Ieri pioveva. Una pioggia sottile ed intensa, petulante. Ero senza ombrello.
Sceso di casa poco prima che si scatenasse la furia degli elementi e il
traffico decidesse, coscientemente, di impazzire. Ben prima che Foggia
divenisse quel fenomeno della natura rinomato in tutto il mondo. La Venezia di
buche luccicanti e di scoli silvani che noialtri conosciamo a menadito.
Salvatore a San Ciro era fuori dal chiosco, col cappuccio in testa e i
torcinelli sulla griglia. Non c’è pioggia che tenga. Il mio cappuccio già
fradicio ha tagliato la bisettrice tra due macchine ferme all’incrocio,
immobili in quel gioco di sguardi truci che di solito si fa in caso di sinistro
mancato per un soffio. Quando ogni automobilista fissa il suo rivale convinto
che dalla ferocia dell’occhiata, e non dal codice stradale, dipenda l’esito
della questione. Come nella vita, non vince chi è più forte, vince chi è più
cattivo. E se questo, a un non foggiano, può sembrare un’ingiusta
riproposizione della legge della giungla, fa d’uopo sottolineare che ho visto
coi miei occhi novantenni prossimi al commiato e pieni di acciacchi non
indietreggiare di un passo dinanzi ad arroganti virgulti. Che manco i sovietici
a Stalingrado. Foggia is a state of mind.
La pioggia poi, inevitabilmente, aumenta la frequenza di questi episodi ma,
ironia della sorte, scoraggia i curiosi da seguirne gli esiti, imbastire
discussioni professorali, allestire il mercato nero delle scommesse. Le luci di
Pantaleo sulla destra, come un bistrò nella Parigi della Belle epoque. Via
Guido D’Orso come un boulevard saturo di clacson pressati compulsivamente. Per
comunicare qualsiasi cosa. Il palazzetto illuminato. Un fugace pensiero ai
mondi paralleli che mi circondano. I pallavolisti, i cestisti. Ma anche i
pugili, gli schermitori, i pasticceri. Coi loro ritmi, le loro giornate
cadenzate da abitudini completamente estranee alla mia vita, al mio
mond…Trschhhhhhh. Oltre le sbarre del prefiltraggio dello “Zaccheria”, nel bel
mezzo del mio cogitare assorto e bagnato, a sinistra del mio sguardo fisso e
sognante sulle vetrate alte e accese della palestra. Trschhhhhh. E poi: bum,
bum, bum. A scalare. Un pallone. Un pallone che fa attrito sull’asfalto. Un
pallone recuperato che rimbalza. Davanti allo stadio. Ma si, lo riconosco quel
rumore! Mi sono voltato di scatto, ho guardato oltre la siepe leopardiana. Due
bambini in tuta, sotto la pioggia battente, all’inseguimento di una specie di
Tango bianco coi pentagoni neri. L’infinito. Istintivamente ho smesso di
muovere i miei passi verso la meta di Corso Roma. Istintivamente ho sentito le
gambe dirigersi verso la cancellata. E, sempre istintivamente, ho appoggiato la
testa sulle sbarre, per seguire meglio l’evoluzione di quella meraviglia. Uno
contro uno, tra le auto parcheggiate. Un dribbling e un tiro in porta. Che,
alla fine della giostra, se li conti, i minuti che passi a rincorrere il
pallone scagliato lontanissimo verso la porta immaginifica, sono più di 4/5 di
sfida. Eppure, quei due ragazzini erano lì. Voglio dire, non a casa, vezzeggiati
e coccolati dalla timorosa affettività delle madri del nuovo Millennio; non
isolati davanti ad un monitor che li illude di connetterli col resto del mondo
in un paio di click; non a sfidare Cristiano Ronaldo e Messi alla playstation e
neppure chini sull’I-phone di ultima generazione. A non fare un cazzo. Erano
davanti allo stadio, nel piazzale all’angolo tra la tribuna e la Sud, a tirare
calci ad un pallone. Ho immaginato tutto. L’appuntamento a scuola. La
scartatella dopo i compiti. Le adesioni convinte e quelle meno. Poi la pioggia.
A sfigurare i propositi dei timidi. A dare un alibi agli svogliati. A
demotivare i motivati di facciata. E così, ritrovarsi in due. Ma decidere di
onorare il patto. Di sicuro tra i due v’era l’ideatore della partitella. O lo erano
entrambi. E le voci delle mamme sulla porta e per le scale: “Dov’è che andate,
sotto all’acqua?”, “No, ma, non piove più!”. Oppure davvero, sin da principio,
era un appuntamento a singolar tenzone. Uno vs uno. Vinca il migliore. Ma non è
manco quello il punto. Il pensiero che ha messo radici poco sotto la mia fronte
spaziosa. Una gioia che si stempera nella malinconia. Un incipit che funge da
premessa: perché sono qui, di testa sulle sbarre, a guardare un pallone che
scivola sull’asfalto lucido, a seguire le evoluzioni di un bambino che lo
rincorre, mentre la pioggia filtra tra le pieghe scoperte del giubbino? Perché
quel rumore mi ha catturato come il passaggio di un meteorite? Perché sono un
ragazzino cresciuto, questo si. Ma a parte ciò? Cosa c’è di così strano,
avvincente, innovativo? Noi stessi, da bambini, non facevamo altro che giocare
a pallone. Ovunque capitasse, dalla stretta via di casa all’Orto, da Sant’Anna
ai Mercati generali. Per ore e ore filate. Alla tedesca, a campo grande, sulla
piattaforma, a portieri volanti. Un branco di marmocchi in perenne migrazione,
da una zona all’altra della città, alla ricerca di rivali. O di privacy, come
coppiette di fidanzati. A ruota di quello col Supersantos sottobraccio. O col
pallone sguinzagliato, preso a calci calibrati da scarpette casuali fino
all’arrivo. Fino alla saracinesca prescelta o allo slargo designato dai
cartografi. Quella volta che superammo 7-4 i campioni in carica della Stazione,
il torneo da adulti al Dopolavoro ferroviario, la finale per il terzo e quarto
posto persa sotto un epico temporale e col pubblico attorno. E le sfide finite
a notte fonda, quelle ricominciate al mattino del Primo gennaio, quelle
terminate il giorno dopo, quelle che ufficialmente ancora non finiscono. Dal
1986. Il passato. È quello che mi cruccia. Coniugare i verbi al passato. Perché
è lo stupore di un presente senza calci al pallone a farmi sembrare eroici
questi due bambini. Un tempo sarebbero stati fanciulli normali, banali, tra i
tanti. Ma oggi anche il semplice attrito di un pallone reale sull’asfalto reale
mi sembra un evento da celebrare come una nomina papale. Come la vittoria
dell’uomo sulla macchina. Come un tributo alla sopravvivenza. Come una speranza
dell’umanità. Non è stato divertente per niente, a ben pensarci.
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