12/08/13

Esistenziale



Lacedonia, 11 agosto 2013, Foggia-AF New York 3-2

L’ultimo tornante prima del casello immette in un rettilineo breve e sconnesso. Il casello si finge pianura e lascia intravedere il lungo serpente grigio-alabastro dell’A16. Un’icona per i figli dei dipendenti delle Autostrade S.p.A. che ricevevano a casa la rivista ufficiale dell’azienda pubblica e partecipata. Innamorati delle strade, dei viadotti che scavalcano le voragini, come dei locomotori e dei vagoni la prole dei ferrovieri. Ticket. Adesso, si, possiamo cominciare a chiedercelo. Con un filo di fiato: Che ne sarà di noi? Ultimate le pratiche dell’estate da ritiro, lasciata alle spalle la promiscua bellezza intimidente di questa ennesima vallata d’agosto, a centocinquanta all’ora sulla corsia di destra, possiamo dare fiato ai dubbi del pensiero. Che faremo noi? Noi, che questa maglia ci rende fieri e ci commuove alle lacrime, che ci basta sapere che metteremo su ruote il nostro adolescenziale amore per essere felici nuovamente. Noi, quella brutta gente dei gruppi, inebetiti dalla bellezza abbacinante di scorrazzare tra i campetti e i bar del Molise e dell’Irpinia. Storditi da una possibilità che era prassi e che adesso sembra concessione. O furto di marmellata dalla credenza. L’abitacolo è uno scriptorium. La speranza è l’ultima a morire, ma nel frattempo sentiamo il fegato friggere. Tra qualche giorno l’Acd Foggia calcio, ora Srl e ripescata tra i Pro, si presenterà ai suoi tifosi – che poi saremmo noi, che già la conosciamo – in un’amichevole di bigiotteria con la terza squadra dell’Atletico Madrid. Ma basta dire “Zaccheria, ore 20:30”, per rinfrescarci la memoria su quanto ci piacciano i fari accesi e per sentire profumo del grande evento. Poi sarà la volta dell’Arzanese, in Coppa Italia. Vincere, pareggiare o perdere. La solita storia, da sempre. A quel punto non potremo più parlare di speranze. Sarà reale. Ci vieteranno Caserta. E le vacanze precampionato saranno ufficialmente finite. Come corridori che, a suon di curve ascendenti, di aria a gonfiare i polmoni, di entusiasmo e birra tra lo sterno e il fegato, non si rendono minimamente conto di quanto sia diventata stretta la strada, di quanto sdrucciolevole sia stato reso il sentiero. Finché non devono inchiodare. La balla di fieno è nel bel mezzo del percorso obbligato. Non c’è verso di aggirarla. E bestemmiare, protestare o piangere non la sposterà di lì. Che ne sarà di noi, della nostra infantile felicità, quando ci renderemo conto che non basta far finta di niente per smaterializzare gli ostacoli? Sarà l’ennesima ordalia dell’innocenza. Che, tra l’altro, è diventata parte della nostra vita. Da quando, alle medie, ci si accorge che non è sufficiente fingersi invisibili per evitare l’interrogazione in Geografia. Che ne sarà di noi? Non lo sappiamo, o forse lo sappiamo fin troppo bene. Guardiamo il contachilometri. Siamo già a Candela, davanti a noi altre macchine di ritorno da Lacedonia, piene di brutta gente dei gruppi. E in cima alla fila, un Agnello sacrificale che, seduto alla destra del Padre, non riesce ad infilare il biglietto nell’apposita fessura. A volte la vita è stronza. Semmai fosse presente un bacillo di timidezza, in quel pover’uomo alla berlina – sommerso dai clacson e dagli strepiti, soccorso da una specie di steward delle Autostrade privatizzate e meccanizzate – a quest’ora avrà già fatto reazione chimica, come l’olio nell’acqua. O il cherosene nella fornacella. La barra biancorossa si alza. Il Timido ubriaco passa, e sembra che anche la vettura barcolli. Due macchine e tocca a noi. La superstrada per Foggia. Chissà se, il giorno del giudizio, l’iracondo Signore ci mostrerà – a mo’ di consuntivo da Guerin Sportivo – il totale dei chilometri percorsi in vita. Adoro le statistiche. Qualche rado volatile parlante taglia il silenzio pensoso. Come i fenicotteri rosa alle Saline. È l’ultima volta che seguiamo il Foggia fuori casa, quest’anno? Non pensiamoci. Ancora per qualche giorno.

