31/05/10

Il tributo

di Lobanowski 2

Domenica 30 maggio, Foggia-Pescina 1-2

Volevate le lacrime. Gli dei imponevano sacrifici umani: un cuore violato sul piatto d’argento. Dopo undici anni tra terza e quarta categoria, all’ennesimo traguardo fallito, come se ce ne fosse ancora bisogno. Divinità ingorde, beffarde, sfacciate.
Non dovevano fare due gol. Non dovevano vincere con due gol di scarto, quelli dell’Avezzano.
E quando 2-0 è stato, il “Vergognatevi!” ha aperto la danza mistica.

In poltrona, in centralissima, dove ben vestiti padri di famiglia se la stavano prendendo coi dodici tifosi abruzzesi presenti e le famiglie dei calciatori, in tanti – tutti, forse – hanno aguzzato lo sguardo, allungandolo verso l’angolo della Sud. Dove la folla premeva e quella porta non cadeva.
“Siiii!”, sono certo abbiano urlato. “Sfasciate tutto!”.
La delega in bianco, la voglia di cedere agli altri l’amaro calice e di veder fare, piuttosto che agire. E giudicare, giudicare, finché non duole la lingua.

Ho visto lo sguardo dei giocatori. Cazzo, se qua si passa dalle vuote minacce alle vie di fatto, siamo fottuti. E attorno il formicaio. Girone B, serie C1. Quello che siamo. Ho visto lo sguardo dell’arbitro, senza la personalità necessaria per intervenire nel dibattito dei fatti. Nel trambusto qualcuno chiedeva di attendere i 20 minuti che ancora mancavano. Poi, nel caso. Io dico: quando la rabbia sfonda gli argini della consuetudine, allora deve scorrere fino in fondo. Perché qui non si tratta di una vittoria o di una sconfitta. Di sconfitte è lastricato il nostro presente. Qui si tratta d’essere scaraventati all’inferno per procura: per mezzo di undici mercenari molli e demotivati, incapaci di un sussulto di dignità, di onorare quella maglia per cui altri fanno sacrifici non retribuiti. Vedere il terrore stamparsi laddove c’era il sorriso distante della circostanza è stato un primo passo. Poi l’arbitro ha fatto ricominciare e, di fatto, ha smesso di arbitrare. E quei pagliacci ci hanno messo una decina di minuti a confezionare il gol che ci ha tenuti in Prima divisione. In C1, in pratica. Girone B. Quello che siamo.

In poltona, in centralissima, ma anche in gradinata e in Sud, si è tornati ad incitare. L’amore è grande, la memoria cede il passo. I ben vestiti padri di famiglia, impegnati ad augurare tumori agli abruzzesi, adesso si stanno rasserenando. Il collo si fa meno rosso, la pressione si quieta. L’arbitro fischia, siamo salvi, si ricompongono. E a sera sono pronti a puntare il dito.

La squadra si è salvata, la curva è retrocessa.
Quello spettacolo indegno, indecoroso.
La curva è lo specchio dell’inciviltà di questa città.

E via di questo passo.

Sono gli stessi che incitano a contestare, a dare una lezione a questo o a quello, come se gli ultras fossero dei sicari a gettoni. E che se non lo fai, se non contesti quello e questo, sono pronti a tacciarti di viltà. O, peggio, di collaborazionismo con la società. Loro si, sanno chi è sul libro paga dei dirigenti.
Quelli che dicono sempre che in altri tempi non era così. Ed è come se inserissero il bancomat nel posse della loro inconcludenza. Per vidimare l’assenza di passato non c’è metodo migliore. Più o meno come quelli che esordiscono “io non sono razzista”. In un passato atemporale e mitologico come le boscaglie di Tolkien, c’erano botte – a cui immancabilmente hanno partecipato in ruoli strategici – e c’era la saggezza. Pane e companatico. Oggi Foggia si è corrotta.
Sono quelli che “lo spettacolo della curva” è fuori discussione. Che prima d’ogni partita guardano le curve come se gli fosse dovuto qualcosa.
Che fanno una Avezzano ogni due anni e riprendono i cori coi telefonini, come se fossero fuori dal villaggio vacanze in Kenya o stessero allungando la fotocamera tra le sbarre del bioparco. E poi caricano il video su You tube. E scrivono che “siamo GRANDI”. E mettono tre/cinque/sette esclamativi. E che come noi non c’è nessuno. E usano l’aggettivo mitico. E danno degli zingari ai loro omologhi pescaresi, dei pesciaioli ai barlettani, dei contadini agli avellinesi.
Sono il tipo che dopo Foggia-Spal mi ha detto “Bruciala quella scarpetta”, che a sua volta è il clone visivo del ciccione che ci chiese di togliere la bandiera dopo Avellino, entrambi nipoti d’indole dei vecchi di “Ancora appesso al Foggia” al ritorno da Ancona. Serie A.

Volubili.

In classe da Capello, poi, si sono raffinati: ostaggio degli ultras, ripetono. Perché lo sentono in tv. Fanno quello che vogliono!, sbraitano. Si credono i padroni. E tutti a fare ramanzine corrette: se quella porta fosse venuta giù, oggi saremmo in C2. O forse peggio. E tutta quella gente della tribuna, non paga d’aver applaudito il Marcianise e l’Andria, avrebbe avuto la scusa adatta per mettere la parola fine sulla noiosa militanza allo Zaccheria. Liberi, finalmente, di restare a casa a godersi i Del Piero, i Ronaldinho, i Milito. Pronti a rimpiangere le mai pervenute famiglie allo stadio mentre insegnano ai loro figli a tuffarsi nella fontana di piazza Cavour per festeggiare il tetto d’Europa dell’Internazionale di Milano.

Volubili e patetici.

Da questa parte della contesa, ho visto esplodere le contraddizioni. Ho visto l’amore passionale, in nessun caso indifferente e abitudinario. Ho visto adulti piangere come bambini, inconsolabili. E ragazzini pronti a sciogliersi in un abbraccio liberatorio. Tra mille sconosciuti. Ho visto la realtà che si spoglia degli orpelli d’occasione. E libera le energie di cui è composta. Il vetro si spacca al punto di massima tensione. Eppure, a guardar bene gli eventi, non sarebbe cambiato niente. Avremmo finito di vedere i Mondiali in tv e in molti sarebbero partiti per il ritiro in Umbia o nel Lazio. Poi il giro di telefonate ci avrebbe comunicato l’esordio. A Milazzo o col Neapolis. E il calendario avrebbe scadenzato i nostri impegni. In C2 come in B. Prima della Coppa Italia di categoria. Del nuovo inizio, come niente fosse. Eppure, Caraccio (il cui nome va ricordato più per il lutto che l’ha colpito subito dopo la partita che non per l’impresa di un gol) è saltato. Sta per colpire. Colpisce. È da ieri che l’immagine mi si ripropone in stato di veglia. Compulsiva, ossessiva, eccola. Quello crossa, Caraccio salta. Colpisce. Colpisce. Io cado.

Gli dei volevano le lacrime.

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