01/03/10

Ridursi (a) Reduci (no-no, no-no)

di Lobanowski 2

Tralasciamo il resto.

In questi due anni – due anni vissuti come non avrei scommesso solo qualche tempo fa: anni di trasferte, di furgoni, di adesivi, di battimani, di cori, di sciarpette, di spray, di felpe, di striscioni – ho visto amici, compagni, fratelli porsi in un’ottica completamente nuov; vivere l’evento domenicale non più come l’Evento, ma come la semplice appendice di una settimana d’impegno e passione; avvicinarsi ad una mentalità che non conoscevano, che ignoravano, che respingevano; addentrarsi nel luna park con sempre maggiore entusiasmo, abnegazione, competenza. Per qualcuno di loro è senz’altro un fuoco di paglia, figlio della moda, dice qualche scettico. Sarà. Ma mentre caricavamo la prima macchina di questa esperienza – quella che è sbarcata a Foligno – nessuno avrebbe osato immaginare la costanza che abbiamo oggi. Il tenore dei dibattiti, delle discussioni accese, il livello di partecipazione. Si cresce. E se anche per quei ragazzi non posso mettere la mano sul fuoco – perché con le scommesse non ci so fare, ormai è dato acclarato – direi che per quanto mi riguarda posso abbozzare un primissimo bilancio a seguire. Sono soddisfatto e motivato. Soddisfatto di essere tornato a fare quel che mi è sempre piaciuto fare. Quel che mi fa sentire bene, mi riempie, mi rappresenta. E motivato, perché a 33 anni sono cosciente di sentirmela ancora. Di affrontare il baratro della C2 o l’orrido del Campionato Nazionale Dilettanti. Per la maglia, certo, per l’amore che le ho riversato addosso – amore platonico, un tempo, carnale col maturare dell’età – dagli anni della prima infanzia, quando con orgoglio pronunciavo il nome della squadra della mia città dinanzi a stormi di ragazzini che si perdevano tra Juve, Milan, Inter, Roma. Napoli e persino Sampdoria. Me la sento. Ma lotterò per evitarlo. E non certo perché mi spaventi la prospettiva di scendere a Cassino, a Siracusa o – peggio ancora – di affrontare il Forza e Coraggio o l’Hinterreggio. Ma perché – come corollario alla nostra passione – c’è un prato verde. E i risultati che si susseguono lì, per quanto ininfluenti ai fini della nostra fede e della sua dimostrazione, hanno una diretta incidenza sugli umori, sulla gioia e sul pianto. In fondo, siamo tifosi di una squadra di calcio, sebbene radicalmente legati a tutta una simbologia che trasforma il mezzo in fine. Io, a notte, la classifica di pagina 215 del Televideo la guardo. E due conti me li faccio.

Così stamattina mi sono detto d’essere pronto. Pronto ad ogni circostanza. Ma che un paio di parole andrebbero spese su quelli che hanno già preso a fare la morale del reduce preventivo. Che forse non vedevano l’ora di farla, senza riferimenti in questo sentimento troppo popolare: Meglio la C2, così vengono fuori i buoni, i tosti, i veri duri e puri. Tristezza a palate. Perché anch’io ho occhi e non mi sembrava vero, qualche tempo fa, di vedere tanti ragazzini approssimarsi al cuore della Sud. Allora anelare ad una rigenerazione, che quasi sempre coincide col ritorno al passato, coi vecchi tempi mitizzati nell’Età dell’oro, sembrava un riflesso condizionato. Anch’io di tanto in tanto dico “Meglio le trasferte in 100”, o “in 50”. Ma il mio faro resta sempre quello di unire la crescita qualitativa a quella quantitativa. Vorrei che fossimo 200, in trasferta, ovunque, e cantassimo tutti con intensità. Vorrei che ci sentissimo parte di un movimento, che fossimo uniti, seppure nelle differenze del proprio appartenere. Ecco: questo è il secondo pensierino della mattinata. Io non spero di retrocedere per scremare ancora la curva, perché in palio non c’è un premio ai sopravvissuti, un attestato di validità esistenziale. Non mi gonfiano simili certezze. Non so chi spera di diventare come quell’ultras del Portogruaro che viaggia da solo. Io senza il mio gruppo m’intristisco, senza la mia curva perdo gli stimoli, senza il mio settore in trasferta non avrei motivo d’esistere. Ecco perché. Sono un tifoso del Foggia e intendo salvarmi per questo. Sono un innamorato della mia tifoseria, e per questo confido negli sforzi comuni. Quelli che tifano per se stessi, per dimostrare la propria irriducibilità a fronte del deserto, sinceramente mi lasciano scosso. Come quei militanti che sperano nei licenziamenti per poter dire che l’avevano detto.

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