21/07/15

Laggiù

Triberg è famosa per gli orologi a cucù. L’ho appreso da Wikipedia. E sono almeno due mesi che cullo, culliamo, l’idea di andarci. Pare ci sia l’orologio a cucù più grande d’Europa. O del mondo, vai a saperlo. Triberg è nel cuore della Foresta Nera. Qualsiasi paese del Baden Wurttemberg lo è. La Foresta Nera non ha fegato, polmoni o pancreas. È tutto cuore. O così, quanto meno, pare.
La stazione centrale di Friburgo è un andirivieni futuribile di cemento e vetro. Architravi snelle suggeriscono l’inquietante visione di un gigantesco ragno scavalcato da filamenti di ponti. È domenica mattina. Il sole picchia come non si riesce ad ipotizzare, pensandoci. Il giorno ideale, il clima propizio. Lo confesso: vogliamo fare i turisti. Quelli brutti e abbrutiti, che prendono il trenino, cambiano mezzo, scattano dozzine di foto e finiscono tra i cucù di fabbricazione pachistana con la volontà indefessa di strappare a quel lembo di continente un brivido d’autenticità taroccata. Ho deciso: voglio andare a Triberg come da bambino andavo ai laghi di Monticchio. Giù dalle scale del ponte. Binario uno. La macchina ingoia-soldi e sforna-tagliandi. C’è la bandierina italiana, sul monitor. Non rischiamo di confonderci. Info. Attesa. Stupore. Il viaggetto – meno di un’ora, in linea d’aria una settantina di chilometri, con uno scalo obbligatorio in un posto chiamato Offenburg – costa 48 euro a testa. Costerebbe. Perché lo scetticismo precede la bestemmia del rifiuto. Non è la prima volta che qualcosa ci va di traverso, in questa vacanza che ha subito il tracollo non appena oltrepassato il Reno. Quindi, evitiamo di perdere la calma. Lasciamo che il cervello si frizioni da sé. Inchiodiamo i nostri sguardi alla cartina geografica che fa bella mostra accanto alla macchina-usuraia. È ben definita, dettagliata. In verde, l’area metropolitana di Friburgo. Quella raggiungibile a soli 5,40 euro. Prezzo fisso. Ragioniamoci su due minuti due. A Sud ci sono due laghetti. È domenica, potremmo rivivere Monticchio. Si può scegliere tra due località, che rispondono ai nomi di Titisee e Schluchsee. Oppure, puntare da tutt’altra parte, verso Nord. Verso un luogo chiamato Elzach. Dove non c’è niente, se non la distanza minima da Triberg. La scelta, in sostanza, è la solita di sempre. È esistenziale e travalica questa stazione, Friburgo e il Baden Wurttemberg: seguitare a perseguire l’azione senza un piano o arrendersi all’evidenza e deviare su qualcosa di sicuramente più comodo. Dico a Francesca che ad Elzach potremmo trovare un pullmino per i cucù; o delle biciclette in stazione; o nulla di tutto ciò, ma un paesino meraviglioso. O il più cosmico dei vuoti. Propendo comunque per questa soluzione. Anche lei sembra d’accordo, ma si riserva qualche clic di riflessione. Giusto il tempo di confrontare le Google immagini delle tre località. Annuisco. La vedo allontanarsi di qualche metro. Mi volto a studiare meglio le distanze, ad ipotizzare scenari. E la sua voce mi ferisce. La sento maledire la nazione germanica, tutta intera. Il roaming, di nuovo. Ci hanno scalato altri soldi, dopo quelli di ieri. La connessione tedesca è una mignotta d’alto bordo. Il Reno ha inghiottito la nostra buona sorte. Manteniamo la calma. Chiudiamoci nel giallo recinto impalpabile dell’area fumatori. Spacchiamoci una Chesterfield rossa. E, nel frattempo, pensiamo. 

È sempre così quando si va in vacanza con la propria compagna. Tutto quel che proponi e che fai, tutto ciò che bevi e che offri, equivale – in sostanza se non in forma – alle fatiche mistiche di un monaco orientale. Tu non sei tu. Tu sei un piccolo popolo superstizioso di globuli e tessuti che cerca – attraverso svariati mantra – di non far perdere la pazienza ad una divinità che, per ragioni imperscrutabili, è sempre sul punto di esplodere. E cospargere di lava i tuoi campi coltivati a orzo. Ecco. Nel recinto, dove anche il fumo sceglie di ascendere verticale per non infrangere una regola, io sono intento a tranquillizzare la mia Minerva. Inscenando bizzarre danze tribali e colmando i vuoti con parole a vanvera. Quand’ecco che il mio sguardo vagolante li scorge. Involontariamente, indiscutibilmente. Li conto. Sono uno, due, tre. E ce n’è un quarto in arrivo. Si danno il cinque, si abbracciano, dinanzi alla vetrina di un Mc Donald’s. Sono inequivocabili. Ed io mi perdo. Conosco i gesti. Riconosco la complicità. Il ritrovarsi dopo una breve estate inattiva ed infinita. Le pacche sulle spalle che solo chi sta per ricominciare distingue da quelle di circostanza degli amici del bar. Sono rapito, lo ammetto. Tanto da spingermi, per lunghi istanti, ad ignorare la dea col broncio. E quando stacco gli occhi da loro, non senza difficoltà, mi sento dire: “Sono ultras del Friburgo!”. Come se questo possa portarle nuova allegria. O qualche giovamento. E poi aggiungere: “Chissà dove vanno…”, con l’espressione sognante di un bimbo di otto anni che vede passare i treni dei giocolieri. A me dei giocolieri non è mai fregato niente, neppure a otto anni. Ma, insomma, dovete leggere quest’ultima cosa come un parallelismo. Perché a me piacciono gli ultras quando si muovono. Così come, presumo, a qualche bimbo un po’ sciocco piacciono i giocolieri. 

