15/02/10

Uno su 2mila

di Lobanowski 2

Sabato 13 febbraio, Ravenna-Foggia 0-0

Parere personale – La sensazione migliore, su tutte, è la notte quando rientri. Che ti stiri i muscoli, prendi i tuoi tempi con calma, ti muovi tra la tv e la finestra in una nuvola di fumo perenne. Guardi il letto e pensi – chissà perché – che te lo sei meritato. Che te lo meriti proprio. E quando c’è da regolare la sveglia sul cellulare, scrivi 11, ed è giusto così. Senza nessun tentennamento. Neppure uno come me si sente in colpa se decide di dormire fino a tardi il giorno dopo una trasferta. In fondo, pensi, me lo merito. Il fatto che un qualsiasi emissario incaricato da un ente altrettanto qualsiasi di indagare sui tempi morti della produttività, non capirebbe affatto il perché, non cambia di una virgola le cose.



Un continuo tira e molla. La prima trasferta in terra ravennate ha steso un bel po’ dei nostri. La crisi, ripetono tutti, ma il concetto comincia a stonare. Il fondo cassa è in balia di altre sostanziose spese e, lungimirante, già pensa che Portogruaro sarà peggio di una trasfusione. Insistiamo per il furgone, perché il furgone ha classe. Perché il furgone canta in autostrada. Ma capitoliamo dinanzi ai dardi dell’evidenza. Ridimensioniamo il plotone. Giuseppe lucida la macchina, non c’è alternativa. Notizie sconfortanti giungono anche dal distaccamento romano. Tono minore. In cinque, si parte in cinque. Appuntamento alle 7:30 al club. Una mezz’oretta prima da noi, per una Sambuca di incoraggiamento. Nel portabagagli anche il Borghetti di Davide, che compie gli anni a mezzanotte. Nevica in Emilia e in Romagna, ripetono da una settimana. Rinvieranno ancora. Persino Ugolotti ha dichiarato che spera di non fare un viaggio a vuoto. Pezza, bandiere, aste, panini con la frittata di zucchine e crauti, salsiccia e maionese tedesca (il must di Enzo, il nuovo trend che dilaga) si accatastano nel portabagagli. All’appello un pezzo, e non ci mettiamo molto a capire che mancherà per tutto il tempo. Stendiamo un velo pietoso e raggiungiamo il luogo designato. Giusto per vedere il resto della Sud partire. E provare ad accodarci. L’autostrada è libera, la prima sosta è psicologica. Poi fiduciosamente stabilizziamo il contachilometri sui 140 all’ora. Ma invano. Gli altri ci precedono e sono sempre più piccoli, finché non li ingoia l’orizzonte. Siamo in quattro. E attorno è sabato.

C’è fiducia. Del resto la squadra ha ben figurato contro la Ternana la quale, pare evidente, non meritava di vincere allo Zaccheria. Il Conte è calmo, quasi sedato. Vorrebbe approntare una scommessa volante, ma si è seduto sulla Gazzetta che non trova e non si da pace. Così si diletta con Sport Week. Ad intervalli regolari interviene per declamare perle di nessunissimo interesse: Romario in carriera ha realizzato 102 reti, alle Olimpiadi di Vancouver non c’è nessun atleta meridionale. Cose così. Dietro stanno larghi. Due calci al pallone e un gran gol sotto la station wagon parcheggiata sul retro dell’autogrill. Altro giro di Caffè Sport. Svegli, siamo svegli. L’adesivo nuovo nel bagno. Per fare Daspo, ci vuol Borghetti. Manco a dirlo. Pescara, Ancona, Marotta-Mondolfo. Quella linea adriatica scorre senza sorprese, senza scossoni emotivi. Rimini sembra ogni volta più vicina della precedente. Non c’è neve, anche se il clima è rigido. Usciamo per imboccare la Romea. È giorno lavorativo, del resto. Possiamo rifornirci ad un supermercato vero e proprio. La Riviera romagnola, il ristorante che si chiama Amarcord, la mezza palude. Optiamo per Cervia, per Campioni, per Ciccio Graziani, per una Conad. Sono le 12:30. Quattro ore da casello a casello. Una famiglia di siciliani accetta di buon grado i buoni-spesa che otteniamo in cambio di tre Bavaria grandi a 65 cent, un paio di bottiglie d’acqua e un altro Borghetti. Due chiacchiere sulle solite cose, il lavoro, il tempo, com’era una volta. Un fioraio ha una sciarpetta bianconera al collo. Sarà cesenate, pensiamo. Un signore attempato gli chiede il prezzo di un mazzetto di fiori gialli, risponde: “Dieci euro”. A Foggia con 5 euro te ne danno tre. Il Conte mi guarda: la sciapa è della Juve. Senz’altro. Il lungomare sbuca all’improvviso. Il mare d'inverno / è un concetto che il pensiero non considera, cantava Ruggeri. Pratiche abituali, primitive: distendersi, mangiare, bere, fumare. Ma prima pisciare. Alberghi chiusi / manifesti già sbiaditi di pubblicità. Speleologi. Nei meandri delle cabine, dei baretti di legno chiusi, degli stabilimenti balneari sigillati, c’è un mondo in cellophane. Che nasconde il mare privatizzato. Oltre le casupole, chilometri di spiaggia desolata. Ci sporchiamo le scarpe (le mie, oltretutto, nuove!) di sabbia umida. Ristorati, ci dedichiamo all’osservazione del circondario. Il Conte si risolleva. Una barista si lava le mani alla fontana. Partono le prime perversioni. Fa caldo. Una telefonata dagli altri: “Dove siete?”, “Sul lungomare di Cervia”, “Mmmocc a vuje!”. Mi chiama anche Antonio, che prova il sorpresone: “Non si gioca! C’è troppo sole!”. È tempo di andare. Ma senza sottovalutare i pericoli. “Occhio, ragazzi, che davanti al settore ospiti c’è il mercatino”.

