20/08/12

Il passo dei 50 minuti


L’abbiamo ripetuto talmente tante volte che, adesso, il rischio è quello di annoiare. Se non peggio. Ventuno, i mesi di divieto sulla ruota di Foggia. Ma ora quel che conta è che siano finiti. Per non dare più l’impressione che è propria delle vittime. O comunicare un opprimente sentimento di stasi. Finiti. Interrotta la macabra contabilità. Ed è stato così semplice da indurci ad ignorarne il significato profondo. Come Armstrong sulla luna: “Un piccolo passo”. Termoli. Cinquanta minuti tra autostrada e provinciale. Ad un niente da Campomarino, dalle spiagge dei foggiani e dei sanseveresi. Un centro storico romanticamente battuto palmo a palmo nelle adolescenze, burrascose per definizione; i trabucchi sul mare, i ristoranti per niente economici e quella rotonda al limitare della statale dove i vigili da sempre s’allenano alla pesca a strascico olimpica. Si ricomincia da qui. E va bene lo stesso.

Termoli. Un tempo ci saremmo andati giù pesanti con la goliardia. Del resto, una partita di Coppa ad agosto serve a quello: al cazzeggio, a sperimentare cori, ad inventarne di nuovi, a sfruttare i tormentoni da lido. Sono passati solo tre anni dai 120 minuti di delirio triestino. E siamo seri. Maledettamente seri. Dobbiamo scendere nell’acqua gelida del dilettantismo. Fino alle ginocchia e ancora più su, dragando superfici a noi sconosciute. E non abbiamo alcuna intenzione di farci trovare impreparati. Di peccare di superficialità o di snobismo, per l’equivoco del blasone o del fatto che – ormai lo sanno pure le pietre – venti anni fa eravamo un’altra cosa. Eravamo su un altro pianeta. Ma ciò non toglie. Siamo il Foggia. Lo devono capire i ragazzi, i dirigenti. E il pubblico dei luoghi che visiteremo nella nostra – si spera lunga – tournée.

Non siamo qui per vincere, ci diciamo. Anzi, la partita stavolta è davvero l’ultimo dei problemi, ancor più del solito. Siamo qui per guardarci negli occhi e annusare la voglia, la determinazione, gli stimoli di tutti e di ognuno. Ricominciare, dopo che la macchina infernale della repressione aveva abituato molti di noi alle mollezze del divano domenicale. Siamo sulla piccola gradinata di uno stadio che, fino alla scorsa stagione, faceva da proscenio alle sgambature del giovedì. Ma il passato deve smetterla di tenerci in ostaggio. Possiamo di nuovo esporre le nostre pezze, sistemarci sulla balaustra, a ventaglio incunearci tra i gradoni. Linea avanzata di tanti tifosi e vacanzieri che, stasera come a Vasto con Zeman (anche se con le dovute proporzioni), sono accorsi per vedere le maglie rossonere. E l’aria della trasferta d’un tempo ci basta, anche a cinquanta minuti da casa.

Non siamo qui per vincere. Ma abbiamo fretta di ricominciare. Talmente tanta che le squadre sono ancora in fase di riscaldamento quando facciamo partire il primo coro. Ed è il brivido più forte della serata. “Finché morte non ci separi!”. Il tamburo batte il tempo, le mani lo sezionano. Tutte le mani, anche quelle di quelli in alto. Ed è una dichiarazione d’intenti sincera, mica da ridere. I nostri, con le divise nuove, si girano a guardarci. Dalla tribuna partono diversi flash. Durante la partita il settore ultras dei termolesi si riempirà a dismisura. Canteranno incessantemente, faranno oscillare bandieroni, accenderanno torce, eseguiranno bei battimani. Saranno belli da vedere, come probabilmente tutti quelli che ci troveremo di fronte durante questa stagione. E sarà una sfida avvincente. Perché il tifo non ha niente a che vedere col nome e i trascorsi, ma con la passione e la grinta. E sentirsi arrivati, adagiarsi sugli allori, veri o presunti che siano, sarebbe un errore madornale. Che non abbiamo alcuna intenzione di commettere. E allora, anche noi, cantiamo, sventoliamo e bruciamo nel rosso delle torce, felici come adulti che ritrovano i loro giochi d’infanzia. “Repressione, fallimento, serie D. Siamo ancora qui”.
Non siamo qui per vincere, ma per dimostrare d’esistere. Ed esistiamo. Sebbene, da perfezionisti, a fine gara, avremo da ridire su tutto, dal repertorio alla coordinazione. Ma funziona anche così. In campo i ragazzi si menano che è un piacere, sbagliano tanto, non verticalizzano come ai tempi dello champagne. Ma è bello lo stesso. Il Termoli passa, il Foggia sfiora il pari, poi prende il 2-0 in contropiede. Alla fine del primo tempo i telefoni diventano roventi. Siamo le fronde di un albero che ha radici profondissime. Nella ripresa accorciamo le distanze. Non siamo qui per vincere, ci ripetiamo. Ma l’ultimo quarto d’ora ci fa dimenticare tutto, buoni propositi e fallimento in testa. Vogliamo il pareggio. E quando ci negano un rigore solare, siamo pronti a scommettere che l’arbitro non abbia mai sentito tanta gente dargli del bastardo in coro. Siamo inviperiti, e premiamo con convinzione sulle recinzioni, per spingere la squadra all’ultimo assalto. Non siamo qui per vincere, ma adesso vogliamo il pareggio e poi spuntarla ai rigori, per andare domenica ad affrontare la vincente di Bisceglie-Matera. Al 2’ di recupero ci annullano un gol regolarissimo e ci strozzano in gola l’urlo. Non c’è categoria che possa sottoclassificare l’irrazionale. Non c’è differenza tra l’Olimpico e il Cannarsa. Se il Foggia avesse buttato dentro la palla del pareggio, il boato sarebbe stato lo stesso, identico in ogni decibel. Non siamo venuti qui per vincere. E non abbiamo vinto. Però al ritorno siamo più leggeri. E questo vorrà dire qualcosa.

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