Scegliamo Elzach. E abbiamo cinquanta minuti da spendere in stazione. Io non parlo una parola di tedesco. In compenso, neppure di tutte le altre. È il limite imposto dalla Torre di Babele. Da quella storia lì. Ma questo non cambia un bel niente. Posso pur sempre osservarli. Certe ritualità non hanno bisogno di parole. Come diceva Blaise Pascal. Che forse era Ron. Adesso siamo anche noi ai tavolini. Il gruppo è cresciuto. Ora ci sono anche due ragazze. Hanno le magliette del club. Un paio di loro, persino la sciarpa di lana. Bevono birra in bottiglia e le loro risate riempiono la saletta prospiciente al nostro atrio. Ricordo anch’io giornate così. Giornate estive, appuntamenti di Coppa che sanno di rimpatriata, di comunità che si ritrova dopo un esilio forzato di un mese e mezzo. È la fine dell’antimateria. Il ritorno all’ordine. A quell’ordine supremo e rassicurante imposto dal susseguirsi delle stagioni. Il cheeseburger mi muore tra le dita in tre morsi secchi. Ma decido di smetterla di voltarmi. Sembro un digossino, cazzo. Vorrei chiedergli dove sono diretti. E per cosa. Penso di soprassedere quando, d’un tratto, qualcosa di ancora più religioso, quasi commovente, attira la mia attenzione. Al tavolo accanto al nostro sono arrivati tre ragazzini. Bambini, si dovrebbe dire, per amore della correttezza. Biondi e rubizzi, lievemente obesi, occhi chiari. Con davanti i loro panini e la loro Coca. Anche loro con indosso i colori della squadra. Anche loro pronti a saltare sul treno della prima trasferta stagionale. Separati, rigorosamente separati, dai grandi. Eppure così intimamente interni ad una storia comune, che viene da smadonnare. Da maledire le nostre eccezioni. Penso ai nostri ragazzini. Alla violenza con cui uno Stato ipocrita impedisce di assaporare tutto questo. Di sentirsi parte di una famiglia allargata, di godersi le iniziazioni, di provare sulla propria pelle la felicità e la vertigine dell’appartenenza. Francesca mi guarda. Mi capisce. E mi domanda cosa deve chiedere, a quegli scolaretti nei cui visi la serietà dell’impresa se la batte con la leggerezza dell’età. “Chiedigli dove sono diretti e per cosa”. Lo fa. E le espressioni tornano ed essere infantili. Imbarazzate, quasi. Rispondono che vanno laggiù. Ed indicano con le mani un posto sconosciuto. Mi faccio sotto. Gli domando se è già Coppa di Germania. Mi rispondono che no, è una semplice amichevole. È uguale. Se il Friburgo giocasse a Monaco la prima di Bundesliga, questi ragazzini ci sarebbero comunque. Da soli, che fanno gruppo. Insieme ad altri mille concittadini. Così lontani e così vicini agli adulti, che non hanno mai smesso di essere puri come dodicenni. Li salutiamo. E mi sale la rabbia. Loro finiscono di mangiare, ultimano la Coca, ripuliscono il tavolo, buttano tutto nel cestino. E si avviano al binario. L’ultimo della piccola fila si stringe la sciarpa in vita.

Elzach si è dimostrata una colata di inutili villette. Il tempo di un paio di birre in stazione e siamo tornati indietro. A Triberg non ci siamo mai arrivati. A sera, in centro, ho visto una signora anziana ritornare in tram verso casa. Con indosso la maglia del Friburgo. E un giovanissimo, dai tratti indubitabilmente orientali, con la sciarpetta rossonera al collo, ben visibile. Come stigma dell’orgoglio. A noi, forse, non succederà mai più. I ragazzini – respinti da uno sport che ammalia come una amazzone frigida – del calcio, ad andar bene, conosceranno i grandi club attraverso la playstation. E quei pochi che avranno lo stomaco di farsi i gradoni settimanalmente, moriranno poco alla volta, di un’inedia che è inazione forzata. O dovranno accontentarsi delle briciole. Non c’è nulla di giusto, in questo. Lo so io, lo sapete voi. Ma la volontà di battersi vacilla. Rendendoci buffi pagliacci romantici che si commuovono dinanzi ai bimbi che vanno in trasferta. Laggiù. Oltre la strada ferrata

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