30/12/10

Consuntivo malinconico

Mio padre mi sorride complice, dall’altro lato del tavolo: “Hai visto Fratena?”. Usa lo stesso tono con cui, da bambino, mi chiedeva retoricamente: “Meh, sei contento mo?”. Quando dava per scontato che lo fossi.
Il giro sulle macchine a scontro della villa.
Il grande sogno domenicale mio e di mio cugino Guido.
Alla fine della giostra, ritornato sulla terra, la voce di mio padre incombeva implacabile: “Meh, sei contento mo?”. Era un’apertura, certo, ma soprattutto una chiusura di credito. Della serie: hai fatto quello che volevi, adesso ti spegni. E non rompi le palle con ‘sti capricci da fighetto. Capisco l’antifona di allora.
Nel presente di questo pranzo non so come interpretarlo. “Hai visto Fratena?”, “Sei contento mo?”. “La smetti di rompere una buona volta?”. Fabio Fratena, il Buitre di Capitanata, il nostro numero 7 negli anni che furono. Negli anni eroici. L’unico idolo che abbia mai avuto.
Si, certo, cerco di cancellare l’infatuazione – che era mia ed era collettiva, a parziale discolpa – per quell’essere immondo che risponde al nome di Beppe Signori. È rossonero, cantavamo come degli idioti all’Olimpico, mentre quello ci pugnalava alle spalle ed esultava sotto la Nord. Basta, finito, cancellato. Mi dissi, in un amen. Fabio Fratena, il biondo, non l’avrebbe mai fatto. Altra tempra di persona, altro calcio.
Finì la sua carriera in un sabato di Pasqua, in quel di Caserta. Tornò da nobile comparsa nella prima serie B di Zeman, quella con la Pasta Delverde sulle maglie. A godersi un traguardo che più di ogni altro aveva meritato. È tornato ancora nell’intervallo di Foggia-Cavese, insieme ad altri ex, appositamente per festeggiare i 90 anni dell’Unione Sportiva.
Mio padre mi sorride. “Insomma, hai visto Fratena?”. È come riportare indietro gli orologi, riscoprire tra le nostre strade differenti e reciprocamente incomprensibili – i diversi, opposti modi di essere tifosi di una squadra, di una maglia – un preciso punto in comune, quella scintilla primordiale di complicità che ci rende, nonostante tutto, simili. A me non viene da ricambiare il sorriso. E non certo perché non voglia anch’io sentirmi parte di quel tutto. Non sono mica uno snob. Si, papà è un tifoso da salotto, ormai, capace di ingoiarsi d’un fiato le tre ore di insulsa diretta di Telefoggia, le cronache di Mario Schena su Teleblu, finanche la replica delle nove e mezza, e poi Baldassarre, Marsico, quello di Gercap. Ma di tornare allo stadio, no, non vuol saperne. Io ho le mie chiacchiere da ultrà. Le trasferte, i chilometri, i cori, senza saper riconoscere i giocatori, né volerlo; non ricordando interi quarti d’ora di partita. A volte, allo stadio, mi capita di concentrarmi su quanto avviene in campo. Di concentrarmi sul serio, come quando si studia Storia Bizantina. In quei minuti, decido che devo avere un’impressione, un parere, che mi servirà a dimostrare a mio padre che seguo, partecipo, comprendo. È un’usanza antica, di quelle che si trascinano compulsivamente. Come l’abitudine di ricordare a memoria i numeri estratti sulla ruota di Bari per dettarli poi a nonno Antonio, in un’epoca pre-Televideo. E quando mi accorsi che continuavo a farlo anche anni dopo che nonno se n’era andato, mi spaventai dinanzi alle certezze del cervello, inossidabili nonostante le perdite del presente.
Ma stiamo divagando.
