24/10/10

Il giorno dell’immaginazione

Sabato 22 ottobre, Atletico Roma-Foggia 3-3

La sicurezza e lo spirito dei tempi

Un rettangolo di carta di basso lignaggio; carta plebea e vagamente filigranata, color bianco sporco con tristi motivetti marroni, tipo video di Peter Gabriel. Il timbro della Siae sulla cucitura, la dicitura “Intero – 1° posto, prevendita: 0698764”. Lo spettatore è tenuto a conservare il biglietto nel luogo della manifestazione e nelle immediate adiacenze. Peccato.
Peccato non poterlo portare in giro per mostre e vernissage. Perché questo tagliando è un’opera d’arte. Magari non un capolavoro, ma neppure il semplice pezzo di carta che vogliono farci credere (quelli che in vita non hanno apprezzato né Van Gogh né Ivan Graziani). È la prova tangibile – la metafora, direbbero i critici letterari – dell’inutilità. Incarna lo Spirito dei tempi. La carta igienica del sistema Maroni. Ne ho raccolti un paio da terra. Tra qualche anno avranno un valore inestimabile. Me li rivenderò su Ebay in tempi ancor più cupi, se proprio Sotheby’s non apprezza.

Fiumi di parole sulla sicurezza, la violenza, l’incubo uligano d’oltre Adriatico. Migliaia, decine di migliaia di sillabe pronunciate da questori, prefetti, ispettori, agenti di campo, presidenti, steward. Migliaia di euro per ammodernare gli impianti sul modello carcerario più avanzato, altrettanti per tentare di mettere in pratica i decreti ministeriali, per fingersi tedescamente efficienti.
E poi, un bel sabato di ottobre, tutti al botteghino, a quaranta minuti dal fischio d’inizio, a premersi l’uno sull’altro, a spingersi, a vedere la fila crescere a dismisura, disorganizzarsi a dovere, a rischiare d’abbattere un reticolato, voltare l’angolo, snodarsi. E tra le urla dei tifosi dell’Atletico e di quelli del Foggia, nella divisione sostanziale e sostanzialmente inutile tra tesserati (dove sono le vostre corsie preferenziali, amici?) e non, tra romanisti e laziali zemaniani, nel melting pot delle 14,30, rivivere le scene del 1984, e tornare per un attimo a stringere la mano di papà intento a litigare con quei pezzi di merda che non aprivano mai più di una porta. A risentirne quasi l’odore di Denim e Nazionali senza filtro sulle mani. Non ricordo chi fosse il ministro degli Interni nel 1984, ma di sicuro non pensava agli stadi. Faceva riunioni col cappuccio, magari, organizzava stragi di Stato, insabbiava e si lasciava corrompere, probabilmente, ma allo stadio si andava liberamente, rudemente, senza ammortizzatori. Era un’esperienza adulta. E qui, ora, è lo stesso. E non possiamo rallegrarcene a dovere. Perché bisognerebbe fingere che in mezzo non ci sia stata la retorica scassa-cazzi pluriannuale sugli ultras e la Tessera. Fingere che non abbiano fatto degli stadi quel che ne hanno invece fatto. Il cassiere sarà felice, penso, ma con che faccia si va in giro a dire che è normale avere problemi dinanzi a 4mila spettatori quando di solito se ne fanno 500? Allora perché mai questa cavolo di squadra gioca al Flaminio, se non ha che 500 affezionati sostenitori? Perché non se ne torna nel quartiere, se mai ne ha avuto uno? Per tutto questo, quando quel poveraccio (o quella poveraccia, non lo so perché non sono mai arrivato a vederne la luce in fondo al tabernacolo) impegnato a battere i nominativi di tutti i presenti nella sua tomba-unico sportello aperto, mentre in coda selvaggia si sta coi soldi contati e i documenti come allo sbarco ad Ellis Island; insomma, quando l’addetto/a ha annunciato che era finita la carta per stampare i tagliandi e bisognava ripiegare su alcune riserve in attesa da quando Cindy Lauper cantava a Deejay television, la risata collettiva ha rischiato seriamente di ammazzarli. Se non fosse che la gente era troppo nervosetta, in quel budello da sardine, per poter sorridere della sceneggiata. Che per noi era cominciata lunedì. Biglietti in vendita, disponibili presso i punti vendita autorizzati, recitava la nota. La solita sfilza di domande incompetenti – “Ma si può andare nel settore ospiti?”, “Ma ci vuole la Tessera?” – poi il primo nascente segnale di allarme: “Hanno bloccato la vendita dei settori per non tesserati”. “Ma come, - ci chiedevamo – che vuol dire? La trasferta è libera, non ha limitazioni territoriali. Cos’è questa, la nuova frontiera della lotta ai refrattari?”. Ecco, se avessimo trovato i nostri bravi tagliandi nella settimana foggiana, se nessuno avesse esercitato le sue geniali pressioni demotivanti sul tizio di viale Ofanto, a quest’ora non sarei qui. Non perderei tempo e non farei massa. Ergo: non ne farei neppure perdere. È quello che spiego ai miei vicini, romani, foggiani e oriundi. E a cadenze precise qualcuno urla qualcosa su Maroni o sulla sua genitrice. Gente comune, eh, mica facinorosi alla Ivan di Belgrado. Nel 1984 nessuno pensava alle mamme dei ministri, mentre si era in fila al cancello dello Zaccheria. Era un mondo adulto: esisteva una sorta di patto di reciproca indifferenza che, a conti fatti, salvava l’onore di tutti. Si sbagliava da professionisti.

