10/12/10

Nota triste sulla nuova era

Nell’anno primo dell’Era della Tessera, ironico sarà morire uno per volta, sotto “fuoco amico”.
Come nelle trincee della Guerra Mondiale. Generali imbevuti d’accademia e di cavalleria da tavolo, graduati folli e ideologizzati, cinici per cupidigia, per ingordigia, arrivisti leccaculo, spie. A lanciare l’assalto suicida alle linee nemiche, a muovere uomini verso il fuoco. Col binocolo in mano. E poi i carabinieri in retroguardia, a servire i boss di turno. A scegliere uomini, a metterli al muro, uno ogni dieci, la decimazione. A fucilare italiani per punirli di aver disobbedito all’ordine assurdo di farsi massacrare; a giustiziare codardi veri o presunti. Loro, che in prima linea non c’erano mai stati.
Succede così.
Esagerato.
Di diffida non si muore. Di reato da stadio neppure. Non bisogna piangersi addosso prima del tempo. E sia. Riaffioriamo dall’analogia bellica. E proseguiamo fuor di metafora: qua non bastava Maroni, ci voleva pure Casillo!
Il sogno, il miracolo tante volte invocato al cielo dalla plebe superstiziosa, si è avverato. E lo ha saputo persino Virgin radio. Il processo di beatificazione è cominciato a luglio. E la città s’è stesa come un sudario sotto i piedi del Redivivo.
Sei mesi. Sei mesi dal suo primo intervento in tv. La voce del vecchio padrone che torna dall’Ade ad accampare diritti di successione. Calde lacrime agli occhi dei nostalgici della fu Zemanlandia (sic), l’agorà a dibattere accanitamente sulle picconate e sulle promesse, così simili a smargiassate da non meritare neppure attenzione, dell’antico signore di queste terre. “Riporto Zemàn, riporto Pavone, torniamo in serie A!”. Follie d’inizio estate. E, sotto la crosta dell’apparenza, il preciso piano di una nuova scalata. L’intera città, dalle sue fragili istituzioni in balia dei venti alla più accorta e servile imprenditoria, schiava contenta, rientrava nel piano industriale di rinascita del riconosciuto marpione. Bonapartismo, si direbbe in politica. Cesarismo. Aizzare le folle al suono di un progetto bellicoso, rispolverare il passato, l’epica dell’età dell’oro, e pilotare la massa sognante e feroce (che mai, prima d’allora, sembrava essersi accorta della decadenza in cui era sprofondata) nei fianchi molli delle burocrazie: gli otto soci, certo, ma anche il sindaco, l’Assindustria, e chi più ne ha più ne metta. Una spada di Longino, brandita con schiamazzante puntualità ad ogni scadenza vitale di quel calvario che è stata l’estate 2010 dell’Unione Sportiva. Alla fina l’ha spuntata, e tutti sappiamo come è andata. È rinato il circo equestre: la Gazzetta, il Corriere, il Guerin Sportivo, persino il Manifesto, a sgomitare per osservare da vicino la fecondazione in vitro del dinosauro. Jurassic park sul manto erboso dello Zaccheria. Nani, trapezisti e ballerine alla corte del Boemo, mentre Don Pasquale incassava la concessione quindicennale gratuita dello stadio comunale, estrometteva baristi e venditori abusivi dal tempio, raccattava in giro giovani under 20 (che fruttano denaro a mo’ di bonus dalla Lega per ogni domenica che giocano) per simulare una squadra da donare al Profeta (schermo blindato per ogni accenno di critica tecnico-tattica-filosofica), aumentava a 15 euro i biglietti dei popolari e legava l’abbonamento alla Tessera del tifoso.
Poi ci si sono messe le multe: le bottigliette di plastica che volano in campo a battezzare l’arbitro cornuto, vezzo tipico del tifoso-medio dalla notte dei tempi, ma anche il consueto armamentario degli ultras: dai cori contro quel pezzo di merda di Maroni fino all’accensione di torce, fumogeni, petardi; dallo sventolio di bandiere fuoridimensionate agli schizzi d’acqua sui guardalinee.
Esternò, don Pasquale, dopo la prima multa in quel di Fano.
“Imbecilli”, fece vergare allo scrivano Zingarelli. Provocò la piazza, che compatta gli faceva quadrato attorno, minacciando l’aumento dei prezzi e sollecitando una più attenta e mirata repressione. Come a dire che prima dell’avvento del suo secondo regno, la questura era rimasta colpevolmente con le mani nelle tasche. Ed ora il signorotto sentiva impellente il bisogno di assoldare nuova cavalleria fedele nel feudo lasciato per troppo tempo in balia di incapaci e blandi esecutori.
