24/05/10

Pedagogia e pasquette

di Lobanowski 2

Sabato 22 maggio, Pedagogia

Sabato sera di maggio, diretta Rai, tetto d’Europa. E questa città si scopre interista. Come nel recentissimo passato era stata juventina, milanista, romanista, laziale. Finanche un po’ doriana, agli inizi dei Novanta. Senza dimenticare l’infatuazione borbonica per il Napoli, ai tempi di Giordano, Careca e Stoccarda. Il carro del vincitore sta passando da corso Roma a clacson spiegati; da corso Giannone bandiere al vento; da corso Vittorio Emanuele contromano; si tuffa in piazza Cavour. I ritardatari, quelli che sono diventati interisti al primo gol di Milito, quelli che hanno sciolto le riserve solo al secondo, devono affrettarsi. Ma se si sbrigano, saranno accolti come tutti gli altri. L’opportunismo non ha bisogno di facce conosciute, di file per il ticket. È una democrazia malata. I ragazzini gridano Siamo campioni d’Europa. Sfottono i milanisti che non hanno mai visto, deridono i romanisti. Li guardo. Resto impassibile ma non mi capacito. Sono ragazzini, e questo per me è più grave d’ogni aggettivazione forzata. Perché – per come vedo io le cose – implica un vuoto genitoriale. Quattordici anni e stare sotto alla fontana a festeggiare una gioia virtuale. Vuol dire che nessun padre premuroso ed attento al futuro dei propri pargoli li ha mai presi per mano e trascinati – anche controvoglia – davanti ai cencelli dello Zaccheria, a gridare “Aprite le porte!”. Nessuno li ha accompagnati al chiosco sotto la Sud chiedendo: “Che vuoi, a papà… La Coca cola o l’aranciata?”. Nessuno gli ha fatto salire i gradoni di uno stadio vero, di erba e sangue. FLASHBACK. Gli occhi del bambino vedono quel rettangolo e s’incantano. Il bambino ci ritorna quattordici giorni dopo e già dice: “Ci mettiamo al posto dell’altra volta?”. Perché una tradizione è già nata. Una nuova di zecca. In famiglia c’è un erede, che i cannoni lo annuncino al popolo. Le squadre entrano tra gli applausi e i cori. E papà si avvicina con la faccia alla mia e punta l’indice su quei ragazzi in fila. Che al momento sembra non sia successo niente. Invece è lì che è successo tutto. E la prima maglia bianca, “Chi sono i nostri?”, e il primo gol, il primo abbraccio vero. Lo stadio, la maglia, la città. Nessuno che all’uscita gli ha spiegato che la squadra si critica, ma la maglia no, che se avevi talento facevi l’allenatore e invece qualcosa mi dice che non lo sarai mai. Che nessun calciatore, preparatore, ct o dt ci sottrarrà coi suoi allentanti miliardi alla vita sana del mito working class.
Nessuno gli ha spiegato che esiste un solo amore. Che il calcio è campo emotivo segnato dalla monogamia più integralista. Che, come provo a spiegare ad Ilaria ed Antonella mentre ci sfrecciano attorno macchine imbandierate di nuova fede, non vale l’esempio della moglie mora e dell’amante bionda. La squadra che scegli è un odore infantile. Di solito è il tabacco del palmo della mano di tuo padre che aveva all’epoca l’età che ho io adesso ma sembrava oltremisura adulto. E il dopobarba Denim, e quello strano sapore che hanno il cemento della curva e il fumo che sale. È la mamma, quella maglietta. Non una sposa, non un’avventura, men che meno una escort, una puttana da quattro soldi, da svendere al primo trafficante di carne umana. Ma come spiegarlo a questi due gruppi di quindicenni che si fronteggiano chiedendosi se sia più forte il Principe o “capitan” Zanetti. Non sono mica un addetto ai servizi sociali io e, per giunta, detesto il volontariato e la filantropia. Non tocca certo a me sopperire all’assenza di genitori con le palle, che non hanno saputo o voluto spiegare a sti stronzi coi capelli da stronzi che la squadra non si sceglie, che alla squadra si è assegnati, e che nella vita stare sempre con chi vince fa della vita stessa una fottutissima playstation dove sotto di due reti spegni e riaccendi. Sarai il videogame che giochi, cazzone! Ma per me non esisti.

