicilia non è la Puglia, dove tutto si gioca a pranzo. Qui il meglio se lo riservano per la sera. Ci saranno pizze, calzoni e cannoli dopo le 17,30. Quando noi saremo in viaggio, in pratica. Ci lascia soli, come avevamo richiesto. Allevio la delusione con una Moretti. E lo stomaco mi si contorce. La gastrite tipica di queste situazioni di speranza e illusione. Vaghiamo, come dispersi, orfani della nostra guardia del corpo. Una coppia di mezza età ci ferma e ci saluta. Sono di Licata, prima patria di Zeman. Sono venuti apposta. Altri due ci chiedono: “Ma insomma, com’è il mister?”, “Vecchio”, rispondiamo noi. Una nuova macchina si accosta al tavolino dove abbiamo ordinato un altro giro di birre. Sono parenti di un giocatore. Dicono di aver visto Zeman. Ormai la figura dell’allenatore sovrasta ogni altra rappresentazione della nostra squadra. Eppure. Oggi, per quella maglia, abbiamo viaggiato, e tanto. Sentiamo rinascere quell’amore disarcionato dalla Tessera.

Questioni di metodo

Alle 14 siamo pronti. Ma essere pronti non è mai abbastanza. Ora dei funzionari di polizia ci comunicano che possiamo accomodarci. Nel settore ospiti. Pensiamo di aver capito male. Riteniamo che l’ispettore si sia confuso, abbia usato termini in disuso per colpa dell’abitudine. Ma ci vuole poco per comprendere che così non è, e in un lampo ci ritroviamo immersi fino alle caviglie in una nuova spinosa polemica. La questione è: non possono permettere che cento foggiani prendano posto in tribuna accanto ai tifosi del Gela. Sarebbero costretti a far rispettare la numerazione dei biglietti, a sparpagliarci, a far spostare tanti gelesi. È un cavillo, lo si intuisce a miglia di distanza. Si apre il dibattito, che genera una ventina di sotto-dibattiti. Sanno quanto costi a gente che s’è fatta 800 chilometri rinunciare alla partita. Ma rispondiamo bene. Del resto: abbiamo dovuto rinunciare a tanto, non sarà certo una partita a cambiare le cose. Sembriamo spuntarla, e dopo un quarto d’ora di Porta a Porta, garantiamo di fare blocco. Del resto: non chiedevamo di meglio. O, meglio: non abbiamo mai pensato di fare altro. Ma si deve sempre far credere che anche il respiro sia una concessione. È il gioco dell’autorità (“Vi stiamo trattando bene perché siete amici di questa gente”…). Passiamo un prefiltraggio composto da tabelloni elettorali e scaldiamo la voce. Ma che bello è stare insieme a te, Tesserati mai, tesserati mai, sempre in mezzo ai guai. La fila di gelesi per entrare è lunghissima. Ci guardano tutti. Noi cantiamo, mani al cielo. Un signore dai capelli bianchi sgomita per parlare con un responsabile dell’ordine: “Ma entreranno qui?”, “Pare di si”, “E si può?”, “Oggi si”. Non è tanto per i 20 euro spesi. I soldi non sono mai una questione degna di nota. È il principio. Se la trasferta è libera, se le norme mostrano una crepa, io mi precipito. È ovvio. Non ho voglia, nessuno ha voglia, di farsi estromettere dal proprio habitat. Dentro sento un nuovo funzionario sbraitare con un sottoposto: “Ma tutte queste cazzo di bandiere chi le ha fatte entrare? Adesso mi sentono”. Devo ammettere che sono tanti i funzionari in borghese. Direi troppi, vista la relativa calma e l’inevitabile confusione degli ordini impartiti dall’alto. C’è molta gente. La curva è piena, la tribuna si riempie velocemente. Noi siamo a destra, in un fazzoletto di seggiolini. La gente attorno si è semplicemente spostata, lasciandoci un cuscinetto d’aria. Nessun problema. Invece. In cinque minuti cambia tutto. Di nuovo l’esercito di uomini in borghese cambia idea. E ci comunica che lì non possiamo più stare. È assurdo, semplicemente. Riparte il faccia a faccia. La gente di Gela, che ci aveva tenuto accanto senza problemi, non comprende più. Del resto: noi siamo gli ultras, individui irrazionali e animaleschi, a sentire media e ministri. Comincia a rumoreggiare. Siamo pur sempre invasori in una zona franca, e loro – i legittimi abitanti di quelle lande dello stadio – non vogliono problemi. Si farebbe troppa fatica, anche se sarebbe utilissimo, spiegare a tutti come stanno le cose. Parlare di un decreto inutile, delle contraddizioni che genera, dei fastidi che provoca a tutti. Ma non c’è tempo. Ci invitano a sloggiare. E la tribuna, che ha seguito l’evolversi della vicenda, applaude i carabinieri che fanno il loro ingresso risolutore. Non è colpa loro, hanno semplicemente frainteso. Chi non ha frainteso per niente, invece, ed è responsabile del sommovimento d’animi che crea, blatera. Ci vuole fuori dalla tribuna in un flash. Io parlo con l’ennesimo