07/03/16

Il pullman, la contestazione e la città divisa

Una squadra di calcio non è mai solo una squadra di calcio.
Altrimenti saremmo dei folli. Colpevoli di un’idiozia colossale, di una svista irresponsabile.
A quelli che parlano di ventidue ragazzi in mutande che inseguono un pallone; a quelli che dicono: “Il Parlamento dovreste assaltare!”, daremmo ragione.
Provate a farvi un giro per Foggia, oggi. Lunedì 7 marzo 2016.
Andate in edicola, dal macellaio, al minimarket. Passeggiate a piazza Italia, lungo corso Roma, a corso Cairoli. Pesate gli sguardi. Ascoltate il tono delle frasi. Decriptatele. O rispondete a quel che vi viene chiesto, in un sussurro cospiratorio che è tutto dire.
Una squadra di calcio è una sommatoria di aspirazioni. Di sogni, di ideali, di prospettive di rinascita. Lo dicono tutti: Foggia era una città magnifica, quando il Foggia era in A.
Io la serie A me la ricordo bene. E bene ricordo quella città. Non posso che rispondere che sì, è verissimo. La mia città era – e nei miei ricordi è ancora – luminosa e piena di vita.
Un giocatore che viene dal Varesotto, un ventenne di Mantova, non può saperlo. Viene qui, indossa quella casacca, si allena, magari svogliatamente. La sera esce, si diverte. È un ventenne, del resto. Non ha colpe dirette del cumulo di aspirazioni che gli abbiamo riversato addosso, senza aggiungerlo tra le clausole del contratto. Non è stato avvertito. Non ha colpe dirette di questa smania, di questo desiderio frustrato, di questo continuo essere ad un passo dal minore dei sogni. E vederlo sempre sfumare.
La squadra che amo retrocesse in serie B in un pomeriggio di primavera del 1998.
Lo considerammo un trauma di passaggio. Una stagione, non di più, poi avremmo rivisto la cadetteria. In curva si urlava di non rispondere a nessun coro offensivo delle tifoserie ospiti, a meno che non fossero rivali storici. Il resto, a Foggia, cercava gloria. Era chiaro. Erano tifoserie di C1. Non meritavano la nostra attenzione.
Non solo non salimmo. Ma l’anno successivo eravamo in C2.
Da allora, soffochiamo. Abbiamo visto diversi curatori fallimentari, saltimbanchi ed imbonitori, truffatori e faccendieri. Abbiamo perso tutti i play-off possibili. Vinto un play-out da psicodramma. Abbiamo sopportato la D. E, peggio ancora, le illusioni.
Quando tornò la Triade della Belle epoque, la mia città fu percorsa da un brivido elettrico. L’entusiasmo era un fiume che travolgeva gli argini.
Perché una squadra di calcio non è mai solo una squadra di calcio. È la rappresentazione plastica della volontà di riscatto di un’intera comunità. Che sostiene, paga, viaggia. Perché quello è il proprio, fondamentale, ruolo nell’ascesa.
Si sogna, tutti assieme. Stretti a quella maglia. Perché, come dicono quelli che tutto tramutano in vil denaro, una squadra promossa può diventare un formidabile volano per l’economia locale.
Noi, alfieri di una passione, antieconomici per eccellenza, ai soldi non abbiamo mai saputo badare. E l’unico volano che poteva attirare la nostra attenzione era, ed è, quello dell’entusiasmo. Dell’innamoramento che diventa più di quel che già è, che si alimenta del fermento pre-partita, dei dibattiti accalorati nei bar, dell’attesa spasmodica di uno scontro decisivo.
Qui, come ovunque, la sconfitta in un derby toglie la voglia di fare. Anche quando si è commessi in un minimarket o si gestisce un’edicola.
Quarantotto ore fa, al fischio finale della partita di Andria, alla conclamata dichiarazione di fallimento, quel che abbiamo provato – prima ancora della rabbia – è stato il dolore. Un dolore irrispettoso, certo, di chi soffre sul serio. Ma dolore comunque. Una delusione cocente, di stomaco. Uno svuotamento come di catastrofe.
Esagerato, certo. Ma le passioni sono sempre esagerate.
E non c’entra lo spogliatoio che tutti sappiamo spaccato, gli egoismi delle nostre prime donne, lo scarso impegno in campo rapportato all’argento vivo fuori, la presunzione, l’arroganza, la supponenza dei nostri interpreti. Non c’entrano i populismi sui guadagni stratosferici per giocare a pallone, che fanno dello “Zaccheria” il villaggio vacanze in un mare di realtà. Volendo, non c’entrano neppure le misticheggianti favole ultras sulla maglia da sudare, l’impegno, al di là del risultato.
La rabbia che ha seguito la delusione – e per molti il pianto – è una radiografia di questa città. Del suo amor tradito. Del suo essere stata nuovamente abbandonata da gente che aveva garantito rispetto e fedeltà.
Quarantotto ore fa, all’arrivo della squadra, dinanzi alla tribuna dello “Zaccheria”, non c’erano solo gli Ultras. Quei fantomatici vendicatori a comando, quelli ai quali delegare le contestazioni, quelli da istigare quando fa comodo. C’erano decine e decine di persone. Arrabbiate. Perché deluse. Perché tradite. Il pullman s’è fatto largo a fatica. Volevamo vedere le facce. Le facce da selfie sempre pronte a mostrarsi per godersi i trionfi. Quelle onnipresenti quando tutto fila liscio. Noi siamo gli stessi che accogliemmo la squadra in 3mila alle 3 di notte, dopo la vittoria di Bari. Coppa Italia. Secondo turno. Volevamo vedere chi ci avrebbe messo la faccia anche dopo una disfatta. Lo volevano tutti. Non solo gli Ultras. Quelli che si prendono le colpe, quelli che hanno il coraggio di rappresentare l’anima nera di una città che si finge candida e condanna, quella che resta in disparte e s’indigna, dopo aver goduto. Come certe catechiste. Come tutti gli ipocriti.
Oggi Foggia è una città divisa. Lo si avverte.
Finita nel tritacarne della carta stampata, delle pagine web, dei social, della tv.
Dell’assalto al pullman della squadra, della violenza selvaggia, hanno parlato tutti. Il Corriere e Radio Norba, la Domenica sportiva e Tommasi. Mille persone, fitta sassaiola, spranghe, bastoni, cinghie. La Gazzetta, meneghina per definizione, ha finanche parlato di giocatori derubati dei propri portafogli. Un tocco di colore inevitabile, quando si parla di terroni.
Io potrei dirvi che non è andata così. Ma anche stavolta, servirebbe a poco.
Quel che mi preme sullo sterno, in realtà, è altro. È osservare i miei concittadini adeguarsi. Da colonizzati, schiacciarsi sul giudizio inappellabile che altri hanno sanzionato. Mortificarsi, scusarsi quasi, di colpe non proprie. Di episodi mai avvenuti. Esistiti nella fantasia di sciacalli assetati di glorie effimere. La contestazione ci stava, ci stava tutta. Ma, come ai tempi del “terrorismo”, si teme anche di dirlo. Per non finire nel novero dei fiancheggiatori, di quelli che rovinano un’intera città. Ora, con calma olimpica, guarderemo le teste cadere. Quelle vuote degli Ultras, magari. E una comunità applaudire soddisfatta, sollevata, come quando in piazza il popolo guardava ghigliottinare i propri figli. Nel nome di un potere che aveva sempre sede altrove. E che poteva spingerci al più devastante degli odi: quello contro noi stessi.










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