L’ultima pasquetta

Mentre il furgone riporta la ciurma nel mare…
Occhi crepati ma di sonno non ce n’è…
Bella questa! Alza, alza! (Vutt’ Topà)

Avezzano, domenica 23 maggio, Pescina-Foggia 1-2


E la seconda squadra? Conciliare due amori, possedere due madri? Casi limite, da cavillo giurisprudenziale. “Io ho capito benissimo quel che pensi, Francé – fa Angelo dal sedile posteriore – ma è difficile da spiegare”. Lo sguardo si perde fuori dai finestrini. Sulla destra sono alberi, cespugli, a fitta schiera. In lontananza, i monti. Simbruini, sta scritto sul pezzo di cartina che abbiamo, quello scampato alle continue consultazioni. Simbruini. Tre stelle di povertà. Seguiamo il Giro, tagliamo Molise e Abruzzo. Soli soletti, ma a volte è meglio così. Vogliamo godercela, quest’ultima imprevista trasferta, che è stato già una benedizione poterla fare. Ci siamo fermati poco fa, sul ciglio di una statale. Lello, nell’altra macchina, ha un breviario stradale migliore del nostro, si vocifera nell’ambiente. Salire per Roccaraso sarebbe folkloristico, senz’altro. Ma il nostro anticipo non è poi così sostanzioso. Meglio ripiegare. Venafro, che fa strano anche a dirlo. Ci manchiamo da Terni, ma non ci fermiamo. L’abbiamo detto, o così pare. Personalmente mi sento d’essere stato chiaro: “Saltiamo Venafro e saliamo per Sora, ci fermiamo al primo paesello”. Sembravano tutti d’accordo. Sembravano. A Cassino siamo costretti a far intervenire il giudice di pace. Telefonicamente, come nella pubblicità di Bisio. Scrosci di pioggia salutano la tensione. Mancano 25 km a Sora. Decidiamo di fermarci per litigare per bene. Ad Atina-Centro storico piove proprio e i bar sono chiusi. Due anziani si godono la frescura, l’umidità entra nelle ossa e le ossa ringraziano. Il Conte mi accusa di volerlo uccidere per fame. Cosa aveva chiesto, del resto? Un semplice panino, giacché non sempre è vero che I panin ci face mammà. Mattia, affamato e sbraitante, si unisce alla fronda. Il mio dispotismo è sotto accusa. I vecchi reumatici ci indicano un bar in fondo ad una stradina a scendere, “dopo l’ospedale”, che in centro “aprono alle tre”. Un tipo dall’improbabile accento napoletano ci affianca per dirci che sta andando a vedere la partita del Foggia. Riceve i nostri più vivi complimenti e prosegue. Camminiamo sotto la pioggia. L’ospedale non c’è, o se l’abbiamo passato dev’essere una specie di bed&breakfast. Una bandiera dell’Inter ad un balcone. “Non dirglielo a Mattia”, mi fa Lello. Non ci penso proprio. E qui, sulla sinistra, si spalanca il bar. E con esso, il nostro cuore palpitante d’astinenza. Vetri fumè, forse neri. San Marco, c’è scritto in alto. Caratteri da liberty, sembra Parenti serpenti. Cartellonistica all’insegna del gelato passato di moda all’urlo di Tardelli. Poggio le mani, spio dentro. Un nonno sta guardando Pianeta mare a Rete 4. Non ho ancora capito se mi piace Tessa Gelisio, ma propendo per il si. La nonna sta liberando il bancone. E il bancone si intuisce. Perché il bar San Marco è un bazar per viaggiatori nello spazio e nel tempo: caffè, amari abruzzesi, modernariato in fatto di snack, certo. Ma anche, e forse soprattutto, schiuma da barba, carretti siciliani, pelouche, krapfen sommerse da modellini Bburago. “Siete qui per il Bambin Gesù?”, mi chiede la nonna. “In un certo senso”. Fuori piove. Tutti schierati sotto il balcone. Giuseppe contratta la solita bottiglia di Borghetti. Si risale. La superstrada per Avezzano ci tiene compagnia per altri quaranta minuti. Ne abbiamo 45 di vantaggio sul fischio d’inizio.