uomo in borghese. È mancanza di buon senso, inutile lamentarsi dopo. Siamo entrati in pace in un settore pacifico. È solo grazie al loro intervento confusionario che adesso le tanto paventate “teste matte” potrebbero avere buon gioco e venire a galla. Noi non molliamo. Siamo sulla scalinata d’accesso, a due passi dalla rampa per i disabili. Siamo cento, disposti su tre file. Qualcuno in piedi sul muretto, qualcuno sotto, qualcuno in balaustra, ma i più a terra, in un corridoio da cui il campo neppure si intuisce. Ma la posta in palio è sempre la stessa: la dignità. Far capire che non ci pieghiamo alle disposizioni assurde così come non indietreggiamo dinanzi ai decreti folli. Restiamo lì. E cantiamo. Succeda quel che succeda. Ma che bello è stare insieme a te, Tesserati mai, tesserati mai, sempre in mezzo ai guai. I gelesi della tribuna fischiano, ma non li abbiamo lasciati indifferenti. Magari non comprendono fino in fondo, ma vedere cento persone che cantano e sventolano su una scalinata, rifiutando il comodo e vuoto settore ospiti, dopo una notte e una mattinata di viaggio, fa colpo. In tanti ci guardano. Poi, nonostante gli sbirri, prendono coraggio. Anche perché per andare in bagno, o uscire, o andare al bar, bisogna passare da quella rampa. Non ci sono terze vie. Bisogna passare in mezzo a noi. Sventolando in disparte – perché se lo fai nel corridoio becchi sicuro qualcuno – vedo i primi gelesi scendere. Il Foggia, abbiamo arguito, perde già 2-0. Un signore mi si avvicina e rompe il ghiaccio scherzando sulla difesa dell’US. Poi mi dice che a Gela siamo i benvenuti. E si capiva che era quello che voleva dirmi. Che era sceso quasi apposta. Un secondo signore mi stringe la mano: “Benvenuti, ragazzi”. È un cambio d’atteggiamento repentino. In tanti si sentono di farci un gesto di sostegno, di parlare con noi, di sostare qualche secondo in più. Si accorgono che non eravamo noi il problema. Noi ci facciamo sentire, sosteniamo la squadra che – poco alla volta – risentiamo nostra. Vedo persone che mi sfilano accanto con panini ripieni di gelato. Manca ancora un quarto d’ora alla fine del tempo e se esco, Enzo mi sgrida. E il mio fisico deprivato di cibo non è in grado di reggere le umiliazioni. Desisto. All’intervallo, l’intera tribuna si rovescia per le scale. Due battute col funzionario: “Sicché, era fuorilegge sistemarci sulle scale, e ci avete sistemato sulla rampa dei disabili. Ottima mossa”. Poi anch’io vado da Sasà il gelataio, che sembra una divinità indiana a molte braccia. Siamo gomito a gomito coi gelesi al bar, e non potrebbe essere altrimenti (quando si dice la sicurezza!). Mi chiedono perché siamo contro la Tessera. È così che funziona, ed è bellissimo. Spiego, ascoltano, domandano ancora, annuiscono. “A Foggia non ce l’avete questa granita qui, eh?”. Sorrido, e non so perché vorrei rispondere che c’abbiamo i torcinelli. Taccio appena in tempo. La ripresa è bellissima. Non in campo, quello non lo vediamo proprio. Ma tra di noi. Un carabiniere mi chiede perché passo il tempo a guardare la mia bandiera che sventola e non la partita. Vorrei rispondere: “Ma fatti i cazzi tuoi…” (anche qui taccio un attimo prima), ma mi limito ad un enigmatico: “La partita siamo noi”. Quello non capisce, va verso i ragazzi sul muretto, ne chiama uno per dire che così rischia di cadere, lo tocca, quello perde l’equilibrio e cade. Il carabiniere si dilegua tra i colleghi. E faccio festa per quattro giorni al mese, Il calendario per me lo sai non ha sorprese. Il Foggia fa il 2-1. L’arbitro concede 5 minuti di recupero. Fino alla fine, Forza ragazzi! E in quel lasso di tempo, riconosco la mia maglia, la mia squadra. Sconfitta, disperata, bellissima. Perdiamo. La tribuna esplode, noi chiamiamo i nostri sotto la rampa. Poi, tolte le pezze, ci incamminiamo verso l’uscita. E qui succede una cosa inattesa. L’intera tribuna sta applaudendo, ma è rivolta verso di noi. Sta applaudendo noi. Non ci credo. Saluto, salutiamo. Dovrò rielaborarla questa scena, penso, ma sono certo che qualcosa abbiamo lasciato qui, oggi, se una tribuna che due ore prima sosteneva l’intervento degli sbirri, adesso omaggia la nostra passione, il nostro compiuto sacrificio. Sul traghetto, qualche ora dopo, qualcuno ci dirà di aver sentito in radio degli sportivissimi tifosi non tesserati del Foggia. Ribadisco: non siamo santi, non siamo angioletti, ma abbiamo dignità, rispetto e onore da vendere. E non solo noi, ma tanti ultras di questo Paese. È tempo che la gente comune, quella terrorizzata dai media dello scoop, lo comprenda.

