06/01/17

Contro il laicismo

Il calcio è liturgia.
La fede calcistica è culto. È superstizione, macumba, sacrificio umano. È rimozione – più o meno temporanea – dell’Occidente. Dai Lumi in poi, quanto meno. Un filosofo positivista, un sacerdote modernista, un chimico, un biologo, un panettiere materialista dialettico, quando varca i cancelli del tempio, quando sale sui gradoni santificati dal sacrificio collettivo, può compiere una scelta e una soltanto: legarsi alla schiera dei fedeli da cilicio o aggregarsi allo stormo dei monaci combattenti. Patire e macerarsi, battersi come i flagellanti, per guadagnarsi un angolo di Cielo; o mostrare l’armatura, lo scudo dipinto coi colori sociali, indossare l’elmo e andare alla battaglia. Che dio lo vuole.
Non c’è terza via. Non c’è relativismo.

Potete tranquillamente spostare il focus di questa questione. Dire che è il mio integralismo e non il calcio, il punto. Che il calcio è un gioco e ognuno lo vive come vuole. Che siamo in democrazia. Che il guaio è proprio il culto, e che per salvare il giuoco bisogna sfrondare questa religione da tutti i religiosi, come si sveste una madonna barocca dai suoi panni dorati. Tornare all’essenza infantile. Ma il cane si attorciglia nella coda. Perché per anelare all’infanzia bisogna dotarsi, oltre che di una buona dose di memoria immaginifica, anche di una grande capacità idealizzante. Giacché niente è più assoluto, anti-dialettico e assertivo di un bambino. E nulla esalta queste caratteristiche – già di loro esposte all’esponente – come un bambino che gioca. Altro che spensieratezza, ingenuità, sportività. Un bambino, rispetto al calcio, è uno studente dell’università islamica di Kabul. L’infanzia, lungi dall’essere l’alveo del rispetto e del piacere ludico, è il regno dell’Anabattismo più oltranzista. Una volta inoculato il germe della fedeltà ai colori, nessuno, neppure un genitore può permettersi più alcuna febbre per giustificare l’assenza dallo stadio-tempio nel giorno del rito pagano. Pena la messa in discussione del rapporto genitoriale stesso.

Non esiste il tifoso laico. Per definizione.
Laico è l’atteggiamento distaccato, laica è la posa scostante, l’ascolto intermittente, l’interesse ondivago. Laico è lo Juventino che segue la Champions alla tv con amici, amiche e pizza d’asporto. Laico è quello che dice che gli piace un po’ tutta la musica. Laico è l’espediente linguistico che utilizziamo per dire che non vogliamo perdere. Che non sappiamo farlo. E che siamo in grado di tradire tutto e tutti pur di evitare quest’onta. Quelli che si dicono appassionati del genere pulp ma che non tollerano il sangue. Quelli che, dopo due sconfitte e tre pareggi, ti guardano scettici, superiori, salvi, e ti chiedono chi te lo faccia fare. Gli stessi che denunciano l’ingiustizia subita se poi non trovano il biglietto per la finale play-off. Che avevano prenotato un posto sul carro del vincitore e se lo son visti soffiar via.

Ritornare all’evangelizzazione. Al paganesimo militante.
Ad imprimere sulla carne dei bambini il marchio dell’eterno patimento. I satanelli. Nella buona e nella cattiva sorte. Sapendo che la buona sorte, per quelli come noi, altro non è che l’antefatto di una catastrofe. Insegnare ai nuovi fedeli cosa sia la fedeltà, quando il mondo ti crolla addosso e l’Avellino segna. La grandezza epica delle lacrime, della rabbia. L’inestinguibile necessità del riscatto. Guardare i calendari ad agosto e fremere. Perdere, sbraitare, maledire la sorte e i suoi interpreti, e dopo cinque minuti essere nuovamente pronti alla pugna. Trasmettere la passione senza domande. Solo così sconfiggeremo i selfie e i video sui gradoni, la goliardia e le buffonate, i tifosi da inquadratura televisiva e gli stupidi striscioni eretici. Solo così, tornando alla Vera Fede, potremo battere il Laicismo figlio del calcio maggiore e del relativismo.

Alla Santa Inquisizione i refrattari.

Nessun commento:

Il Libro