06/01/14

Il secolo scorso



Domenica 5 Gennaio, Aprilia-Foggia 1-1

Il vomito sa di vomito. Cacofonia, ridondanza. Eppure, non c’è altro modo – se non il modo suo stesso – per definire quel sentore di frutti di bosco che ti resta appiccicato al palato. Una giornata passata a rimandare impegni immaginari. E a leggere Ken Follett. Una nottata a sudare. Una metafora al risveglio: ti preoccupi tutto il tempo di tenere sotto controllo naso e gola, e al canto del gallo ciò che ti sorprende è lo stomaco. Do la colpa al mostacciolo superstite. Ma alle otto e trenta i dubbi danzano sul davanzale. L’immaginazione funesta fa il resto. Già mi vedo implorare l’autista di accostare. Aprire la portiera con furia e in fretta. E muovere il torace su e giù, come i gatti quando si liberano dei peli. No, no, imbarazzante. Troppo. Questa mi sa che la salto. Però  poi penso alle suggestioni. Al potere del cervello. A quando, pur provando a concentrarmi sull’indice della Borsa di Tokyo, immancabilmente riuscivo a sentire brontolare gli intestini nel silenzio del chiostro universitario. E poi stavolta siamo tutti. O quasi. Ci sono i profughi rimpatriati all’ultima chiamata “natalizia” prima di tornare ad emigrare. Una volta a destinazione, ci saranno anche i romani. Non posso e non voglio mancare. Così, ingoio le mie paure, i miei imbarazzi e una buona dose di acido, e mi mescolo agli altri. In Via della Repubblica i lunghi e lenti preliminari sono stati ultimati. I furgoni stanno facendo manovra. Le macchine sono piene. Le nostre tre sono un Tetris. Quando attraverso la strada per andargli incontro, i compari stanno mischiando le squadre. Intorno a noi c’è una città placidamente attiva. Il banco della frutta, la Camera del Lavoro, il negozio dei cinesi. Un lampo attraversa lo sguardo. La mesta consapevolezza che questa gente non sa neppure dove stiamo andando, cosa stiamo facendo. E men che meno gliene importa qualcosa. Dovremmo dire che “un tempo non era così”, ricordare i settanta e passa pullman ai Mercati generali, prima dell’invasione di Campobasso. 1989. Il secolo scorso. Meglio scacciare la mosca della nostalgia. E mettere in moto i motori. Che, in fondo, la strada è la stessa di allora. Anche se sgombra di mezzi. Il castello di Lucera a sinistra. Un asfalto omicida sotto i nostri pneumatici. Stavolta ho evitato la colletta alcolica. Che poi, tanto, l’alcool resta confinato in una sola macchina e la tentazione per i passeggeri è così forte che, alla prima sosta, si beve il rimasuglio. Ho preso una Vivin C. L’alibi morale. Eh, beh. Non siamo in carovana. Chi si ferma a fare pipì sul ciglio della statale è superato senza pietà, come i feriti nella ritirata del Don. Piove. Piove molto. Fino ad Isernia e oltre. In macchina un estenuante dance hall. Roba da fattoni. Lo stomaco regge, tanto che alla consueta sosta di Venafro, riesco ad ingerire persino un’arancia di Sicilia. Il tratto d’autostrada suscita perplessità. C’è uno dei nostri da recuperare, appiedato, al casello di Ceprano. Da qui, secondo qualcuno, si potrebbe persino raggiungere il Pontino e Aprilia. Ma altri dicono di no, che non conviene. E propongono Frosinone. Altro diniego. Gli esperti del National Geographic optano per Valmontone. In linea d’aria è perfetta, dicono. Sarebbe perfetta, effettivamente. Se esistesse una funivia di vento tra le case di zucchero filato e marzapane. Ma la realtà non è mai in linea d’aria. È piena di curve solide. Di cartelli che indicano una cosa, ma che alludono ad altro. Che devi capire ciò che tacciono. Così, riuniti al guard-rail, tra altre arance sicule, uova sode e whiskey a 8 euro, ci incolonniamo per l’avventura dei Castelli romani. Contiamo di non perderci, di non separarci mai più. Dura fino a Velletri, per la bellezza di diciannove chilometri, immersi in uno scenario mozzafiato di carrozzerie e autoricambi. Poi, come spesso capita nella vita, è una rotonda a snellire il traffico e a farci perdere l’orientamento. Uno dei nostri mezzi si attarda in un improvviso impeto al volontariato. I furgoni filano in uno sprofondo. Noialtri c’imbizzarriamo in un girotondo all’ultimo sangue. Le indicazioni ignorano la nostra destinazione. Spaziano tra Nettuno e Latina. Tiriamo a sorte. Un girotondo russo, a un proiettile solo. Seguiamo Latina. E sbagliamo. L’area di recente bonifica ci accoglie voltandoci le spalle. Ci siamo persi, ma continuiamo a credere nell’uomo e nel progresso scientifico. E ci consoliamo telefonando alla vettura dei volontari, figurandoceli sul cucuzzolo di chissà quale monte della Verna. A parlare coi lupi. Nessun cellulare prende. L’assenza di segnale è il segnale. “Poverini, si sono