L’ultimo tratto del serpentone grigio-alabastro dell’A16 lo si fa scalando le marce. Mezz’ora di percorso netto, da via Mazzini a qui. Svolta a destra. Il casello di Lacedonia ci immette in un breve rettilineo sconnesso. Per la prima volta in vita nostra ci chiediamo dove sia il paese. In lontananza si vede Sant’Agata. Ma null’altro, qui attorno, fatta eccezione per una vallata luminosa e intimidente, le lunghe stilizzate pale eoliche e le balle di fieno (daje!). I cartelli dicono sempre dritto. Poi si comincia a salire. Corridori in sospensione, all’ultima corsa. Il Foggia gioca alle 17. Manca ancora mezz’ora. Ma il paese non c’è. Il nostro proverbiale ottimismo si riduce ad un nucleo di idealismo striato. Giochiamo contro gli americani. Una squadra di New York. Semipro. Allenata da un foggiano. “Che ci fanno gli americani a Lacedonia?”, “E perché, in Iraq?”. Le case ci sorprendono nell’apnea, come se non ce le aspettassimo ormai più e ci fossimo rassegnati a vagare. Un benzinaio. Si, dev’essere questo il paese. O una suggestione collettiva. Chiediamo ad un ragazzino del campo sportivo. È sempre bello dire “campo sportivo”. Sa di terra e odora di legno e cemento. “Stadio” non odora di niente. Quello ci dice di andare sempre dritto. Che, in questo paese a spirale, equivale ad un puro eufemismo. In sostanza, andiamo a destra e a sinistra a fasi alterne, pedinando la strada che ci fa strada e spalanca le case ai due lati. Come un romanzo (o un amplesso), il paese raggiunge un climax, poi decade. Il campo è in fondo alla scarpata, dall’altra parte dell’intreccio, o dell’orgasmo. C’è gente. Mancano venti minuti. Campo sulla destra, poi sulla sinistra. In mezzo, lo sapete. Si torna in centro. Il primo bar è un bar per fighetti. Olè. Adoro il pregiudizio quando s’erge sul raziocinio e ne fa carne da porco. Parcheggiamo in un viottolo. Dentro, il locale è spazioso e tendente alle tonalità scure di un lounge-bar. Dove siete, osti di tutte le valli? Chiediamo una quantità di cose anomale. Tipo: una rossa alla spina, una bionda 0,40, un espressino con un accenno di cacao, un donut e un latte freddo. Il tipo dietro al banco è professionale ma flemmatico, dice il vigile urbano vigile ma grasso. Ci sediamo fuori, sotto gli ombrelloni. Da qualche ora non è più San Lorenzo, ma tra un po’ da questo stretto, latteo budello in centro, l’Osservatorio astronomico ha previsto il passaggio dei foggiani. Automuniti, milite esenti, e con le facce indignate di chi ha fatto tardi. In noi – orrore! – si fa largo l’idea di aver pagato un prezzo ragionevole. Allora, per permettere al pregiudizio il suo meritato colpo di coda, ci diciamo tra noi che è “impossibile” che questo abbia le Peroni in bottiglia. I foggiani passano. Noi alziamo i boccali per salutarli. Quelli accelerano. E il Flemmatico non solo ha le Peroni. Ma le vende a 1 euro. Mentre l’acqua vale 50 centesimi. Lo abbiamo giudicato male, dalla facciata. Abbiamo confuso il popolare col brutto. Abbiamo assecondato lo stereotipo borghese che la comodità sia fri-fri. Impariamo qualcosa che non metteremo mai in pratica. Ma è stato bello lo stesso, sognare.

Gli Americani sono spocchiosi, riccastri figli di papà, wasp dei campus. È così. E se anche non lo fosse, non ci interessa. Non siamo venuti a Lacedonia per smantellare tutto quello che abbiamo sempre pensato senza alcun fondamento. E oggi devono perdere. Nessuno spirito amichevole. Sono così, quelli. Fingono di esserti amici e poi ti riempiono di portaerei. Quindi, il Foggia in maglia rossa è un segno del destino. Avanti! Affondiamoli! Quando riemergiamo dalla tessitura degli striscioni e delle pezze, è da poco passato il ventesimo. I venditori di tappeti al viale della stazione ci mettono di meno a issare la bancarella. Perdiamo 1-0. L’ho visto il gol di quel fottuto imperialista. Il tifo. Qui ci vuole il tifo. I battimani sono belli. Non siamo tanti come a Sturno, ma siamo più che sufficienti. Cantiamo. Fino al pareggio, che non ci basta. E finché non ci mettiamo in testa di imparare un coro nuovo. Che poi non è nuovo per niente. C’è una squadra che di gioia impazzire mi fa. Dieci minuti filati. Gli scolari si applicano, ma il coro è un rondinone che non spicca il volo. Ce la farà, certo che ce la farà. Nel frattempo, i quadranti degli orologi da polso fanno tendenza. È una marcia militare. Il Foggia ha preso le contromisure a questi dannati. Guadagna spazio. Loro applicano i dettami del loro mister, che essendo di Foggia avrà avuto come modello assoluto il Sant’Anna che giocava dove adesso sta la piazza: il portiere deve essere portiere, poi i cessi in difesa, i quasi forti a centrocampo, e i forti avanti. L’unica punta porta il numero 5. Le mezze-punte sanno stoppare. I centrali di difesa sono degli efficaci scarponi. E i suoi colori sono quelli di questa città. Bugia. Ma il Foggia segna nel recupero. Adesso si. E chiedete scusa per Sigonella! Un’allegra pipì tra i campi, come ai tempi del Pascoli. E poi in macchina, a risalire i tornanti, verso le birre. “Ma com’è – chiedo ad un ragazzo sull’uscio del bar che ci sembrava fighetto – che nessun paesano tuo ha pensato di mettersi fuori dal campo con la borsa frigo?”, “Perché qua sono fiscali”. La Svizzera a due passi da casa. Quando torniamo, il Foggia è sul 3-1 e si è mangiato un rigore. Questa cosa ci addolora. Non bisogna prendere sottogamba gli impegni. Non bisogna avere pietà, che questi alla prima occasione ti chiudono le ambasciate. Le Peroni girano di mano in mano. I cori sono alti. I bandieroni sventolano soddisfatti e impettiti. È sempre bello. Noi non pensiamo a niente. È meglio. E, come volevasi dimostrare, gli Americani accorciano le distanze e per poco non pareggiano. E meno male al cielo che l’arbitro fischia, salvando i rossoneri da una contestazione nazional-popolare che avrebbe ripercussioni sul quadro dell’Alleanza Atlantica! Squadra sotto la curva, rituale di festa tribale. Ci vengono pure gli Americani. Ehm. E va bene, dai, un applauso anche a loro. Che tanto, chi li vede più. Stacchiamo le nostre cose. Pacche sulle spalle, saluti e baci. Alle macchine. Chi torna in città, chi al mare. Sono le sette. La sera è ancora lontana. Stanotte cadono le stelle. Che ne sarà di noi?

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