Il mare d'inverno / è solo un film in bianco e nero / visto alla tv. La statale sbuca nel bel mezzo di una specie di risaia. Anche a Ravenna un tempo c’era, il mare. Svetta il campanile che si studia a scuola. Seguiamo i cartelli. Ormai conosciamo il percorso. Il parcheggio del settore ospiti è la solita riserva di facce note. C’è un brindisi in corso. Il tempo di mettere a fuoco i nostri. Abbracci e baci. I ragazzi della Nord, quelli della Sud che non abbiamo visto all’autogrill. Equilibrismo con bandiere, bicchieri di carta, lattine di birra, zaini. Una piccola colonna marcia verso il prefiltraggio. Dalle staccionate giungono voci. Non fanno entrare le aste superiori a centoventi centimetri, non fanno accedere in curva quelli che hanno il biglietto di gradinata, non si possono trascinare vessilli con simboli e colori non conformi col nero-rosso canonico, non si può indossare il cappuccio. Solite quadriglie dell’era Osservatorio. E, come sempre, in qualche maniera, alla fine passa quasi tutto. Perché il gioco è quello di negare per legge quel che si concede per favore, in modo tale da suscitare autentica gratitudine. Cosa che, ovviamente, è lungi dal palesarsi. La jolly-roger “istiga” e non entra. Torna in macchina, senza sapere perché. Nel piazzale spunta il cranio pelato di Angioletto. Altri saluti, altri abbracci. Requisisce la sua bandiera. I tornelli sono due. Dalle fessure di sinistra si intravede uno steward. Da quelle a destra una steward, occhiali da soli, capelli legati, jeans stretti e stivali da cavallerizza. Ci mettiamo in fila a destra. E non siamo soli. Il ragazzo prova a smistare un po’ di gente dalla sua parte, ma senza successo. Così chiede il cambio alla ragazza. L’amazzone accetta e passa a sinistra. L’intera fila si sposta a sinistra. Il tipo allarga le braccia. È il nostro turno. “Inseriscilo nella fessura”, chiede la ragazza. “Se ti fa piacere”, è la risposta. È un lavoro difficile, quello della steward. “Ciao, buon divertimento”, “Ciao”. E un capannello indugia a dispiegare i vessilli proprio alle spalle della tipa. Al bar, intanto, è festa. Qualcuno, dall’esterno della grata, alza e abbassa la saracinesca. Così, per vedere andare in pezzi il sistema nervoso dell’addetto alle bibite. 2,50 una birra. Saliamo le gradinate di metallo. Il Conte e Davide finiscono in parterre, e non sanno come uscirne. Noi ci mettiamo un po’ a sistemare la pezza. Una torcia. È ora di cominciare.

