18/03/12

The dark side of the sun

Non ci siamo. Anzi, siamo così lontani dall’esserci che quasi quasi non riusciamo neppure più a immaginarlo. Parlare adesso di una trasferta ad Avellino ha più o meno lo stesso sapore che sentirsi raccontare la battaglia di Calatafimi. Da Benigni o da un altro. Ci siamo abituati, dicono in tanti. Tanti, assuefatti come noi a queste domeniche così. Vuote e spoglie. Poi oggi c’è pure il sole. E il sole, nel suo lato nascosto e malinconico, parla. Ti dice nell’orecchio che non puoi restare chiuso in una stanza a vedere uno stadio vuoto e undici svogliati idioti vestire indegnamente la maglia che porti cucita sul petto. È un insulto alla vita. The dark side of the sun. Il sole ha lo strano, ironico effetto di farti capire che la vita è altrove. Sa di scampagnate, di Paludi a Margherita coi fenicotteri in volo, di Castel del Monte, di bar sul mare. Ma non è manco quello, il punto. È che, nonostante l’epica inganni i sensi, è passato troppo poco tempo in realtà da quei furgoni che scivolavano sulle autostrade, sulle statali, sulle provinciali, verso i risultati che contano allo scadere della stagione, le prove di cuore e di voce, le piazze coi bar delle sbronze. Un vecchio. Sono un vecchio che ripete sempre le stesse cose, lo so. Ma il guaio è che perdere 4-0 ad Avellino col sole fuori dalla stanza, non è la stessa cosa. Anzi, sembra quasi niente. Non fa quasi effetto. E non dovrebbe essere così. Avellino è qui, dietro l’angolo. È una rivale. Magari non proprio di quelle non ci dormi la notte pensandoci, ma comunque una rivale. Uno stadio nobile, un terreno nemico. Non puoi prenderne quattro e parlare del sole. Con questa leggerezza. E, seduto alla sedia o sdraiato su un divano, pensare – guardando i tuoi che non riescono a stoppare un pallone – che sarebbe bello mettersi in macchina e andare fino allo svincolo per accoglierli degnamente, questi eroi che stanno grattando l’ultima patina di gloria da una volontà ormai assopita. Ma poi ci pensi, e fai spallucce. Constatare che effettivamente non ti frega, ti duole. Che cambia? Che cambierebbe? Ti viene da dire: “In altri tempi sarebbe stato un eccidio”. Poi rifletti sull’incipit e ti senti un vecchio. Un fastidioso vecchio monotematico. Oggi due ceffoni di ramanzina ad un calciatore che se ne infischia della tua passione e magari si scommette pure il risultato, finiscono sulla stampa. E fanno il rumore dello scandalo più dei nostri Rambo che aprono il fuoco sui pescatori nel mar dell’India. Il sole ti invoglia a cedere. O evidenzia che hai già ceduto. O stai per farlo. Come la digos. Che, eseguendo i dettami di una legislazione d’emergenza in assenza d’emergenza, seguita alacremente a stringere il filo spinato attorno a quella che – si, un tempo – era la liberazione domenicale del popolo. Niente bandiere, niente striscioni, niente fumo, niente colore. Quindici euro a cranio per guardare esclusivamente la partita. Quei bidoni di cherosene in mezzo al campo, che a trent’anni suonati arrotondano. Niente tifosi ospiti, niente trasferte primaverili. Niente di niente. Una sedia, o un divano magari, a vedere il Partenio vuoto. E il sole fuori. E a sentirti vecchio. Non si molla, non si cede, pensi. Anche se non sai più perché. Nel nome di quale strategia. Ti guardi attorno e vedi la gente. E pensi: come fanno a non accorgersi, tutti quanti, che questi hanno rovinato, distrutto, una delle gioie della vita? Così, per il bene di quattro mercanti di televisioni e quattro pezzenti a capo di altrettanti istituti bancari. Ricordo il mare sulla destra, l’apprensione e l’adrenalina al pensiero di poter/voler incrociare i pescaresi. O la felicità infantile di sapere che mancano 3 chilometri a Terni. L’ilare indescrivibile emozione di un coro nell’abitacolo, mentre attorno scorre la campagna emiliana. O i cellulari che trillano, mentre ci inquadriamo per entrare a Verona. Senza scorta. Lì il sole aveva un senso. Oggi è il testimonial muto di un giorno buttato. Un giorno come un altro.

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