Il Foggia di Lanciano e di Barletta è roba da tesserati, vissuto in tv con un crescente sentimento di inadeguatezza, di non-appartenenza. Il Foggia del ritorno allo Zaccheria, quello visto e non vissuto col Viareggio, resta materiale da tifosi di gradinata. Quello di Cava e di Castellammare, poi, talmente finto, costruito, appartiene per intero ad un concetto astratto, etereo di “tifoso”. Non è di nessuno. Il Foggia di Gela è il nostro. Di nuovo, e per sempre.

PS:

“Fermati! Fermati! Una rosticceria”. “Buonasera, ce ne fa 25”. E così, in quel di Messina, poco dopo le 21, anche il fantasma degli arancini siciliani s’è palesato.

06/10/10

Quindici euro, famiglie tradizionali e ologrammi

Mercoledì 29 settembre

15 euro, prevendita compresa.

Significa che una famiglia-tipo, di quelle usate dai sondaggisti senza scrupoli per vendere merendine del risveglio – mamma-papà-bimbo-bimba – per varcare le soglie acuminate dello Zaccheria domenica, dovrà sborsare 60 euro. Centoventimilalire, come convertono ancora i più anziani e quelli nati negli anni Settanta. Per godersi Zeman, certo. Ma anche la terza categoria italiana e un Viareggio che, con tutto il rispetto, non è poi tutto sto Milan. 60 euro. Significa saltare il pranzo, accodarsi a una fila scomposta, spingere come forsennati cercando di difendere o mettere in salvo la progenie, sbucare all’interno della curva, farsi perquisire, salire e cercare un posto da cui poter vedere e far vedere ai ragazzini gli altri ragazzini in campo, e dopo un’ora e mezzo + intervallo, avere la certezza d’essersi frusciati l’equivalente di tre mesi di abbonamento a Mediaset Premium. Dove spaparanzato in poltrona ti vedi la Serie A, la Champions e persino l’inutilissima Europa League (magari con in più quell’ulteriore tocco di superfluo che è l’hd).

