24/11/10

La faglia

Qui non è questione di uova o di galline. E neppure di concatenazione logica. Il prima e il dopo, in questa storia, non c’entrano. C’entra l’approccio. Prima di Foggia-Viareggio – e si parla di un paio di mesi fa, di meno e non di più – con la città estasiata che aveva assaltato le ricevitorie per i biglietti, esplorai le lande alte della Curva Sud. Da non tesserato, mi ero posto a disposizione di chiunque avesse voluto sapere perché mai i gruppi avevano deciso di “transennare” e lasciare vuoto il centro della curva per dieci minuti, come forma di protesta nei confronti del decreto Maroni. La gente, di lato, era tanta. E continuava a sbucare dagli ingressi, ad ammassarsi. C’era tensione nell’aria. Bastò una parola. L’insofferenza dei “laterali” nei confronti degli energumeni che costringevano la brava gente ad un supplizio inutile per la causa e dannoso per la squadra, era evidente; lo consideravano un esercizio di pura prepotenza senza spiegazioni. E si che quella era la brava gente che – per paura di non trovare un tagliando, paura peraltro indotta dal terrorismo societario – aveva sottoscritto il progetto di farci fuori dagli stadi. Anteponendo la voglia di vedersi gli undici ragazzini di Zeman alla libertà, erano corsi a farsi schedare, perché non avevano niente da nascondere. La miccia s’accese e la discussione, accanita da ambo le parti, durò oltre quaranta minuti. Inutile entrare nei dettagli: qui non si parla di chi soffra di più, di chi ami maggiormente quella maglia. E neppure di uova e di galline, di chi sia nato prima, come s’è già detto. Il blocco della curva è stato riproposto. I primi dieci minuti “senza ultras” – che nell’accezione popolare vale a dire: senza cori, senza colore, senza calore – si sono ripetuti con l’Andria e col Siracusa. Ho vissuto la cosa in sordina. Con la Ternana, però, sono tornato alle lande alte. Ed è stato diverso. Niente miccia, niente tensione, meno gente. L’aria elettrica del grande evento pittoresco si era infranta nella routine. Gli abitanti delle zone in questione s’erano fatti posati, tranquilli, placidamente rassegnati a quel nuovo rito, vissuto con un misto di insofferenza e naturalezza, come il pagamento di una bolletta dell’Enel. Ma c’era qualcosa in più, di inedito. Una barriera invisibile, impalpabile, eppure spessa e invalicabile, tra me e loro. Cresciuto nell’epica della comunità, di quel sentire che affratella, di quella fede che unisce le anime distanti, non avevo mai provato questo senso di distacco. Né mai ipotizzato che potesse esistere. I ragazzi che sedevano alla mia sinistra, in attesa dell’inizio della partita e della fine del rito, mi ignoravano. Ed io ignoravo loro, dandogli le spalle. Niente, neppure la polemica di due mesi prima, univa i nostri due mondi. L’uno in lotta disperata contro il baratro, terrorizzato dall’idea dell’estinzione; l’altro sereno, furbo al punto giusto da non farsi risucchiare dai gorghi dell’ossessione passionale, distaccato eppure partecipe al solo evento sportivo. Tra me e loro, una faglia come quella che minaccia San Francisco. Parlavano tra di loro. Di Ronaldinho e Ibrahimovic, di Quagliarella e del Fantacalcio. Modelli generazionali differenti, approccio. Niente in comune. I novanta minuti di calcio dal vivo come antipasto anomalo ad una domenica come tante, da vivere tra prepartita Sky e posticipo. C’è il derby di Milano, come se la cosa potesse in qualche modo tangerci. E mi è risalita in gola una frase letta in adolescenza, scritta con l’Uniposca nero sull’Invicta arancione: Per noi il Foggia non è una questione di vita o di morte. È molto di più. Una gradassata figlia dell’età, senza dubbio. Ma lo scarto tra quell’impulso totalitario e il relativismo sciatto di quei giovanotti, m’appare ancora adesso ugualmente doloroso. Ne parlavo ieri sera con un amico. Penso d’aver capito come stanno le cose. Non è questione di Tessera, è questione di testa. E di cuore. La sfida di Pisa, vietata, l’abbiamo vissuta chiacchierando amabilmente del più e del meno. La partita di Nocera, vietata, l’ho vissuta alla brace: seppie, salsicce, melanzane. Avrò visto quindici minuti della prima e dieci della seconda. Perché quella squadra televisiva non m’appartiene, non è mia. E quando pensi che potrebbe essere un calo di passione, una specie d’anticipo della pace dei sensi, ritorna alla mente il Foggia dell’Aquila e quello di Gela. E ti rendi conto che non è così che stanno le cose. Il Foggia di Mario Schena e Teleblu è il Foggia dei tesserati. È il Foggia dei ragazzini relativisti, quelli oltrecortina. Quelli separati in casa. Un’altra squadra rispetto a quella per la quale tifo. Non c’è storia. E non è questione di chi sia nato prima tra l’uovo e la gallina. Semplicemente, non sono io che ho scelto una squadra tra le duecento possibili; è il Foggia che esiste perché esisto. Dolce arroganza in tempi di naufragio. Fondata, oltretutto: la Lapponia è lì, ma la differenza tra non averla mai vista e ritenerla inesistente è minima. Un limbo.

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