11/10/10

La rampa di Gela

Domenica 10 ottobre, Gela-Foggia 2-1

Il Foggia di Lanciano e di Barletta è roba da tesserati, vissuto in tv con un crescente sentimento di inadeguatezza, di non-appartenenza. Il Foggia del ritorno allo Zaccheria, quello visto e non vissuto col Viareggio, resta materiale da tifosi di gradinata. Quello di Cava e di Castellammare, poi, talmente finto, costruito, appartiene per intero ad un concetto astratto, etereo di “tifoso”. Non è di nessuno.


La traversata


I fari tagliano un buio carico d’acqua. Non piove ancora con decisione, ma i tergicristalli sono all’opera. Tutti a destra, e-eh, tutti a sinistra, alé-alé. Dal buio del circondario – Puglia estrema, Basilicata, forse un pezzo di Campania, forse la taiga russo-siberiana – ritagliamo solo la forma del furgone che ci precede. E quando la carreggiata si piega di lato, la notte rilascia l’immagine di uno degli spettacoli più affascinanti in natura: il convoglio. Sette, otto furgoni intervallati da diverse auto private. La Foggia non tesserata punta a Sud. Biglietti in tasca, quelli della tribuna, costati 20 sudatissimi euro. Ma non omologarsi ha un prezzo, ed intendiamo pagarlo. Le birre passano di mano in mano, sostituiscono i termos di caffè. Davanti, un Johnny Walker da traversata fa meno danni di un Borghetti incontinente. Vorrei restare sveglio il più a lungo possibile. Vorrei vedere la Sicilia dell’interno. Ci lasciamo alle spalle Sala Consilina, e con commozione crescente ammiriamo i lavori statici sulla Salerno-Reggio. Si toccano velocità impensabili, in alcuni tratti si sfiorano i 40 km/h, in altri la carovana diventa la fila dei dieci piccoli indiani. Quando quantifichiamo in 300 e passa i chilometri ancora da percorrere prima di passare al traghetto, affoghiamo il dispiacere del realismo in barrette di Kinder confezione famiglia. Tre ore e mezzo, forse quattro, a sentire Enzo che parla di arancini allo zafferano. Ne parla ininterrottamente da giovedì, ormai, tanto che ho deciso di non prepararmi neppure un panino per non guastarmi la sorpresa. Le luci dell’alba salutano il tratto migliore dell’intera arteria, quello dove le macchine camminano in due diverse corsie (incoscienza pura!) e mostrano le stupefacenti sopraelevate nella loro raggelante bellezza. Si vede il mare, e di fronte la Sicilia, mentre i paesi dell’ultima parte di strada sul continente sono macchie indistinguibili sotto l’asfalto. Le 8 passate quando raggiungiamo l’imbarco di Villa San Giovanni. Stazione marittima, sgranchirsi le gambe. A vederci così, tutti giù dai mezzi, siamo una discreta macchia nera. È faticoso mantenersi coerenti, sopportare l’avversa fortuna, quando cedere sembrerebbe così facile, quasi ovvio, quasi scontato. Invece. Il piacere matto che si prova nel soffrire da stoici e poter mantenere la testa alta, non ha prezzo. E non è uno spot. Sul traghetto si può ascendere ai piani alti. Facciamo le rampe come bambini in estasi. E quando il mezzo si muove, sentire il freddo sulla faccia, staccarsi dalla terra ferma e puntarne un’altra, è una sensazione piacevole. Si sta come nostromi a sfidare il vento contrario. E le metafore pioverebbero facili, se volessimo rimanere nel banale. Invece. Bandiera pirata issata sulla balconata. Messina in avvicinamento. Poi di nuovo giù, di nuovo dentro i mezzi, di nuovo lo spettacolo del convoglio. In autostrada fino a Catania, ma la Sicilia che scorre di lato riesce ugualmente a catturare lo sguardo. Ha carattere, quest’isola, anche se il tratto più interessante, ne sono certo perché è l’unico che voglio vivere a occhi sgranati, sarà quello interno, la statale per Caltagirone e Gela. E mica per niente, dopo una nottata passata a far funzionare il lettore cd del Ducato, a riascoltare un balbettante Giuliano Palma e sentir saltare i Bluebeaters, a cantare una versione live di Notte prima degli esami beccata in radio, gli occhi si fanno improvvisamente pesanti. E cado nel vuoto dell’incoscienza proprio nel momento tanto atteso. Lo svincolo. Quando li riapro mancano trenta chilometri alla meta. Mi sono perso tutto. Bevo whiskey attaccandomi alla bottiglia come un ubriacone di lungo corso. Attorno le luci sono limpide, la campagna è arida e gialla e al contempo verde e fresca. Sull’altura, Niscemi. Dietro, nel furgone, c’è vita. Si parla di arancini al ragù e di varianti alle alici. Probabilmente non hanno parlato d’altro durante l’intero viaggio. Mi ricordo di avere fame. Tanta fame. Fame autentica. Il faccione dell’eterno bambino dei Kinder mi sorride ammiccante dalla confezione sul cruscotto: “Cazzo vuoi?”. L’ultimo cartello. Gela.