Riportare le famiglie allo stadio era l’imperativo categorico di Maroni, qualche tempo fa. Uno di quegli slogan insensati che tanta presa fanno sull’immaginario collettivo. L’aratro traccia il solco e la spada lo difende. Si, ma da chi? È un problema di confini agrari? E le famiglie allo stadio sono il rimedio a che? Il toccasana a quale disfunzione? Il termine Hooligans, secondo alcune letture, deriva dai pestiferi figli della signora O’Hool, donna-madre irlandese nella Londra dell’Ottocento. In sostanza veniva costruito come O’Hool’s gang, la banda degli O’Hool, che pare fossero il terrore di un intero quartiere. Violenza gratuita, quindi, o motivata dal contesto. Certo. Ma anche tanto cuore di mamma. Una famiglia, in sostanza, gli hooligans. E le famiglie allargate, atipiche, anomale? Che Maroni pensi ai bei genitori biondi del Mulino Bianco e ai biondissimi, obbedienti, quieti figli delle Brioss quando sfodera idilliaci scenari prossimi venturi? E se poi decidono di “tornare” allo stadio le famiglie quacchere, o quelle fricchettone, o i clan scozzesi? Sarebbe un errore di valutazione terribile, un equivoco penoso sottostimare la percentuale delle famiglie non tradizionali di questo paese. Peccare di anti-modernità per un ministro, vivere nel passato. Un bel guaio. Una bella coppia di gay spagnoli con figli adottati a Manila? Pupo con le sue due mogli e i nipoti? Un sultano del Brunei col suo seguito?
Quali famiglie dovrebbero tornare allo stadio, la circolare ministeriale non lo specifica.
Ma si sa, questo è il Paese dove i pluri-divorziati, adulteri, puttanieri e habitué di trans organizza i Family day e parla dal palco alle masse impaurite dalla contemporaneità facendosi dare manforte da diversi ambigui in sottana e in odor di pedofilia. Ovvio che un rappresentante di codesta Repubblica nutra scompensi. Ed inventi una frequentazione passata degli impianti sportivi da parte di un soggetto che mai vi ha messo piede. Storicamente, dico. Le famiglie che dovrebbero “tornare” allo stadio, allo stadio non ci sono mai state. È come chiedere ai pinguini di tornare nella Savana. Basta vedere le foto d’archivio: non c’è traccia di pinguini nella Savana. Lo stadio, il campo sportivo, in quanto luogo potenzialmente pericoloso ma senz’altro sboccato e istintuale, era prerogativa maschile. Ci andava il capo-famiglia e, all’età giusta e sovente contro la sua volontà, quando sentiva la chiamata decideva di prelevare il primogenito, l’erede, il delfino, il più delle volte sottraendolo ai lunghi dopo-pranzo con i nonni e le femmine, per svezzarlo nella culla della mascolinità: la curva. Finché il cucciolo non abbandonava l’esemplare alfa e al campo si avviava con gli altri cuccioli, che nel frattempo avevano assunto le sembianze degli stessi scugnizzi che avevano cacciato i nazisti da Napoli. Ora le cose sono senz’altro cambiate in meglio: le donne ci vanno, eccome, in curva. E fanno anche meglio degli uomini. Ma le famiglie, per come le intende il Ministro, no, non esistono. E mai esisteranno. Specie se poi i presidenti piazzano a 15 euro un tagliando di curva. In tempo di crisi.

Parliamoci chiaro: la C1, o Lega Pro, ha gli anni contati. Tra fallimenti, ripescaggi, pescecani e bilanci in rosso, tra un paio di stagioni la terza categoria non sarà che un ricordo. In più lo scenario penoso degli stadi vuoti acuisce la sensazione di smarrimento: è come se una crew di guastatori si stesse applicando notte e giorno per devastare scientificamente quel che ancora è rimasto in piedi della passione per le proprie squadre locali. Un manipolo di esperti tagliatori di teste, al soldo forse della Lega, forse delle pay-tv, forse della massoneria deviata, costantemente all’opera per aggiungere sempre nuovi ostacoli tra il cittadino-tifoso e la struttura comunale (di cui il cittadino paga acqua, luce, gas e affitto) dove si svolgono le partite. Una perversione degna di miglior causa. A questo punto ci si aspetterebbe un imprenditore illuminato, un patron determinato ad invertire la rotta per non subire passivamente la morte della propria azienda, disposto a fare carte false pur di diventare sabbia nel motore del sistema. Uno che sbaragli la concorrenza abbassando drasticamente i prezzi dei biglietti, regalandoli ai ragazzini, che dica coi fatti: “Riprendetevi il campo sportivo della vostra città, riempitelo dei vostri colori, perché la squadra fa parte della vostra identità”. Uno così, senza proclami e pure giocando al risparmio sui giocatori, meriterebbe stima per il semplice fatto di dare linfa ad una pianta secolare eppure morente. Invece. La C1 è piena di insulsi ologrammi delle serie superiori, che giocano alla managerialità come i bambini della mia epoca giocavano alle biglie in strada. Scimmiottando Moratti o anche Zamparini parlano di diritti tv, personalizzano gli stadi, ammodernano, si avvalgono di una mezza dozzina di addetti stampa (manco fossero cistercensi alle prese con vecchie biblioteche alluvionate o sopravvalutando quel che hanno da comunicare), convocano esperti ad organizzare il merchandising ufficiale. La perfetta new economy del fallimento. Il calcio giocato, quello che dovrebbe interessare alle famiglie, come tassello in un complesso mosaico finanziario; scatola di cartone tra le cinesi scatole di ferro; il tifoso, anche se accompagnato dai genitori, diventa mucca da mungere. Sempre meno sacra. E con sempre meno giri di parole come spiegazione. 15 euro. Quando ce li chiesero a Potenza ci facemmo prendere per pazzi. Entrammo sventolando banconote finte da 50 euro. Quando ce li imposero a Terni srotolammo lo striscione “No al caro prezzi”.