Tornando sul punto: no, avrei voluto rispondere, non ho visto Fratena. Non ho neppure fatto caso che ci fosse. Ero giù, alla ricerca di un liquore clandestino, e mi sono compiaciuto quando ho sentito esplodere una cipolla, da qualche parte. Sotto l’albero c’è una multa in più, continuavo a cantare con gli altri. Indicavo la tribuna, dove immaginavo con soddisfazione il masticamento amaro di Pasquale Casillo. E gli altri spettatori della curva ci puntavano, ci chiedevano di smetterla con quelle canzonacce, che così stavamo rovinando tutto. Gridavano “Zeman Zeman” come a esorcizzare la nostra stessa presenza, ma senza gli ultras nessun coro può ambire a durare. E l’altoparlante della tribuna gracchiava qualcosa. No, non ho sentito il nome di Fabio Fratena. Non ne ho sentito nessuno. Perché a un certo punto è nato il solito faccia a faccia. Quei tifosi che di lato ci insultavano, perché la contestazione alla dirigenza, i cori contro Maroni e la Tessera, dal loro punto di vista, stavano stravolgendo le abitudini dello Zaccheria, rendendolo di botto un serbatoio di tensioni inesplose. E non quel catino infernale che dovrebbe essere. Anche nel giorno della gran festa. E, probabilmente mentre il mio idolo sfilava a centrocampo, io attaccavo a testa bassa.
Il solito concetto, ripetuto nei mesi fino a perdere ogni pretesa d’immanenza: caro il mio tesserato, quando Casillo ti ha ricattato promettendoti un posto di curva in cambio di una schedatura, sapevi benissimo a cosa andavi incontro. Quando hai risposto di “si” al sondaggio anti-ultras di Maroni, sapevi che ci avresti inferto un colpo probabilmente mortale. Ora che vuoi? Perché vorresti che sospendessimo tutto, che soffocassimo noi stessi, per il bene dei giocatori, dell’allenatore famoso e della dirigenza? E gli sguardi si fanno astiosi, perplessi. Divisi. Come gli abitanti di Berlino negli anni Sessanta, da un muro invisibile.
Un po’ come con mio padre, a cui non so spiegare perché non ho visto Fratena e no, non sono affatto contento mo. Ci hanno gridato “Fuori! Fuori!”. Siamo il sale di troppo che guasta la minestra. Altro che scintilla primordiale, altro che spirito comune, altro che complicità, parti differenti del tutto. Maroni, Casillo, chi per loro, hanno smascherato l’indole di questa gente. E mi hanno tolto quel gusto di sentirmi uno della comunità. Quella forza che oltrepassa i ruoli che ci siamo scelti. La foggianità, che poi a Natale sembra ancora più evidente, quasi lampante. Ora è la diffidenza a farla da padrone, mista all’entusiasmo artefatto di una piazza ansiosa di rivivere i fasti del passato. A prezzo d’estinzione. Siamo stati sfortunati.
Ma certe volte, non lo nego, vorrei tornare a quelle domeniche di fine anni Ottanta, quando a casa di nonna si parlava della partita. E ne parlava Nicola, che era un ultrà ed era stato a Licata e a Giarre, ma anche papà, il ragazzo di Paola, zia Anna, che era una semplice osservatrice. Pezzi diversi di un ingranaggio collettivo, che era la passione per la maglia, per la città, prima che Maglia e Città prendessero la maiuscola e fossero convertite in codice. Ecco. Avrei voluto rispondere a mio padre: “Certo che l’ho visto Fabio Fratena”. E risentirmi bambino, per l’intero spazio della risposta. Invece di ammettere a me stesso che qualcosa si è rotto. E difficilmente riusciremo a farlo riparare.

2 commenti:

L. ha detto...

fabio fratena, quello che a monopoli dopo il gol, si arrampicò alla rete urlando più forte di noi......
Quell'altro, invece, contro una squadra ridotta in 10 e sotto di 4 gol, segna e corre sotto un'altra curva urlando più forte di loro.

Un IDOLO il primo, un giocatore il secondo

Anonimo ha detto...

Monopoli. Il grande sogno di quella stagione comunque indimenticabile. La domenica dopo la Torres vinse allo "Zaccheria". E cominciammo a capire, in quelle due settimane, che gli dei avevano deciso di prenderci per i fondelli. Ancora una volta.

Condivido L. Parola per parola.

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