Il circo di Zeman

Alla fine della giostra, riemergo dalla calca. Ammaccato, ma vivo. C’è chi mantiene la fila. Un paio di bustoni di Nastro Azzurro e Peroni da 0,66, e ci si accampa. Si tira fiato, mi accendo una sigaretta. E per la prima volta da quando abbiamo parcheggiato il furgone, provo a mettere in fila le sensazioni. Vedo. Il Flaminio da fuori è un signor impianto. Osservo: “Cristo santo!”. Servirebbe l’abilità di uno scrittore specializzato in pellegrinaggi, riti sacri collettivi, roba da Paoline così, per spiegare quel che brulica sul piazzale. Il meglio, il peggio, il banale. Centinaia di teste a zonzo, formiche indecise, a spasso: muoversi, orientarsi, affondare, riemergere. Catturare emozioni. È un grande evento folk. È la Fiera di Santa Caterina, ma non quella di adesso e neppure quella di via Galliani. È la Fiera di Corso Giannone, o l’Embell Riva. Un circo in cui tutto si mescola, e l’evento fa da pura quinta scenografica. Come i venditori d’acqua e noccioline a Vermicino. Sedicenni bardati di sciarpe comprate al chiosco; accenti della provincia, foggiani di stanza a Roma, abitanti della Capitale in cerca di brividi altrui, o di ricordi a basso costo. Non ci credo. È tutto così surreale che riesco ad immaginare nani e draghi alati. Ogni tanto lo sguardo di qualche ultras sembra chiedere soccorso e conforto: si muovono spaesati, questi briganti da migliaia di chilometri a stagione. Non riescono a spiegarsi cosa stia accadendo. Mi volto e vedo Balbo. Abel Balbo. è con due amici, attende i biglietti, come noi tutti. Stappo una birra grande con l’accendino, accendo una Lucky strike di Angioletto. Pare ci sia Previti, e pure Bobo Craxi. I vip: un’ipotesi che non avevo contemplato, eppure di cose brutte brutte ne penso di continuo. Lo dico, e un codazzo di individui taglia la strada. Da destra a sinistra. Dall’entusiasmo, dev’essere come minimo un Casillo. Invece è Venditti. Antonello Venditti. Dalla fila, in fondo alla mia visuale, uno gli grida “Romanista di merda!”. Ma quello ride, felice di essere ancora riconosciuto, di vivere ancora nello strapaese dei balocchi. Foto col cantante, bandiere, svariati “Forza Foggia!” e anche qualche suocera al telefono. Altri draghi spiegano le ali sulla piazzaforte romana, mentre improvvisati organizzatori d’eventi provano a depistare per alleggerire il caos: “I foggiani non tesserati possono andare a fare il biglietto in Curva Sud. Pagano direttamente alle porte”. Come all’oratorio. Un altro pensiero sentito al Ministro e alla sua mamma. E vediamo Gigi Di Biagio. Sembra la notte degli Oscar. Manca il red carpet. Vaga, Gigi, fissando il cellulare. “Ohi, Gigi, ma oggi per chi tifi?”, lui sorride. Enzo bada al concreto: “Gigi, perché non ci offri una birra?”. Quello guarda la busta ancora piena, “Certo, – dice premuroso – potrebbero non bastarvi. Andiamo al chiosco”. Solo che il chiosco ha una fila di ben due persone e Gigi si annoia ad aspettare, così mette mano al portafogli, afferra 2 banconote da 10 e dice: “Ve le offro, ma me ne vado”. Non so perché, riusciamo a fare a meno della sua compagnia, mentre ridiamo come idioti. Adesso perfettamente in linea col carnevale. Pagliacci. Pensiamo: “E se andassimo a caccia di grandi ex?”. Si propone un tariffario: da Signori pretendiamo almeno una cinquanta, Codispoti e List sono dispensati. Pagaci, pagaci, pagaci da bere, [nome giocatore], pagaci da bere!