Non è successo molto tempo fa. Anche se sembrano passati decenni. Ne convengo.

19/09/10

E venne il giorno

Domenica 19 settembre, Barletta-Foggia 1-2

Tra vent’anni chissà. Chi può saperlo come verrà ricordata questa partita.
Oggi si, oggi ha un senso dire: “Vent’anni fa c’ero”. E nel racconto aumentare il rimpianto del calcio che era e non è più. Quel calcio d’infanzia, rude e collettivo; smodato, senza regole, partecipato. Il derby, la partita per eccellenza, quella attesa, vissuta cento volte prima della palla al centro, delle squadre che sbucano dal sottopasso. Senza portarla per le lunghe. Vent’anni fa era Barletta-Foggia. Oggi era, ancora, Barletta-Foggia. E certamente, mentre queste parole vengono (poco) pensate e messe in fila su un asettico file, i cento miei concittadini tesserati saranno ancora chiusi nel settore del vecchio Comunale, mentre sciami di barlettani staranno cercando di rendere viva, vitale, attuale, una pratica d’altri tempi. Che sta al rito come la carta intestata del 1989 al documento Word. Torneranno a casa, quei cento, e diranno che ci sono stati. C’erano quando il Foggia di Zeman e Insigne vinse 2-1. Nessuno potrà dargli torto. Del resto: la verità è sempre rivoluzionaria. Ma il prezzo che abbiamo pagato, la pena che stiamo scontando, sono cose che hanno bisogno di tempo. Devono storicizzarsi. Tra vent’anni, forse, chissà, non ricorderemo affatto questo pomeriggio, oppure lo ricorderemo come la chiave di volta di una nuova epoca. Dalla tv – dove un terrorizzato Baldassarre commentava che manco il biliardo – abbiamo sentito i cori. Un barlettano in croce, e Barlettano pezzo di merda, e Con le mani quando volete. L’intero repertorio, insomma. Non si sono certo trattenuti, i nostri tesserati. Come a Lanciano, del resto, ma questa non era Lanciano. Era la partita, la più importante di tutte. Ed anche la voce aveva un che di diverso: era meno improvvisata, meno occasionale, meno pellegrina. Inutile fingere: sono stato in stazione, stamattina. Non ce la facevo, non reggevo la tensione di dover restare a casa, mentre qualcosa che avvertivo come importante accadeva a cinque minuti dalla mia stanza. Ho visto le facce, abbiamo anche parlato un po’. Non certo studentelli alla prima gita fuori porta, gli va riconosciuto. Anzi. E questo fa più male ancora. Perché non ti aspetti un voltafaccia così smaccato da parte di chi dovrebbe fare cordone con te. E si che le ragioni di qualcuno stanno in piedi, ma il quadro complessivo non regge uguale. Alle due del pomeriggio Foggia era una città attraversata solo da macchine ansiogene. Al volante le facce note, quelle che conosci, quelle spossessate dei gradoni, del gruppo, dei cori. Di tutto. Sembrava una scena da candid. Alla ricerca di un televisore, di una comitiva con cui spartire un entusiasmo finto che mascheri, agli occhi dei meno avvezzi a comprendere le cose umane, il dolore acuto del non esserci. Di sapere che venti amici di curva, insieme a ottanta neofiti, hanno preso quel treno alle 12:10, circondati da poliziotti, vigili urbani e digos. Ed hanno schiacciato – così come fosse normale – quanto rimaneva in piedi delle nostre speranze di fermare il meccanismo. Fuori dal gioco, ormai quasi definitivamente. E come per Claudio Villa, la notizia della cui morte giunse durante la finale di un Sanremo, anche noi siamo stati annichiliti nel giorno del derby. Nel giorno più importante di tutti. Potenza dei simboli. È facile, facile che tra vent’anni qualcuno possa venirmi a dire, come stamattina: “Vent’anni fa io c’ero”. Ero presente, nel giorno in cui tutto cambiò. Quando i gruppi che avevano retto l’urto di quindici anni di anonimato e C2 rimasero a casa, per essere soppiantati da quella che Occhetto non esiterebbe a chiamare ancora “la cosa”. Salteremo Castellammare, poi Gela, poi Roma. Ignoro cosa accadrà a Pisa, quando potrei fare il mio esordio in campionato, nel settore accanto a gente che avrà già 3 o 4 trasferte sulle spalle. Da tesserato, certo, ma questo – tra vent’anni – non importerà più a nessuno. Dicono che ad Azincourt le truppe di Enrico V d’Inghilterra umiliarono la cavalleria francese perché i nobili permisero ai volgari plebei di attaccare i cavalieri avversari, rompendo di fatto il codice cavalleresco che impediva di compiere certi scempi. Vinsero per un’infamata, insomma, gli inglesi. Ma oggi, su un qualsiasi libro di storia, nessuno troverebbe parole di biasimo per quel comportamento. Ad Azincourt vinsero gli inglesi, c’è scritto. A Barletta vinsero cento foggiani. Stop. Che cambia? Ai posteri l’ardua sentenza. Ma io sono ancora un contemporaneo di questi eventi, e dico che ho dovuto buttare giù cinque bicchieri di rum secco per sopportare la vista di quello stadio su una sedia di plastica. Che mi facevano schifo i cori di quei cento, che ho detestato l’idea di non avere prospettive che mi attanaglia da un anno e più. Ma che, al contempo, provavo pena e autentico disgusto per quello stadio semivuoto, per l’inconsistenza dei nostri avversari, che avevano garantito – e non è la prima volta che lo fanno – fuoco e fiamme e a stento si sono sentiti. Certo, è tv. Ma dio, pensavo, questo è un derby? Questo è il derby? Il derby, per come sono abituato io, è un’ordalia che si disputa in un catino infuocato, dove gli spalti capovolgono il senso delle cose e diventano il vero spettacolo, il centro della baraonda. Ed è il dio degli eserciti a stabilire chi sia degno della vittoria. Oggi – impassibile su una sedia a bere Pampero – mi sono incazzato solo perché il nostro portiere è uscito alla trequarti con le mani e perché Zeman si fa continuamente tagliare in verticale. Per cose così, che dal vivo neppure noto. Probabilmente quando finirà quest’incubo dovrò tornare a ripassare i cori, ma spero vivamente che tutto ciò accada presto. Perché non mi diverto più. E le facce dei miei compari, inespressive e fisse sullo schermo al triplice fischio finale, quando avrebbero dovuto ballare seminudi e ubriachi sui tavoli, dimostra che non sono il solo.