“Si parcheggi qua”, dice il pizzardone. E con la sinistra indica, nell’ordine, un vicolo, un muro, un marciapiede, una chiesa. Un qualcosa. “Qua dove?”, prova ad aiutarlo Giuseppe. “Qua”, ripete quello. Ok. C’è il carcere. Pare sia chiuso, ma fa sempre un brutto effetto. Enzo è dentro da un mese, a Foggia, dove invece il penitenziario è in piena attività. Nel parcheggio del settore ospiti parliamo di lui, della sua storia kafkiana. La sua pena esemplare per una firma saltata. Ci raggiunge la “sezione” romana. Dall’interno dell’impianto le casse ci rifilano una complilation di balli di gruppo. La C2 mi alita sul collo. Respingo il pensiero. Sarà l’istinto libertario dell’essere umano, ma qui tutti pisciano sul muretto di cinta della casa circondariale. Pare che per Enzo ci sia una serata in programma in quel di Roma. Magari, pensiamo e diciamo. E poi è tutto un riepilogare sentenze, procedimenti in sospeso, carichi pendenti. Per oggi abbiamo un due aste. Topazio libero, c’è scritto. È la sintesi estrema di quanto pensiamo, speriamo, vogliamo. Un agente in borghese ci consiglia di entrare, che il pullman è in ritardo. “Grazie, aspettiamo ancora un po’”. Qualche caso di etilismo ci cade sotto gli occhi. Siamo in tanti, oggi. In molti hanno atteso questo evento per farsi una pasquetta come si deve. Mattia è benevolo con tutti: “Da, ma perché devi sempre fare le paranoie a tutti?”. È vero, in fondo è un gioco: un gioco il calcio, un gioco la curva. Ma l’uomo non è mai così terribilmente serio come quando gioca, diceva qualcuno. Io, per quel che può contare, condivido. Poco alla volta entrano tutti. Dall’alto del nostro settore vediamo pose plastiche atteggiate in un coro. Entriamo anche noi. Ci piazziamo al centro. Fa un bell’effetto quell’assembramento. Si sorvoli sul resto. C’è da attaccare la pezza. La partita è iniziata. Noi siamo qua sempre con te. Forse è meglio attendere anche l’arrivo del pullman. Unica fede in tutto il mondo intero. Primo gradino, in faccia alle pezze. Secondo, terzo, quarto, quinto, in faccia ad un vetro che è fumè come quello del bar. Sulla sommità, una corona acuminata, come quella che serve a scacciare i piccioni dalle grondaie, dai sottotetti. Anche volendo, stavolta, alla partita non si può neppure gettare un’occhiata distratta. Il primo tempo è nebulosa, è ameba. È una sensazione fantastica. Stai chiuso in un box lungo e stretto, fissi i tuoi colori appesi, e canti mentre percepisci che oltre quei colori qualcuno sta giocando. O, peggio, i tuoi stanno persino vincendo. Saranno passati tre o quattro minuti da quando siamo entrati. Abbiamo appena finito di sistemare tutto, che il boato del gooooool ci fa capire che ci siamo persi qualcosa. 1 a 0 per noi. Mi emancipo al secondo gradone. È uguale al primo. Uno sguardo alla curva di casa. Sono pochi, ma sembrano volenterosi. Non ho capito bene quale sia la questione in ballo tra avezzanesi e Pescina. Mi concentro sul due aste, sulle bandiere, sui cori. Si suda. Adesso fa caldo. Un caldo umido. Non succede niente. O, almeno, così sembra. In realtà il Pescina prende una traversa e il Foggia fa il 2 a 0. L’esultanza parte dall’alto, dove vedono finanche il terreno di gioco, e contagia per pura credulità. Potrebbero esultare ogni cinque minuti, noi ce la berremmo. Come Fantozzi durante la Corazzata Potemkin. Scendiamo a piazzare la pezza, e scopriamo che sotto il vetro c’è un reticolato dove la partita si vede in hd, se solo ci si accontenta del punto d’osservazione dal manto e se non si hanno problemi a restare sdraiati a terra. Giuseppe vede Birindelli passare. “Ti sei fatto vecchio!”. I cantastorie del mondo di sopra ci raccontano che siamo in dieci. O loro sono in dieci. Boh. Cantiamo. In almeno due occasioni il picco è alto, altissimo. Angelo e Antonio mi guardano: non è bello così. Vorrebbero stare sotto 2-0, vorrebbero soffrire come cani, è per quel senso di stocismo che viaggiano. Altro che carro del vincitore. Altro che gli interisti a piazza Cavour. È di simili malati mentali che abbiamo bisogno! Soffrire e appartenere! Questo chiediamo! Invece il primo tempo finisce in gloria. Futile banale gloria. All’intervallo si parla ancora di giurisprudenza. Nella ripresa, spinto dagli elementi, emergo fino a vedere la fascia lontana. Una striscia di campo. Bella storia. I canti sono alti e sembra persino che nell’altra curva (anche se noi in realtà siamo in gradinata) abbiano smesso. Ma forse è impressione. A giudizio di chi la partita l’ha vista, il Foggia disputa un secondo tempo orrendo, senza palle, senza carattere. Prende un gol, rischia un rigore, poi fallisce il terzo. Un ragazzo vola dai piani alti e si fa male. Sviene, o così sembra. Si chiama l’ambulanza, e c’è bisogno di invadere il campo per convincere l’arbitro a tornare negli spogliatoi a comunicare agli infermieri di darsi una mossa. In caso di infarto non si sarebbe salvato, penso mentre guardo i due poliziotti venire verso il settore. Fossi un idealista, aggiungerei: a cosa servono, dunque, i costi dei biglietti sempre più esosi che paghiamo per bazzicare campi sportivi sempre più indecorosi? E a cosa servono tutte quelle leggi restrittive che ciarlano di tornelli, steward, prefiltraggi, controlli, schedature, modello inglese e famiglie allo stadio quando un ragazzo rischia le pelle e non trova supporto se non dai suoi compagni di curva che hanno qualche nozione di pronto soccorso? Una carica sarebbe partita in un niente. E sia. Poi la partita finisce e la squadra viene sotto il settore. Meritiamo di più, cantiamo. Ed è vero, verissimo. I giocatori si guardano. Penso ci giudichino schizofrenici. Ma loro non sono noi. E noi non siamo loro. Per fortuna.

“Forza Foggia!” (una signora di Avezzano sull’uscio di un basso)

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