Gela

Estrema periferia. Un traffico da ingorgo, che ci vorrebbe Johnny Stecchino. Clacson che strombazzano. Qualcuno ci saluta dagli abitacoli e dai marciapiede. Noi siamo una specie di pachiderma, di capodoglio in cerca di spiagge grandi abbastanza per permetterci d’arenare. Non chiediamo di meglio. Senza coscienza, sospinti dalla marea, ci ritroviamo dinanzi allo stadio, riconoscibile da una fila di bandiere biancoazzurre sui pennoni. Il parcheggio è nei paraggi. Sono le 13. Undici ore scarse dalla partenza a piazza Libanese. Il fumogeno degli Orange illustra ai passanti il nostro benvenuto. “Fate i bravi”, ci sentiamo dire da dietro. I quattro carabinieri hanno facce da Sedotta e abbandonata. Uno prova a fare l’ostile, quasi l’ordinato. Ma, diciamocela, non è credibile, e la sua mossa si limita a farci parcheggiare tutti nello stesso verso. Un ottimo lavoro. Un altro, faccia da persona per bene, alza la voce nel parlare al telefono: “Ma sono qui, ti dico… Ho capito… Ma ti garantisco che ce li ho davanti”. Viene da sorridere. Evidentemente s’aspettavano solo quei 5 tesserati. E si che siamo nell’era telematica che annuncia l’era dei microchip. Ho fame e allungo l’attesa ripulendo la mia parte di furgone. Il Conte e Davide mi danno una mano. Siamo pronti. Pronti per assaporare uno dei motivi di questa trasferta, i fantasmi evocati da Enzo per una settimana. Puntiamo il primo bar. Una volante ci affianca. Ci accompagna. Chiuso. Allora il ragazzino nel mezzo bianco-blu ci indica un secondo approdo. Puntiamo a quello, con lo stomaco in trepidante attesa. Ma la signora ne ha due solamente, e sono freddi e simili a quelli che si trovano al Pic-nic o al Capriccio. Usciamo, con un principio di sconforto incipiente. E un nuovo carabiniere si intromette nella discussione. “Sentite, ma ci dovete seguire ovunque?”. Quello un po’ ci resta male. Risponde: “No…”. Come a dire: vi stavo solo facendo compagnia. Recuperiamo parlando di cibo. Ci spiega che la Sicilia non è la Puglia, dove tutto si gioca a pranzo. Qui il meglio se lo riservano per la sera. Ci saranno pizze, calzoni e cannoli dopo le 17,30. Quando noi saremo in viaggio, in pratica. Ci lascia soli, come avevamo richiesto. Allevio la delusione con una Moretti. E lo stomaco mi si contorce. La gastrite tipica di queste situazioni di speranza e illusione. Vaghiamo, come dispersi, orfani della nostra guardia del corpo. Una coppia di mezza età ci ferma e ci saluta. Sono di Licata, prima patria di Zeman. Sono venuti apposta. Altri due ci chiedono: “Ma insomma, com’è il mister?”, “Vecchio”, rispondiamo noi. Una nuova macchina si accosta al tavolino dove abbiamo ordinato un altro giro di birre. Sono parenti di un giocatore. Dicono di aver visto Zeman. Ormai la figura dell’allenatore sovrasta ogni altra rappresentazione della nostra squadra. Eppure. Oggi, per quella maglia, abbiamo viaggiato, e tanto. Sentiamo rinascere quell’amore disarcionato dalla Tessera.