13/09/10

La luna nera

Vasto, 12 settembre, Foggia-Foligno 4-4

Dopo Manfredonia era rimasto tutto a mezz’aria. Perso nel vago. Certo che ci saremmo stati fuori dall’Aragona di Vasto, ma il come era ancora avvolto nel più fitto mistero. Venerdì sera Nicola ci aveva parlato dei problemi della sua autovettura e con gli altri ancora alle prese con lo sfiancante operare al palco del Liga in quel di Bari, inevitabile è partito l’essemmesse ad Angelo. “Si, si”, ha risposto. Autovettura compresa. Non immaginava quanto quella asserzione, persino doppia, gli avrebbe cambiato la vita. La vita di settembre, ovvio. Non è il caso di assolutizzare sempre gli eventi.

Eppure. La Lancia è quella stessa Lybra che compare, prima protagonista tra i protagonisti del primo “capitolo” della proto-Ciurma, all’assalto del sogno promozione in quel di Cremona. Nicola, che si è risparmiato la fatica del pilotaggio, siede dietro ed esclama: “Oh, oggi si viaggia di lusso! Finalmente!”. In fondo, non è una trasferta vera e propria. Non è pure una partita in casa, se è per questo. Non è niente. Ed è tutto. Tutto compreso, tutto racchiuso, nel gesto irrazionale di cui pure abbiamo già parlato a lungo: ci sono quelli che saltano i tetti, quelli che si lanciano dai balconi, e quelli che cantano davanti ai campi sportivi. I terzi saremmo noi, e questo è il nostro sport estremo. Quello per cui stiamo partendo. “A lusso”, conferma il Mattia, che poche ore prima – nella notte della prima candelina di Aurelio (a proposito: ma l’ha spenta?) – ha fatto nomi che non avrebbe dovuto fare. Confidando sullo spirito illuminista che lo contraddistingue, forte di quel positivismo che diventa superstizione se così ostentato, ha sfidato le divinità, pronunciando nomi arcaici, gonfi di maledizione. “Dai! Basta a credere a queste cose”. E sia. All’una siamo in sede. Il tavolo con l’incerata offre ancora confetti. Il frigo, svuotato d’ogni suo avere come uccelli privati delle interiora da aruspici malauguranti, mostra mezzo Borghetti. Oltre ai muffin di Ceska. Ma siamo fuori orario per mangiare. Per partire dal dolce, oltretutto. Appuntamento volante alle 13,30, poi casello e autogrill per compattare la piccola carovana di mezzi. Siamo ossequiosi e disciplinati. Ci è stato detto che “non si scende” e restiamo chiusi dentro, a parlare male degli assenti. Perché siamo carogne che attirano i fulmini. 160 km/h lisci come un presentimento. Teniamo il gruppo, puntiamo l’apripista, rallentiamo all’occorrenza. Stavolta si esce a Vasto Sud. Le case di Termoli a destra e a sinistra, poi ancora asfalto. E a 5 km dallo svincolo, la spia inattesa diventa rossa sul cruscotto. “No, cazzo!”, esclama il pilota. È l’iniezione, mi dicono. Io non immagino assolutamente nulla. Accostiamo. Esploriamo quel complesso meccanismo che si cela sotto il cofano come turisti che guardano locuste al bioparco. Ripartiamo a velocità ridotta. L’apripista è scomparso, la carovana a ruota. Pochi metri e uno strano, preoccupante fumo bianco annuncia un problema dietro, dalle parti della marmitta. Nuova piazzola di sosta. Il mare è bianco come il fumo. Un pezzo di plastica penzola penosamente fuso. C’è un problema. Proviamo a risolverlo manualmente, asportando l’orpello. Arriviamo a destinazione, certi di aver pungolato gli dei.