Ma ciò non ha impedito che lo stadio rimanesse uguale a sé stesso. Uguale a ciò che è sempre stato. A ciò per cui ha fascino. Basta pensare ad una festa di compleanno. D’improvviso uno dalle retrovie si fa spazio ed in onore del festeggiato accende un fumogeno. Invariabilmente uno nella calca a ridere, dirà a mo’ di commento: “E che stai allo stadio?”. Retoricamente, perché è chiaro che lo stadio è il luogo dei fumogeni. Per tutti, da sempre. Ma non per la Lega. Non per la “legge”.
Un capopopolo accorto, attento alla propria gente, alzerebbe lo scudo ed impugnerebbe nuovamente la spada di cui sopra. Rozzi, Anconetani, Viola, l’avrebbero fatto, ai tempi. Avrebbe alzato la voce contro la loggia dei potenti del calcio. Avrebbe attaccato il santuario delle multe assurde e dei provvedimenti disciplinari. Avrebbe disseminato il verbo, coalizzando le società affini. Si sarebbe attaccato al telefono, svegliando di notte presidenti cavesi e nocerini, tarantini e beneventani, per chiamare a raccolta, per dire “Basta!” agli sciocchi cavilli che strozzano il calcio in Lega Pro.
Probabilmente avrebbe fatto anche l’esempio della festa di compleanno.
Perché 18mila euro di multa per cori contro Maroni e colore sugli spalti sono davvero troppi per qualsiasi logica. Avremmo sentito don Pasquale starnazzare per qualcosa di condivisibile. E forse anche la mia generazione, che sperava d’averlo salutato per sempre sedici anni orsono, avrebbe avuto simpatia per la sua causa. Per la crociata dei pezzenti della serie C. Magari non l’avremmo mai detto esplicitamente e in pubblico. Ma una guerriglia mirata al calcio dei divieti e dei soprusi l’avremmo gradita. Altroché.
Invece, il signore che tutti qui chiamano “don” pur non avendo mai preso i voti ecclesiastici (!), ha scelto una differente exit-strategy. Ha aumentato i biglietti della gradinata a 30 euro. 30 euro, 60mila lire, per una partita di terza serie. Decimazione. Anzi no, fucilazione di massa. Rappresaglia. Per punire gli ultras che, orfani (e non certo per colpa loro) della Curva Nord, si sistemano proprio nell’angolo della cosiddetta Tribuna Est.
E la piazza, che avrebbe dovuto insorgere, ammaliata dalle parole del caudillo di San Giuseppe Vesuviano come e peggio dell’equipaggio di Ulisse con le sirene, ha appoggiato incondizionatamente. Dopo annate di fuochi artificiali e poveri animali vivi costretti ad una fuga disperata in campo (i conigli barlettani, i galletti baresi), si è improvvisamente retrodatata educata. Di un’educazione speciale, inglese. I baronetti della minchia hanno detto “Basta!”. Basta con gli ultras e la loro inciviltà. Basta con questi delinquenti mascherati da tifosi. Ne hanno invocato la denuncia (anche con l’ausilio delle telecamere a circuito chiuso), l’arresto, la deportazione, la lapidazione. Tutto, pur di compiacere le ragioni irragionevoli del nuovo signore a costo zero. Uno che vuole fare l’imprenditore senza mettere a conto i normali rischi d’impresa (in questo non diverso da Marchionne, ma lasciamo stare); uno che vuole fare il capopopolo senza popolo. Senza intelligenza. Senza riconoscenza, senza rispetto, nei confronti di chi il Foggia l’ha seguito nelle notti più scure della mezzanotte. “Ma che vuoi che gliene freghi a quello…”, dicono i più avveduti, quelli che la sanno lunga, a mezza bocca. “Quello soldi vuole fare!”. Indubbio. Triste e indubbio.
Così come indubbio è che questo continuo parlare di soldi, questo strapotere dei soldi, questo ritenere i soldi unico valido fine per qualsiasi sacrificio e al contempo unica giustificazione seria per qualsiasi azione, stia smorzando la fiamma di una passione che sembrava inestinguibile.
Anche questo è molto triste. Ma sembra interessi solo ad una minoranza di sudditi.

1 commento:

Anonimo ha detto...

"oggi voglio solo te, ciurma!ciurma!"

http://www.youtube.com/watch?v=gP6anPQDt58&feature=related

(commento che non c'entra un cazzo, lo so.)

Il Libro