I gobbi stanno passeggiando sulle macerie della Lazio e banchettano sulle speranze di vedere una bella partita nell’anticipo del sabato sera. Fuori c’è gente con buste in nylon. I reduci della fiera di Santa Caterina popolano una Via Onorato accesa solo nel riflesso della grande scritta “Autorimessa”, che campeggia da trent’anni in testa ad una saracinesca, mai doma,di un vecchio garage. Di quelli che hanno ancora la chiusura a mezzanotte e che non si sono arresi alla moderna logica dei telecomandi e dei cancelli apribili dall’esterno.
Tra un’ora, pure di meno, ci mettiamo il piumino e
inzuppiamo in una birra bionda in zona Macchia Gialla, l’attesa dell’evento. Che
non sarà mai il gran premio di Abu Dhabi, né tantomeno il singolare che può
decidere, a Lille, la coppa Davis. Quelli, al massimo, sono companatico. Sono
intrattenimenti che caratterizzano il day-before. Perché l’evento, a queste
latitudini, è uno. E stavolta cade di domenica.
Il babbo versione casalinga è sulla sdraio accanto al
sofa. Ha già, e con irrisoria facilità, violato il protocollo del “non si fuma
in casa”. Se l’è cavata con la snervante umiltà del “…che dic, m’a pozz fum’à na
s’garett…?”. Tu non rispondi, allarghi le braccia, e lui, che ha già l’accendino
in mano, aggredisce smanioso la prima boccata alla Marlboro rossa. Quelle che
non posso fumare davanti a lui perché, dice lui, sono troppo forti per me. E non
ho mai capito perché per lui no.
Il trucco per sterzare sull’arida menata del “ma perché
non fumi fuori?” è oramai noto. Cambiare immediatamente argomento. Subito dopo
aver ottenuto il silenzio-assenso, il babbo è maestro nel cambiare argomento.
Come dire, nell’andare oltre, nel metabolizzare quell’ennesimo strappo alla
regola. Quasi nell’insabbiare. Una volta tira fuori Renzi che è come quell’altro
nanetto, un’altra l’Isis e il paradosso del Kurdistan. Oppure passa agli
aneddoti da paramilitante ultras, o si serve del primo spot che passa in tv. Un
tempo, il suo preferito era quello di un liquore. In quella pubblicità, finiva
sempre che i protagonisti superavano un’ardua prova, dovevano sempre portare in
salvo qualcosa. E mio padre avrebbe tanto voluto che finisse diversamente. E che
finisse male per questi stoici protagonisti dell’advertisement italiota. Con
tanto di rottami dell’aereo ammarato, e senza il cin cin con
l’amaro.
Stavolta è diverso. Si resta sul calcio. Bonucci ha
sbagliato il tempo di uscita e ha beccato un giallo. E lui sentenzia: “Non ci
sono più di difensori centrali di una volta”. E’ solo l’incipit, la miccia
accesa di un discorso che durerà una buona decina di minuti. Mio padre, e sono
testimone, è stato un impavido sostenitore di Pasquale Padalino. Dai tempi della
nord con Caramanno prima e con quell’altro poi. Diceva che era fortissimo e una
volta, me lo ricordo, gli toccò difenderlo alla fine di un Foggia-Padova
culminata con la sfortunata autorete proprio di Padalino. Citiamo Matrecano,
Consagra, Petrucci, Rinaldi, passando per Pirazzini. Io ribatto con Zanetti,
Ignoffo, Carannante e Beppe Di Bari. Ad un tratto ha un’amnesia. Non ricorda il
nome di uno bravo, che fu pure capitano. “Era con Marchioro e pure con
Caramanno. Ma come diavolo si chiamava?”. Scatta, sobbalza dalla sdraio e
afferra gli occhiali. “Mo, m’agghia lua’ stu sfi’zi…”. Va tra gli album, poi
incrocia l’opera omnia. E’ la storia del Foggia in due volumi, domina la mensola
sul corridoio. Lo seguo e lui intima di prendere il secondo volume.
“
“Leggi che non vedo”.
“Papà, secondo me è Petrucci o Schio”.
“No, vai avanti…”
Volto pagina e sparo. “Ferrante”.
“Ferrante, Ferrante. E’ proprio
Ferrante”.
Dice che era una tosto, che si sapeva far rispettare e
che “menava taccarate”. Spesso, per mio padre, è quella la dote principale che
fa di un difensore il vero difensore. A lui piace il calcio fisico, si
infastidisce se qualcuno parla di spettacolo o di soli schemi offensivi. A
Foggia, e nelle tavolate delle festività, mio padre ha sempre avuto vita dura a
far prevalere le sue ragioni. Spesso lotta contro i mulini a vento. E, come suo
figlio, è sempre stato più orgoglioso della vittoria a Taranto in D che del 3-0
a Cava di qualche anno fa. Questione di mentalità, ma è un altro
discorso.
Si risiede e continua a parlare di Ferrante. Io sfoglio
ancora quelle pagine. E all’improvviso vengo colto da un’illuminazione
improvvisa. Fulminea. Come se qualcuno avesse acceso la luce. Per anni, mi sono
sempre chiesto, scavando nella memoria, quando avessi mai messo piede nel
tempio, per la prima volta. L’esordio allo Zaccheria, rimaneva avvolto in un
alone di mistero. “L’inconscio comunica coi sogni, frammenti di verità
sepolta”, canta Franco Battiato. Solo che, dopo anni di interrogativi,
l’inconscio non era più tale. Tutto di un tratto e grazie a quella pagina e,
prima ancora, al divieto di fumo infranto.
Di quel Foggia-Andria finito ai rigori la notte del 26
Agosto 1987 ho solo ricordi sbiaditi. Una bottiglietta d’acqua da mezzo litro
che mi fu offerta, le rete di protezione dietro la porta e la luce dei
riflettori accesa. Dicevano di Ciucci, dietro di me. E io pensavo che stessero
insultando l’altra squadra. Maglie bianche, poi la via dell’uscita e il
formicolio di persone su Viale Ofanto. Ora lo so, ho visto il Foggia battere ai
rigori l’Andria. E’ stata la mia iniziazione, da poco avevo spento cinque
candeline.
Mia madre, alla luce del mio racconto, è venuta ad
ascoltarmi in soggiorno. Ha dato, a 27 anni di distanza dell’incosciente, a mio
padre. Perché ero troppo piccolo per andare allo stadio, in Curva Nord, anello
inferiore.
Mio padre non le ha risposto, o forse si. Ha battuto
l’indice due volte su una foto a colori di una vecchia formazione e ha detto:
“Si, Ferrante. Era proprio lui”.