Le famiglie allo stadio

Muoviamo verso il nostro boccaporto. Alla fine della fatica, c’è stato un errore di calcolo. Sono le 15 passate. E non ho il biglietto. Ma la preoccupazione è un’altra: “Mica ci sono tesserati qui?”, chiediamo al funzionario in giacca. “No, – fa quello spazientito – non ce ne sono”. Bene, entriamo. Mentre da dietro qualcuno sta chiedendo: “Mica entrano anche i tesserati?”, e quello risponde che no, non entrano, ma neppure è bello che li trattiamo come appestati. Peggio, direi, visto che la peste nessuno se la va a cercare con le sue mani. Tecnica sperimentata: Ceska, più bassa, passa i controlli arancioni indicando me che mostro quella cartacea cosa qualsiasi che garantiscono essere il ticket, e nel gioco di rimandi schizza dentro prima che quello possa rendersi conto. Ma l’amico è in gamba e mi blocca. “Guarda che con un biglietto entra una sola persona”, “Certo”, “E allora la ragazza?”, “Quale ragazza?”, “La ragazza mora coi capelli lunghi?”, “Quale ragazza, non c’è nessuna ragazza”, “Come no?”, “No”. Nel regno zemaniano dell’illusione, il ragazzo non si convince d’aver avuto un’allucinazione, mentre io lo rassicuro che sembro uno psichiatra. “Tranquillo, non c’è nessuna ragazza”. Ma il funzionario in giacca, un diverso, sente puzza di imbroglio e non ci sta a farsi gabbare. Arriva di gran carriera, con l’aria di chi dice che non gliela si fa. Ascolta una leggenda arancione che parla di una ragazza mora dai capelli lunghi, annuisce serio, afferra un ragazzo a caso e gli dice: “Fammi vedere il biglietto”. Come se avesse una precisa strategia d’indagine. Quello, stupito, glielo consegna. E il furbacchione può finalmente esclamare: “Questo biglietto è falso, manca il timbro!”. Una risata vi seppellirà. E si che c’era bisogno di grande fantasia per immaginare che quelle cose sarebbero state un biglietto! Penso non se lo augurassero neppure quelle cose stesse! Si, è sabato e si possono fare le fotocopie, ma sarebbe mancato il tempo materiale. E poi… difficilmente si pareggia un’opera d’arte di tal fatta. Il dibattito si sposta sul biglietto, un paio di poliziotti mi contendono la perquisizione, mentre uno steward arancione resta perplesso a ricostruire i suoi ultimi minuti. Passo il primo controllo, gli altri sono già al secondo. Aspetto Giuseppe, che si è attardato, e commetto la strepitosa cazzata di accendermi una sigaretta. Un agente si volta di scatto. Mi riperquisisce. Vuole indagare. Gli stadi devono tornare ad essere luoghi per famiglie non fumatrici. E senza vizi, visto che a Manu sequestrano la bottiglietta d’acqua per Aurelio, 13 mesi e prima trasferta in furgone. “Il bambino, se avrà sete, potrà andare al bar”. Al bar immaginario della sua infanzia, quello con le marmotte che servono bicchieri con gli ombrellini, visto che questo stadio del Sei Nazioni, dentro, è un rudere. Già che c’era poteva consigliare ad Aurelio di bere direttamente la condensa dalle perdite nelle tubature. Il secondo controllo scatena il dibattito. Un ragazzo mai visto indica gli agenti e dice: “È per questo che non ci vado più allo stadio”. Il padre annuisce. Mi fa ancora male sentire queste cose. Avrò modo di dirlo al cameriere del ristorante di Frascati, che più o meno ci fa la stessa confessione. A 22 anni si è rotto il cazzo di sbirri e controlli. Terza perquisizione, poi il gruppo vacanze è accompagnato nei loschi sotterranei cadenti del nostro gioiello del rugby. Quando giungiamo a rivedere il cielo, il Foggia sta perdendo 1-0.