Uno sbarramento qui, all’imbocco della strada, poco oltre le transenne che chiudono l’accesso al traffico; uno sbarramento lì, davanti al portone del palazzone, tristemente famoso per il rastrellamento di quindici giorni fa; una pattuglia e sei agenti più avanti, sotto il muro di cinta, al sole. Un paio di uomini sul camminamento, con la telecamera puntata dritta sul gruppetto. Saremo una cinquantina, penso. Dopo goliardica esperienza dell’altra domenica, era proprio il caso di mobilitare oltre venti tra poliziotti, carabinieri e uomini in borghese per blindare una strada? Ma la Tessera non doveva trasformarsi in un copioso risparmio sulla sicurezza? Misteri. “Il Foggia vince uno a zero”, mi dice Angelo, prima di essere circondato da gente che gli domanda cosa ne sia della macchina; Uno a uno, fa il tipo sul muro. Pare che il Foligno abbia anche sbagliato un rigore. Noi siamo qua / Sempre con te. Le mani sono alte, le voci si compattano, la situazione è bella come al solito. Ma dentro è in corso l’ennesimo “spettacolo” circense. È strano e affascinante, quest’anno, parlare di una squadra che conosciamo dal vero solo in Coppa. È una specie di film sul calcio futuribile. Unilateralmente stabiliamo che è finito il primo tempo e ci sparpagliamo per la pianura alla ricerca di un bar. Alla seconda svolta a sinistra, una volante della polizia ci intercetta. È difficile. Chiediamo a loro: “Un bar?”. Indicano, senza favellare. Giusto. Non solo è bar, è anche tabacchi. Ed è aperto. E c’ha i tavolini. Bingo. Girano Amstel, Moretti grandi e Heineken. Fortuna che non c’è Sansonna. I discorsi sono messaggi di naviganti sbattuti dal vento e puntano sempre verso la stessa stella polare: la tessera, i divieti, il futuro. Pensieri pesanti, che portano via qualche minuto in più. Ritroviamo la strada, imbocchiamo una salita. “Se non è questa la traversa, fermiamoci a cantare sotto il palazzo. Tanto, che differenza fa…”. Fantacalcio, fantatifo. Invece la strettoia ci sbuca sulla scalinata della curva. “Stiamo vincendo?”, ci chiedono; “Chi siamo noi?”, rispondiamo. Gli altri già cantano. Uno sguardo al cellulare: siamo al decimo della ripresa. Mi fanno segno con due mani: indice e medio alzato a destra, indice medio e pollice a sinistra. No, mi dico, non può essere. Non può diventare così circense. Uno accetta quel che ricorda, e io ricordo una squadra che sembrava un pallottoliere e che niente aveva a che vedere col calcio così come lo concepisco. Ma questo è troppo anche per la mia memoria preventivamente filtrata! 3-2 al 10’ del secondo tempo. Dico il vero: diventa futile persino sapere per chi. “4-2 per il Foligno”, dice la vedetta lombarda. E si ride. Ma non il riso allegro di chi intende questo sport come puro svago domenicale, alternativa al cinema o all’avanspettacolo televisivo. E ama, chissà perché, vedere tanti gol, e non i gol giusti. Ma il riso di chi, alla quarta, è già sull’orlo della crisi di nervi. 4 gol dal Foligno, con tutto il rispetto, no. Ma non perché così non si sale, ma perché siamo il Foggia. E la parola dice – dovrebbe dire – tutto. Due frame: il coro per Caramanno, indimenticato maestro, e la parola “contestazione”. Non ci placa neppure il pallone che due bambini del posto ci soffiano sotto i piedi; neppure la dea della giornata, che sfila gelato alla mano davanti al plotone. Poi si, si pareggia. E il quinto lo sfioriamo noi, e lo sfiorano loro. Che fa. A questo punto può finire anche 10 a 10. Il sorriso ha abbandonato da tempo la mia faccia.

