09/01/11

Invidia e antibiotici

Domenica 9 gennaio, Lucchese-Foggia 4-2

Mal di schiena dorsale. L’Oki, mi dicono, è blando. Troppo blando. Così un paio di Peroni non aggiungono niente. E niente tolgono. All’inefficacia. “Prova col Brufen, che è più adatto”. Butto giù la compressa e lascio perdere il vino di produzione. Alle 14,30 il totale del “Porta Elisa” di Lucca appare sugli schermi del canale satellitare libero. La curva sulla destra è quella dei tesserati. Il settore ospiti. Li vedo. E sogno. Un viaggio tormentato nella mia psiche. Li guardo e penso che da un momento all’altro da quella porta entrerà qualcuno con un’aggraziata bottiglia di Lagavulin o Laphroaig e gioisamente strillonerà: “Whiskey scozzese per tutti!”. Ed io, che ho preso il Brufen, dovrò glissare, restarmene in disparte mentre gli altri ci danno dentro. Che per loro quello o il vino da 2 euro al litro pari sono. Un incubo esistenziale. Perché è così che mi sento mentre guardo quei trenta e le loro scarne bandierine in quel settore deserto. Un forzato alla Cayenna. Poi arrivano le salsicce e le melanzane grigliate, che anche oggi l’abbiamo svoltata a barbecue. Come se niente fosse, oramai. E lo sguardo plana sui piatti per rialzarsi solo occasionalmente sullo schermo. La Lucchese attacca sotto quel settore. E non posso che domandarmi perché siano così sfilacciati. A gruppi di due, tre elementi al massimo, rigorosamente separati gli uni dagli altri, come se ogni micro-comunità avesse attorno l’alone dello spot dell’Aids. Scaglionati, tanto che si potrebbero distinguere i componenti delle singole macchine parcheggiate fuori. Una domanda assurda mi pervade, e sembra più importante del Foggia che prende l’uno a zero, pareggia, prende il secondo e sbaglia il rigore. Ma perché non fanno amicizia? Sono seimila e passa i tesserati al plebiscito pro-Zeman di questa città. Dopo Pisa, Nocera e Castellammare, oramai si è capito che solo quei 25-30 hanno tenuto fede al mottetto estivo del Mi tessero perché voglio seguire il Foggia anche in trasferta. Ma non sarebbe il caso, per loro, di rompere il ghiaccio, la reciproca timidezza, e fare il primo passo? Il calcio è aggregazione. E questi mi sembrano degli scolaretti alle prese con le prime feste in maschera, quando tutti i maschietti di schierano di schiena ad una parete e tutte le femminucce nel cantone opposto del soggiorno. Che le mamme di costoro raccomandino ai figli di non dare confidenza agli sconosciuti? Che siano tutti lungodegenti fuggiti dal reparto di malattie infettive del Riuniti? Che altrimenti non ci vuole mica tanto a socializzare. Poi realizzo: guardano la partita. Per loro il vicino è un optional. Un orpello fungibile, che c’è o non c’è non fa poi tutta sta differenza. Mi chiedo: ma io avrei mai fatto anche solo 15 chilometri prescindendo dalla compagnia, dal viaggio e dal pensiero del casino che si farà sugli spalti? Assolutamente no, mi rispondo in un attimo. E torno a schiacciare il limone sulla carne, mentre il Foggia incassa il terzo, fa il secondo, prende il quarto e perde.

Siamo diversi, ma per sapere questo non c’era bisogno di giungere alla seconda del girone di ritorno. E non si tratta di gerarchie assurde, di chi è più o chi meno tifoso, di chi soffre più e di chi soffre meno. E neppure mi va di tirare fuori dal cassetto quell’abusato termine che è Ultras, per dire tutto e non dire niente. Qui si tratta di tristezza. Perché a me quelli lì sopra mi fanno tristezza. E rabbia. E invidia, come i bevitori di whiskey dei miei incubi antibiotici ed antinfiammatori. Sarà che ci siamo assuefatti: tra un paio di giorni si degneranno di comunicarci che anche a Foligno non potremo andarci, e ci guarderemo in faccia con lo stesso stupore senza fine, ma senza ancora deciderci a mandare tutti a quel paese. Quelli che hanno svuotato gli stadi e quelli che limitano ai residenti l’acquisto dei tagliandi; quelli che giocano alle 12:30 e quelli che si sono resi irrimediabilmente complici del grande inganno della sicurezza in cambio della libertà. Eppure ne parlavamo ieri sera, ancora una volta scorrendo le foto del passato. Ne parlavamo con degli amici. Ci chiedevano della Tessera, certo, ma anche del meccanismo del Daspo. E leggere sui loro volti lo stesso stupore amplificato, mi ha dato un brivido anomalo: è strano parlare di sé stessi come di un panda del WWF, o di una cavia. Talmente abituati anche a questo da aver dimenticato l’originaria mostruosità del decreto Maroni. Ma oggi mi sento positivo. Cambierà qualcosa, probabilmente sta già cambiando, come quando sotto la crosta il pianeta progetta le sue metamorfosi. Perché mi sfilano davanti le immagini invernali e quelle primaverili, il furgone nelle piazze di paese, i bar, i parcheggi per gli ospiti, gli autogrill. E mi rifiuto, con l’ostinazione di chi combatte l’evidenza e la ragione, di credere che la mia passione sia definitivamente delegata a quei trenta tristi elementi. E alle loro sciapite bandiere. Che mi fanno rabbia ed invidia. Anche se l’invidia non è di quelle che potranno mai spingermi a fare cambio.

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