19/09/10

E venne il giorno

Domenica 19 settembre, Barletta-Foggia 1-2

Tra vent’anni chissà. Chi può saperlo come verrà ricordata questa partita.
Oggi si, oggi ha un senso dire: “Vent’anni fa c’ero”. E nel racconto aumentare il rimpianto del calcio che era e non è più. Quel calcio d’infanzia, rude e collettivo; smodato, senza regole, partecipato. Il derby, la partita per eccellenza, quella attesa, vissuta cento volte prima della palla al centro, delle squadre che sbucano dal sottopasso. Senza portarla per le lunghe. Vent’anni fa era Barletta-Foggia. Oggi era, ancora, Barletta-Foggia. E certamente, mentre queste parole vengono (poco) pensate e messe in fila su un asettico file, i cento miei concittadini tesserati saranno ancora chiusi nel settore del vecchio Comunale, mentre sciami di barlettani staranno cercando di rendere viva, vitale, attuale, una pratica d’altri tempi. Che sta al rito come la carta intestata del 1989 al documento Word. Torneranno a casa, quei cento, e diranno che ci sono stati. C’erano quando il Foggia di Zeman e Insigne vinse 2-1. Nessuno potrà dargli torto. Del resto: la verità è sempre rivoluzionaria. Ma il prezzo che abbiamo pagato, la pena che stiamo scontando, sono cose che hanno bisogno di tempo. Devono storicizzarsi. Tra vent’anni, forse, chissà, non ricorderemo affatto questo pomeriggio, oppure lo ricorderemo come la chiave di volta di una nuova epoca. Dalla tv – dove un terrorizzato Baldassarre commentava che manco il biliardo – abbiamo sentito i cori. Un barlettano in croce, e Barlettano pezzo di merda, e Con le mani quando volete. L’intero repertorio, insomma. Non si sono certo trattenuti, i nostri tesserati. Come a Lanciano, del resto, ma questa non era Lanciano. Era la partita, la più importante di tutte. Ed anche la voce aveva un che di diverso: era meno improvvisata, meno occasionale, meno pellegrina. Inutile fingere: sono stato in stazione, stamattina. Non ce la facevo, non reggevo la tensione di dover restare a casa, mentre qualcosa che avvertivo come importante accadeva a cinque minuti dalla mia stanza. Ho visto le facce, abbiamo anche parlato un po’. Non certo studentelli alla prima gita fuori porta, gli va riconosciuto. Anzi. E questo fa più male ancora. Perché non ti aspetti un voltafaccia così smaccato da parte di chi dovrebbe fare cordone con te. E si che le ragioni di qualcuno stanno in piedi, ma il quadro complessivo non regge uguale. Alle due del pomeriggio Foggia era una città attraversata solo da macchine ansiogene. Al volante le facce note, quelle che conosci, quelle spossessate dei gradoni, del gruppo, dei cori. Di tutto. Sembrava una scena da candid. Alla ricerca di un televisore, di una comitiva con cui spartire un entusiasmo finto che mascheri, agli occhi dei meno avvezzi a comprendere le cose umane, il dolore acuto del non esserci. Di sapere che venti amici di curva, insieme a ottanta neofiti, hanno preso quel treno alle 12:10, circondati da poliziotti, vigili urbani e digos. Ed hanno schiacciato – così come fosse normale – quanto rimaneva in piedi delle nostre speranze di fermare il meccanismo. Fuori dal gioco, ormai quasi definitivamente. E come per Claudio Villa, la notizia della cui morte giunse durante la finale di un Sanremo, anche noi siamo stati annichiliti nel giorno del derby. Nel giorno più importante di tutti. Potenza dei simboli. È facile, facile che tra vent’anni qualcuno possa venirmi a dire, come stamattina: “Vent’anni fa io c’ero”. Ero presente, nel giorno in cui tutto cambiò. Quando i gruppi che avevano retto l’urto di quindici anni di anonimato e C2 rimasero a casa, per essere soppiantati da quella che Occhetto non esiterebbe a chiamare ancora “la cosa”. Salteremo Castellammare, poi Gela, poi Roma. Ignoro cosa accadrà a Pisa, quando potrei fare il mio esordio in campionato, nel settore accanto a gente che avrà già 3 o 4 trasferte sulle spalle. Da tesserato, certo, ma questo – tra vent’anni – non importerà più a nessuno. Dicono che ad Azincourt le truppe di Enrico V d’Inghilterra umiliarono la cavalleria francese perché i nobili permisero ai volgari plebei di attaccare i cavalieri avversari, rompendo di fatto il codice cavalleresco che impediva di compiere certi scempi. Vinsero per un’infamata, insomma, gli inglesi. Ma oggi, su un qualsiasi libro di storia, nessuno troverebbe parole di biasimo per quel comportamento. Ad Azincourt vinsero gli inglesi, c’è scritto. A Barletta vinsero cento foggiani. Stop. Che cambia? Ai posteri l’ardua sentenza. Ma io sono ancora un contemporaneo di questi eventi, e dico che ho dovuto buttare giù cinque bicchieri di rum secco per sopportare la vista di quello stadio su una sedia di plastica. Che mi facevano schifo i cori di quei cento, che ho detestato l’idea di non avere prospettive che mi attanaglia da un anno e più. Ma che, al contempo, provavo pena e autentico disgusto per quello stadio semivuoto, per l’inconsistenza dei nostri avversari, che avevano garantito – e non è la prima volta che lo fanno – fuoco e fiamme e a stento si sono sentiti. Certo, è tv. Ma dio, pensavo, questo è un derby? Questo è il derby? Il derby, per come sono abituato io, è un’ordalia che si disputa in un catino infuocato, dove gli spalti capovolgono il senso delle cose e diventano il vero spettacolo, il centro della baraonda. Ed è il dio degli eserciti a stabilire chi sia degno della vittoria. Oggi – impassibile su una sedia a bere Pampero – mi sono incazzato solo perché il nostro portiere è uscito alla trequarti con le mani e perché Zeman si fa continuamente tagliare in verticale. Per cose così, che dal vivo neppure noto. Probabilmente quando finirà quest’incubo dovrò tornare a ripassare i cori, ma spero vivamente che tutto ciò accada presto. Perché non mi diverto più. E le facce dei miei compari, inespressive e fisse sullo schermo al triplice fischio finale, quando avrebbero dovuto ballare seminudi e ubriachi sui tavoli, dimostra che non sono il solo.

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