Questioni di metodo

Alle 14 siamo pronti. Ma essere pronti non è mai abbastanza. Ora dei funzionari di polizia ci comunicano che possiamo accomodarci. Nel settore ospiti. Pensiamo di aver capito male. Riteniamo che l’ispettore si sia confuso, abbia usato termini in disuso per colpa dell’abitudine. Ma ci vuole poco per comprendere che così non è, e in un lampo ci ritroviamo immersi fino alle caviglie in una nuova spinosa polemica. La questione è: non possono permettere che cento foggiani prendano posto in tribuna accanto ai tifosi del Gela. Sarebbero costretti a far rispettare la numerazione dei biglietti, a sparpagliarci, a far spostare tanti gelesi. È un cavillo, lo si intuisce a miglia di distanza. Si apre il dibattito, che genera una ventina di sotto-dibattiti. Sanno quanto costi a gente che s’è fatta 800 chilometri rinunciare alla partita. Ma rispondiamo bene. Del resto: abbiamo dovuto rinunciare a tanto, non sarà certo una partita a cambiare le cose. Sembriamo spuntarla, e dopo un quarto d’ora di Porta a Porta, garantiamo di fare blocco. Del resto: non chiedevamo di meglio. O, meglio: non abbiamo mai pensato di fare altro. Ma si deve sempre far credere che anche il respiro sia una concessione. È il gioco dell’autorità (“Vi stiamo trattando bene perché siete amici di questa gente”…). Passiamo un prefiltraggio composto da tabelloni elettorali e scaldiamo la voce. Ma che bello è stare insieme a te, Tesserati mai, tesserati mai, sempre in mezzo ai guai. La fila di gelesi per entrare è lunghissima. Ci guardano tutti. Noi cantiamo, mani al cielo. Un signore dai capelli bianchi sgomita per parlare con un responsabile dell’ordine: “Ma entreranno qui?”, “Pare di si”, “E si può?”, “Oggi si”. Non è tanto per i 20 euro spesi. I soldi non sono mai una questione degna di nota. È il principio. Se la trasferta è libera, se le norme mostrano una crepa, io mi precipito. È ovvio. Non ho voglia, nessuno ha voglia, di farsi estromettere dal proprio habitat. Dentro sento un nuovo funzionario sbraitare con un sottoposto: “Ma tutte queste cazzo di bandiere chi le ha fatte entrare? Adesso mi sentono”. Devo ammettere che sono tanti i funzionari in borghese. Direi troppi, vista la relativa calma e l’inevitabile confusione degli ordini impartiti dall’alto. C’è molta gente. La curva è piena, la tribuna si riempie velocemente. Noi siamo a destra, in un fazzoletto di seggiolini. La gente attorno si è semplicemente spostata, lasciandoci un cuscinetto d’aria. Nessun problema. Invece. In cinque minuti cambia tutto. Di nuovo l’esercito di uomini in borghese cambia idea. E ci comunica che lì non possiamo più stare. È assurdo, semplicemente. Riparte il faccia a faccia. La gente di Gela, che ci aveva tenuto accanto senza problemi, non comprende più. Del resto: noi siamo gli ultras, individui irrazionali e animaleschi, a sentire media e ministri. Comincia a rumoreggiare. Siamo pur sempre invasori in una zona franca, e loro – i legittimi abitanti di quelle lande dello stadio – non vogliono problemi. Si farebbe troppa fatica, anche se sarebbe utilissimo, spiegare a tutti come stanno le cose. Parlare di un decreto inutile, delle contraddizioni che genera, dei fastidi che provoca a tutti. Ma non c’è tempo. Ci invitano a sloggiare. E la tribuna, che ha seguito l’evolversi della vicenda, applaude i carabinieri che fanno il loro ingresso risolutore. Non è colpa loro, hanno semplicemente frainteso. Chi non ha frainteso per niente, invece, ed è responsabile del sommovimento d’animi che crea, blatera. Ci vuole fuori dalla tribuna in un flash. Io parlo con l’ennesimo uomo in borghese. È mancanza di buon senso, inutile lamentarsi dopo. Siamo entrati in pace in un settore pacifico. È solo grazie al loro intervento confusionario che adesso le tanto paventate “teste matte” potrebbero avere buon gioco e venire a galla. Noi non molliamo. Siamo sulla scalinata d’accesso, a due passi dalla rampa per i disabili. Siamo cento, disposti su tre file. Qualcuno in piedi sul muretto, qualcuno sotto, qualcuno in balaustra, ma i più a terra, in un corridoio da cui il campo neppure si intuisce. Ma la posta in palio è sempre la stessa: la dignità. Far capire che non ci pieghiamo alle disposizioni assurde così come non indietreggiamo dinanzi ai decreti folli. Restiamo lì. E cantiamo. Succeda quel che succeda. Ma che bello è stare insieme a te, Tesserati mai, tesserati mai, sempre in mezzo ai