03/05/20

L'occasione


L’assemblea di Lega ha sancito, all’unanimità, che il campionato dev’essere portato a termine.
Anche a condizione di sfiduciare il governo. E che le pay-tv non si illudano di poter rinegoziare i parametri della terza rata. A costo di raccattare in strada dei senza fissa dimora sacrificabili, deportarli in uno spogliatoio, costringerli ad indossare le divise ufficiali e inscenare delle partite in un campo di detenzione, a uso e consumo delle televisioni e dei bilanci societari.
Ho sempre pensato che il segreto della passione calcistica sia nell’ostinazione.
Ho sempre ritenuto, altresì, che per continuare a seguire il calcio così com’è si debba conservare a viva forza un cuore infantile e far finta di non sapere che Babbo Natale non esiste.
Perché sappiamo di quale immondo mercato stiamo parlando, in realtà, ogni volta che ci prepariamo ad affrontare una stagione. Sappiamo d’esser stati tramutati in stupidi clienti senza raziocinio. E che i padroni del nostro immaginario ci ritengono capaci di qualsiasi colpo di testa, di qualunque contraddizione, pur di non perdere l’hobby del pallone. 
Abbiamo sempre pensato che il calcio così com’è – zeppo di figure inquietanti e sporche al punto che nessuno vorrebbe frequentarle altrove – si sviluppasse su un universo parallelo.
Che fosse una sorta di videogame. Perché in nessun altro ambito ci sono poveracci con prole che si indebitano per vedere dei ragazzini milionari tirare calci ad un pallone.
Ma il coronavirus – tra le tante conseguenze sulla vita reale – ci ha dato l’esatta contezza della distanza approssimativa che passa tra le nostre infantili passioni mantenute per ostinazione e i freddi, spietati numeri che regolamentano l’agire della cupola di questo gioco che un tempo fu il palcoscenico dei ferrovieri, la valvola di sfogo dei lavoratori, il sogno di protagonismo del mondo di sotto. Insomma, sapevamo che – per quante Partite del cuore possano disputare, per quanta beneficienza sbandierino – stavamo parlando di un altro mondo. Ma non immaginavamo che fosse così distante dalle tribolazioni della gente semplice che gonfia il business.

Sono fermi da due mesi. Più o meno. Sono due mesi che non giocano e che i palinsesti delle agenzie non presentano eventi su cui scommettere. E la verità è che non interessa a nessuno. Che da due mesi nessuno fa storie, nessuno avverte come imprescindibile il ritorno in campo di questa gente. Anzi. Un’ondata di schifo assai simile alla nausea si è levata quando – già tempo fa – le società calcistiche provano ad ipotizzare l’ammontare delle loro perdite. E battere a denaro. Ma adesso, sul serio, siamo ad un passo dal vaffanculo. Perché non c’è bisogno di riepilogare qui il lungo computo dei morti, dei dolori non rimarginabili, degli orrori rimbalzati tra le corsie degli ospedali e delle case di riposo. Non c’è bisogno di impressionare l’uditorio con le raggelanti storie degli infermieri lasciati a combattere l’epidemia senza i mezzi necessari, dei congiunti cremati prima di ricevere una visita parenti, dei detenuti uccisi nelle rivolte dettate dalla paura di un contagio senza vie di fuga, dei lavoratori costretti a scegliere tra la salute e la fame. Non c’è bisogno di tutto ciò per liquidare con sdegno le pretese di normalizzazione di presidenti, procuratori e faccendieri legati ad un calcio che non ci somiglia più da decenni, ma che se possedesse maggiore furbizia eviterebbe, di farcelo notare con tale brutale franchezza.
Perché – checché ne dicano i detrattori, i critici e gli intellettuali – non siamo dei consumatori così stupidi. Abbiamo accettato – è vero – il compromesso a perdere con un gioco bellissimo trasformato, sotto i nostri occhi, in uno spettacolo così così. Abbiamo ingoiato, salvo eccezioni così rare da risultare ininfluenti, restrizioni e obblighi che farebbero rabbrividire i propugnatori delle libertà individuali. Abbiamo subito la declassazione: da protagonisti insostituibili di una contesa che esiste perché esistiamo noi a majorette addomesticate, utili solo per fare contorno, buone per colorare gli spazi vuoti della telecamera. Lo abbiamo fatto – ripeto – perché volevamo tenerci stretto un giocattolo che ci appartiene, che apparteneva alle domeniche dei nostri nonni e pensavamo di dover trasmettere ai nostri figli. Lo abbiamo fatto perché il nostro cuore è rimasto dodicenne. E non conosce tante malizie. O, se le conosce, finge indifferenza. Vorremmo che il calcio tornasse a somigliare a quello che ci fece innamorare. Sappiamo che non succederà, ma insistiamo. Per puntiglio. Perché non devono vincerla le facce di merda.

Ma adesso l’occasione è sottomano. E sarebbe un peccato perderla per indolenza, per abitudine al peggio, per fatalismo e scoramento. Per pessimismo. Non cambierà mai niente, ci ripetiamo muti ad ogni prefiltraggio, e nessun uomo cambia un sistema da solo. Vero. Ma ci sono ventiduemila morti, lì fuori. Parenti nostri. Amici, amici di amici, gente casuale che poteva esserci amica. Contagiati nei call-center, nei magazzini, nei capannoni, nei piazzali di scarico dei corrieri espresso. Stavolta, nel loro nome, dovremmo riprenderci il posto che ci spetta. E zittire i critici dimostrando di non essere semplici spettatori passivi di un circo che, a suon di pretese oscene, si sta trasformando da penoso in offensivo. Adesso, come i bergamaschi – mai così in alto nella loro storia calcistica, mai così disperati nella loro storia civile – dovremmo dichiarare chiusi i giochi. Dire, a chiare lettere, che i ragazzetti viziati torneranno sui nostri campi da gioco quando ci andrà di rivederli giocare. Che, fino a quel momento, nessuno deve permettersi di sottovalutare che – prima ancora che tifosi di calcio – siamo popolo. E pretendere rispetto e silenzio. Anche a costo di far saltare il banco.


Nessun commento:

Il Libro