La sfilata degli accreditati è, al solito, vergognosissima. Qui e là, tra gli impudici presenti, anche qualche straccetto rossonero. Una fede di classe, che speriamo ardentemente portino anche domenica, in quel di Barletta, in un derby che da solo dovrebbe valere la loro fottuta tessera. La polizia ci segue e non vuol saperne di salutarci. Finito il tempo, dovremmo – come Goldrake, come Mr.Hyde – trasformarci da pericolosissimi ultras vocianti a cittadini normali a spasso verso il belvedere di un paesino adriatico. Invece niente. “Ce ne andiamo?”, chiedono. Sgomberare il campo dagli equivoci. E gli equivoci siamo noi. Ok. Ma la macchina, quella Lybra di cui sopra, lasciata dormiente sulle strisce blu del parcheggio libero, torna a lampeggiare. E a fumare. Ma il fumo, stavolta è più denso, e finisce in gran parte nell’attigua gelateria. Un bel guaio. Meglio abbandonare il centro, poi si vedrà. A guizzi verso la statale, ma le cose non migliorano. Anzi, il fumo s’è fatto denso e saetta verso le macchine in coda che sembra la Sud negli anni Ottanta. Meglio accostare, ormai non sappiamo neanche più in vista di cosa. E qui avviene l’irreparabile. La macchina, spenta, diventa una caldaia. Mattia ha perso l’uso del linguaggio, indica a saltelli il cofano spalancato sull’ignoto. Singhiozza, la macchina, poi va in ebollizione. Il fumo sembra quello del crollo di un palazzo, esce impazzito dal motore come dalla marmitta. Pensiamo che stia per esplodere. Lo pensa anche il portiere di un albergo, che s’infila dentro a chiamare i pompieri. Preventivamente. Ma il botto, fortunatamente, non c’è. C’è un sipario di bianco vapore, lo sconforto di una statale, di Vasto marina, del che fare senza una lira in tasca e staccati dal resto della truppa. Un meccanico di domenica è alchimia impensabile. Non ci resta che spingere la vettura, ormai calma dopo la sfuriata, verso un parcheggio-dormitorio. E avviarsi alla stazione che, assicura Nicola, è vicina. Profughi della fede, con una sfilza di pensieri dominanti: il costo di questa bravata, il balzo sul treno in corsa a trent’anni suonati, l’appuntamento delle 20,30 a Foggia. Al binario 2 c’è chi dice di seguirlo, che lui ha scientificamente studiato gli Intercity e conosce un metodo infallibile per viaggiare senza spendere un euro. A passo svelto, dietro l’opinion leader, verso le carrozze puntate. A passo svelto, tra le fauci del controllore. Che apre le danze alla polemica. Respinti una prima volta, attendiamo il Regionale, che in realtà è la cameretta viaggiante di un nuovo controllore. Sarebbe più difficile sfuggirgli se fosse un autobus. Ok, pensa Angelo, non abbiamo più l’età per le figure di merda. Meglio munirsi di biglietti e attendere l’altro Intercity. Che giunge, in orario. Puntuale, come la sventura che ci siamo attirati addosso.

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