guai. I gelesi della tribuna fischiano, ma non li abbiamo lasciati indifferenti. Magari non comprendono fino in fondo, ma vedere cento persone che cantano e sventolano su una scalinata, rifiutando il comodo e vuoto settore ospiti, dopo una notte e una mattinata di viaggio, fa colpo. In tanti ci guardano. Poi, nonostante gli sbirri, prendono coraggio. Anche perché per andare in bagno, o uscire, o andare al bar, bisogna passare da quella rampa. Non ci sono terze vie. Bisogna passare in mezzo a noi. Sventolando in disparte – perché se lo fai nel corridoio becchi sicuro qualcuno – vedo i primi gelesi scendere. Il Foggia, abbiamo arguito, perde già 2-0. Un signore mi si avvicina e rompe il ghiaccio scherzando sulla difesa dell’US. Poi mi dice che a Gela siamo i benvenuti. E si capiva che era quello che voleva dirmi. Che era sceso quasi apposta. Un secondo signore mi stringe la mano: “Benvenuti, ragazzi”. È un cambio d’atteggiamento repentino. In tanti si sentono di farci un gesto di sostegno, di parlare con noi, di sostare qualche secondo in più. Si accorgono che non eravamo noi il problema. Noi ci facciamo sentire, sosteniamo la squadra che – poco alla volta – risentiamo nostra. Vedo persone che mi sfilano accanto con panini ripieni di gelato. Manca ancora un quarto d’ora alla fine del tempo e se esco, Enzo mi sgrida. E il mio fisico deprivato di cibo non è in grado di reggere le umiliazioni. Desisto. All’intervallo, l’intera tribuna si rovescia per le scale. Due battute col funzionario: “Sicché, era fuorilegge sistemarci sulle scale, e ci avete sistemato sulla rampa dei disabili. Ottima mossa”. Poi anch’io vado da Sasà il gelataio, che sembra una divinità indiana a molte braccia. Siamo gomito a gomito coi gelesi al bar, e non potrebbe essere altrimenti (quando si dice la sicurezza!). Mi chiedono perché siamo contro la Tessera. È così che funziona, ed è bellissimo. Spiego, ascoltano, domandano ancora, annuiscono. “A Foggia non ce l’avete questa granita qui, eh?”. Sorrido, e non so perché vorrei rispondere che c’abbiamo i torcinelli. Taccio appena in tempo. La ripresa è bellissima. Non in campo, quello non lo vediamo proprio. Ma tra di noi. Un carabiniere mi chiede perché passo il tempo a guardare la mia bandiera che sventola e non la partita. Vorrei rispondere: “Ma fatti i cazzi tuoi…” (anche qui taccio un attimo prima), ma mi limito ad un enigmatico: “La partita siamo noi”. Quello non capisce, va verso i ragazzi sul muretto, ne chiama uno per dire che così rischia di cadere, lo tocca, quello perde l’equilibrio e cade. Il carabiniere si dilegua tra i colleghi. E faccio festa per quattro giorni al mese, Il calendario per me lo sai non ha sorprese. Il Foggia fa il 2-1. L’arbitro concede 5 minuti di recupero. Fino alla fine, Forza ragazzi! E in quel lasso di tempo, riconosco la mia maglia, la mia squadra. Sconfitta, disperata, bellissima. Perdiamo. La tribuna esplode, noi chiamiamo i nostri sotto la rampa. Poi, tolte le pezze, ci incamminiamo verso l’uscita. E qui succede una cosa inattesa. L’intera tribuna sta applaudendo, ma è rivolta verso di noi. Sta applaudendo noi. Non ci credo. Saluto, salutiamo. Dovrò rielaborarla questa scena, penso, ma sono certo che qualcosa abbiamo lasciato qui, oggi, se una tribuna che due ore prima sosteneva l’intervento degli sbirri, adesso omaggia la nostra passione, il nostro compiuto sacrificio. Sul traghetto, qualche ora dopo, qualcuno ci dirà di aver sentito in radio degli sportivissimi tifosi non tesserati del Foggia. Ribadisco: non siamo santi, non siamo angioletti, ma abbiamo dignità, rispetto e onore da vendere. E non solo noi, ma tanti ultras di questo Paese. È tempo che la gente comune, quella terrorizzata dai media dello scoop, lo comprenda.

Il Foggia di Lanciano e di Barletta è roba da tesserati, vissuto in tv con un crescente sentimento di inadeguatezza, di non-appartenenza. Il Foggia del ritorno allo Zaccheria, quello visto e non vissuto col Viareggio, resta materiale da tifosi di gradinata. Quello di Cava e di Castellammare, poi, talmente finto, costruito, appartiene per intero ad un concetto astratto, etereo di “tifoso”. Non è di nessuno. Il Foggia di Gela è il nostro. Di nuovo, e per sempre.

PS:

“Fermati! Fermati! Una rosticceria”. “Buonasera, ce ne fa 25”. E così, in quel di Messina, poco dopo le 21, anche il fantasma degli arancini siciliani s’è palesato.

Nessun commento:

Il Libro