Dalla transenna fanno segno di stringere, di compattarci. Mi volto a fare una panoramica, non siamo pochi. Certo, ci sono tanti emigranti sulle cui ugole non sempre si può contare. Ma le prime linee, da sinistra a destra, sembrano decise. Le squadre spuntano da un tendone circense, proprio sotto di noi. Fiato sul collo. Di fronte si agitano diverse bandierine. Proviamo il coro secco. Al terzo ciak si gira la scena. Siamo in felpa. Sventoliamo. Cantiamo. Urliamo. Il Foggia sembra poco timoroso. Abbiamo raccolto 10 euro e li abbiamo giocati sul colpaccio, a 6 di quota. Ci crediamo, come sempre. Il repertorio comincia a dipanarsi. Enzo, che insieme agli altri sta seguendo Puglia Channel, ci incita via sms: “Cantate!”, intima. Uno in maglia bianca va al tiro, largo. Uno dei loro replica poco dopo, Bindi respinge. Partita tattica, dicono. Un bicchiere si rovescia al passamano, l’asta ferisce quello dietro di me, una gomitata versa la birra del vicino, Lo sai che chi non salta è uno sbirro provoca svenimenti. È un continuo: Scusa, scusa, scusami. Un settore dall’educazione ineccepibile. Intorno al 35’ partono i primi cori goliardici. Sembra Coppa Italia, sembra calcio d’agosto. Il primo tempo si esaurisce. E ci rovesciamo al bar a vedere la serranda fare su e giù pregiudicando lo stato psichico del barista. I bagni sono tetri. Nella ripresa attacchiamo da questa parte, sotto di noi. Mi torna in mente un gol di De Angelis a Castel di Sangro, con una cavalcata stile Berti, che ad ogni passo faceva venir giù la curva di mezzo gradino. La transenna riporta alla realtà. Coro continuato, prolungato, sfinente. L’ideale per rimettersi in carreggiata. Siamo meglio del primo tempo. Anche le lande alte cominciano a farsi sedurre dal bel canto. Il Foggia rischia, poi prende coraggio. Per cinque-dieci minuti coltiviamo l’idea della vittoria. E i cori si alzano di intensità. Poi la partita torna ad assopirsi, e noi ci dedichiamo alle new entry in top ten. “Questo è per i ragazzi del furgone”, dice il presentatore. Supertelegattone. E sulle note dell’onda di Piotta, il settore attacca Shalalala, shalalalala. Il Ravenna per poco non passa, ma Bindi si riscatta. Un’altra volta, Us Foggia! Una bandiera finisce nel gorgo e tocca recuperarla con una missione al limite delle possibilità umane. Un saluto ai salernitani, gemellati di quelli di fronte, ed uno alla squadra, mentre l’arbitro fischia la fine. Undici, undici, undici leoni. Abbiamo fatto il nostro, adesso tocca a loro. Spopoliamo.

Cronache romagnole

La statale 16 si avvolge del primo buio. Poco prima di Rimini, svoltiamo per Santarcangelo. Paese di quelli da cartolina, torre di guardia, castello. In alto ci arriviamo scalando. Non c’è anima viva. Gli zaini rovesciano il contenuto su una panchina, mentre in basso il paese si distende, apparentemente vivo e finanche illuminato. Fame, adesso si. Prosciutto e melanzane sott’olio. Lievi come i Marlene Kuntz. Nella zona bassa scopriamo che questo paese si trasforma in Rotterdam. Tra le vetrine e i lounge-bar sembriamo straccioni. Questi hanno un tenore di vita che manco il Lussemburgo. Un signore ci avvicina: “Siete stati a Cesena?”. Ci ha scambiato per crotonesi. “No, a Ravenna”. Fa si con la testa, ma non ha capito un cazzo. Si intuisce a distanza. Tifa Rimini, sostiene, ma ha mollato l’anno scorso. Pensa te cosa può fare una retrocessione. “Ma come? – prova a riportarlo alla giusta dimensione Giuseppe – Ma se siete stati anche in D”; quello ghigna: “Si, vabbé… però…”, “Beh, certo – incalza il nostro esperto, che ormai ha fiutato l’antifona – voi avete anche trascorsi in A”. Quello si illunina: “Infatti, hai capito”. Saluta e va via, convinto di aver giustificato la sua diserzione. Che il Rimini non sia mai stato in A è un dettaglio. Il tempo di scoprire che qui ci è nato anche un papa, che si recupera la macchina. In radio va Roma-Palermo. Ci mancano 450 chilometri. Alla fine ne avremo fatti 2mila per guadagnarci un punto. Va bene così.

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