Mediocrità e dintorni

Ma che bello è stare insieme a te. Il settore dove siamo, mi dicono, normalmente è chiuso. Ma non è normale neppure vendere 4mila biglietti. Noi siamo in alto, ultima fila a cantare. Dietro, ma anche sotto, molte facce sconosciute e tanti commenti in romanesco. Studenti e tante ragazze, che non sempre sanno cosa mettersi per simili occasioni. Di lato, in curva, i tesserati. Li vedo intenti a battere le mani. Saranno quattrocento, forse qualcuno in più. Sfilacciati. Angioletto dice di non ripetere l’errore di giudicarli da un solo punto di vista. Esistono gli ultras a questo mondo ed esistono i tifosi, sostiene. È il tifoso a segnare lo scarto che permette di vedere l’ultras, un po’ come nella scala evolutiva della specie. Sarà, ma anche tra di noi i tifosi sono tanti. Con tanti cellulari puntati, alla giapponese. Ogni tanto seguono un battimani, ogni tanto canticchiano qualcosa. Ma nella sostanza, sono sempre gli stessi quelli che si sbracciano e urlano forte. Un signore si aggrega al nostro gruppo. Si sgola, tanto che alla fine gli regaleremmo la maglietta, se ne avessimo. Il Foggia pareggia su mischia da angolo. Noi urliamo che è gol dal cross in mezzo. Alla fine l’arbitro ci asseconda. I cori si fanno anni Novanta e coinvolgono i nostalgici. Il Foggia segna altre due volte. La tribuna esplode, come la gradinata e la curva. Ma quanti ne siamo? Difficile stabilirlo. Mi diverto solo se. Siamo un po’ staccati dal resto dei nostri, e per quanti sforzi si facciano, sembrano vani. Amici, fuori dallo stadio, dicono che non è così, che anzi si è sentito tutto. Ma noi, prima ancora del rigore a favore dell’Atletico che cambia le sorti del match, abbiamo già battezzato come “mediocre” la prova sugli spalti. “Cori secchi, servono cori secchi”, ci esortiamo in bagno all’intervallo. Abbiamo subito il secondo gol su rigore netto, dicono tutti, ma l’espulsione del nostro difensore è esagerata. La ripresa è tesa, emozionante. Noi sbandieriamo e arrivano anche gli agognati cori secchi. Noi vogliamo questa vittoria. L’eco ci conforta, ma ormai abbiamo un’opinione ed è noioso rimettere sempre tutto in discussione. I nostri si difendono, noi facciamo la nostra parte, ma troppe chiazze occasionali restano mute ad osservare il campo. Non va. O, almeno, non va a noi che abbiamo l’occhio allenato. Alla fine l’Atletico pareggia con Baronio, uno che – come dice Lello – gioca da fermo. Ma ormai abbiamo individuato nell’arbitro l’artefice di questo rovescio. Il tabellone dietro di noi dice 3-3. In tribuna ci sono tanti ragazzini. Tra di noi, il solo Aurelio a proprio agio che scappa tra i seggiolini costringendo Manu e Ceska a fantastici placcaggi nel tempio del rugby. Il Foggia attacca. Siamo condizionati da Zeman, questa la vogliamo vincere. Perché la meritiamo. E quando uno dei nostri la mette a giro sul secondo palo, e la palla sfiora il montante, la delusione è autentica. Mi volto a guardare il display. Recita: 91’22”. Sarebbe stato fantastico. Tre a tre. È il risultato finale. Chissà come l’ha presa Venditti. Chissà Bobo Craxi.

Appendice e dedica al nostro piccolo ultras

Nel box in cui veniamo chiusi, vaghiamo. Sembra vagamente Benevento, nel giorno famoso della sconfitta play-off. Pare che anche stavolta vogliano evitare gli incontri. E fanno defluire i tesserati. Pensano che siamo alla guerra civile. Nell’attesa, il protagonista è ancora Aurelio. Lo è stato dall’inizio. Potrà dire d’aver vissuto la sua prima trasferta autentica a 13 mesi. Un lusso riservato solo ai predestinati. Gli ultras tibetani potrebbero selezionarlo come un Lama. Il furgone, gli autogrill, “Date un occhio se vedete i baresi”. Nella sera già invernale lisciamo un’uscita e vaghiamo per 2 ore tra i Castelli, in una delle zone più impervie e selvagge d’Europa. A Frascati ci aspetta il vino d’osteria e la porchetta offerta da Angioletto, che nella vita ha smesso d’essere un individuo e ora altro non è che una funzione: il padre di Aurelio. E una funzione, si sa, non compie gli anni. Né stasera, né giovedì. Altre tavole imbandite, altre bettole spartane, altri terzi tempi ci attendono, mentre noi stessi attendiamo il tempo tenendo alto un coro. Sempre lo stesso: Aurelio non si tessera!

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