persi”, ci diciamo. Mentre seguiamo un improbabile Cisterna di Latina. Avevamo un vantaggio di mezz’ora sul fischio d’inizio. Ora è come se l’avessimo sentito nelle orecchie, colpire il timpano e riecheggiare nel vasto deserto. “Dovevate seguire Nettuno”. Ma in base a cosa, di grazia, se voglio andare in un posto devo seguirne un altro? Inversione. L’inversione è un atto di fede  nello sbaglio. È un gesto meccanico profondamente umano. La quintessenza stessa della nostra umanità. La macchina ha i freni bagnati. E quando rallenta fa un rumore simile a quello dei caccia giapponesi a Pearl Harbour. La strada per Aprilia è un’interpoderale tra risaie. Il nostro altruismo non ci abbandona. Chiamiamo il Soccorso invernale, sotto sotto per bearci del loro essere più inguiati di noi. Una voce allegra ci risponde che sono arrivati, che sono tutti assieme, che il botteghino li/ci ha respinti, ma che c’è un bel muretto su cui arrampicarsi tutti assieme per goderci la prima di ritorno. Con l’aria dolce e comprensiva, bestemmiamo. In fondo a questa strada dovrebbero esserci Aprilia e il suo stadio. O i Re magi al gran completo. Non ci resta che sperarlo. Un cartello, finalmente. E i calcoli renali che dettano i tempi dell’ultima sosta. La prima cosa che vediamo, lì a sinistra, è il gruppetto sul muro. Incorniciati dai fari del campo sportivo. Sembra una scena berlinese. 1989. Il secolo scorso. Parcheggiamo, scendiamo. Ci arrampichiamo. È vero, si vede tutto. Sembra Santa Croce sull’Arno, ma c’è molto più spazio calpestabile e la visuale è ottima. Votiamo per questo settore. Le pezze sono già sul reticolato. I cori sfilacciati. Del resto, per salire in cima ci sono montagne di sabbia o di ghiaia da scalare. E non si può impedire ad un branco di quaranta bambini di giocare con la ghiaia o con la sabbia. Bandierine al vento. La polizia sul fianco sinistro accende la camionetta per riscaldarsi. Dietro di loro c’è il settore foggiano. Silente. Dall’altra parte, i locali. Cori in difesa della libertà degli ultras e contro i ciociari. Un bandierone. Si, lo so, sono incontentabile. Ma mi sento meglio, molto meglio. Non temo più i conati. E chiedo del whiskey. La festa comincia. I cori secchi riescono a mitigare l’effetto playback. Ma siamo tutti in fila sul muretto. Non va bene. Le canzoni cantilenanti, poi, manco a dirlo. Vagano da destra a sinistra del fronte, come al cinema il dolby surround di un bombardamento. O di una partita a poker. Il Foggia segna. Poi, almeno da qui, è solo Aprilia. Una traversa, un tiraccio a lato, molta pressione. E il pari su autorete. I nostri hanno una seconda occasione. Il loro portiere si distende e allunga in angolo. Il nostro, salva al 45’. Finisce il primo tempo. Si vede che l’ho visto? Nell’intervallo c’è finalmente modo di salutarsi tutti. Manca il pallone e la brace. Ma per il resto, è una pasquetta perfetta. Tanta bella gente, tantissima birra, Borghetti&Oldmoore. Cori di scherno e di irrisione. Altro scotch a sorsate. Decidiamo: nella ripresa entriamo tutti dallo stesso Gate. Una corona di persone in piedi circonda altrettanta gente coi piedi nella sabbia rossa. Si canta guardandosi in faccia. Attorno a quel rettangolo di superstiti, il sistema calcio che piace ai burocrati. E la polizia che, annoiata, osserva. Nicola ha fatto il biglietto. Ma alla fine del primo tempo, è venuto tra noi. “Mi annoiavo”. Fossi qualcuno, rifletterei a lungo su questa osservazione basica. Ma siccome qualcuno non sono, mi limito a osservare, a mia volta, che a Poggibonsi mi sono quasi emozionato a rivedere dei gradoni in trasferta. E no, non mi sono annoiato. Neppure oggi, tra il sabbione e il muretto di mattoni, mi annoio. Nessuno si annoia. Quelli nel parterre chiedono a quelli in alto cosa stia accadendo. Improvvisati Sandro Ciotti riferiscono. “Il Foggia è rimasto in dieci”. “Come sempre”. Cori, altri cori. Brasiliani e non. All’ultimo dei quattro di recupero, chi è sulle punte vede – con orrore – un uomo in maglia blu presentarsi tutto solo davanti al nostro estremo. E vorrebbe essere tra quelli giù. Quelli sotto percepiscono la paura. E allungano il collo. Come a voler essere tra quelli in alto. Col solo risultato che ognuno si percepisce nel posto sbagliato. “Che è successo?”. “Uagliù, non avete idea del palo che ha preso quello!”. “Ma è finita?”. “Si”. “Meh, bene così”. La squadra ci viene a salutare. Saluta i clandestini del sistema calcio. I ragazzi che, per continuare a sognare un gioco che non esiste più, si sporcano le scarpe e scavalcano i muretti. Come negli anni Ottanta. Già, come nel 1989. Il secolo scorso.

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