29/06/10

Il nostro palcoscenico

Conclave.

Dal latino Cum Clave. Chiuso a chiave.
Nel 1270 i viterbesi, spossati dalle continue faide tra cardinali – i potenti dell’epoca – li chiusero di forza in una sala del palazzo papale. Razionarono il cibo e l’acqua e giunsero finanche a scoperchiare parte del tetto, per offrirli alle intemperie. Il monito era chiaro: Abbiamo bisogno di un papa – uno qualsiasi – e tornerete in libertà solo quando ne avremo uno. Fu eletto Gregorio X.

Il Capitano del Popolo a cui si dovette quell’atto di forza si chiamava Raniero Gatti.

Questo episodio, rimasuglio della mia cultura storica universitaria, mi è girato in testa tutta la notte, come un sogno in loop. A suggerirmelo, l’assembramento di ieri sera sotto la sede dell’US Foggia, a via Napoli. Sopra, all’ottavo piano, i soci della vecchia cordata. Uno dietro l’altro si stanno tirando indietro, dicono. Una settimana fa ci avevano garantito che c’erano dodici soci, potenzialmente venti, pronti ad accollarsi l’iscrizione al campionato e una “squadra dignitosa”. Una sicumera che Capobianco e soci rafforzavano mostrando l’impegno dell’Assindustria e, in prima persona, di quel Zanasi di cui tanto si parla dalla fine della scorsa stagione. Una forza tale che aveva spinto la presunta cordata di Casillo a ritirare il bluff sul tavolo da poker. Il cielo andava schiarendosi. Poi, il tuono. L’offerta di Zanasi, 50mila euro, è rimasta l’unica nel carosello. Gli imprenditori locali hanno lasciato il campo (felici, forse, solo d’aver allontanato dal Tavoliere lo spauracchio di don Pasquale), un cordone sanitario di indifferenza ha circondato i soci rimasti. Che, uno alla volta, in privato ed in pubblico, parlano apertamente di spugne da gettare nella polvere. Come aveva già fatto il sindaco, l’amico di Perrone che Perrone non ha soccorso. L’assemblea dei “dimissionari”, cominciata alle 6 del pomeriggio, è finita alle 9. La sera era già scura abbastanza. Dalle tv dei bar andavano le immagini di Brasile-Cile.

Sulle facce dei tifosi una disperazione che scioglieva la lingua: tutto e il contrario di tutto. Casillo, Coccimiglio, Ciuccariello. I soci, gli ultimi tre o quattro, hanno fatto capolino dal portone e dal cancello. Capannelli ovunque, proposte, indici accusatori. “Il Foggia siamo noi”, come un gorgoglio da naufraghi, come un ferro da stiro che sbuffa affondando. “È una vergogna che dei foggiani ci facciano fallire”, dicevano gli uni; “Senza di noi saremmo falliti cinque anni fa”, rispondevano gli altri. “Pagate i debiti e andatevene”. E il socio fissa il tifoso che ha urlato l’invito. “E dammeli tu i soldi. Ce li hai?”. Ecco. In quel momento sono riaffiorati i miei anni di Lettere e Filosofia. Ricordavo l’episodio del conclave, ma non riuscivo a catalogarlo nel tempo e nello spazio. Ma il senso era chiaro: dovremmo chiuderli dentro, assediarli. Conclave di soci-cardinali, fino alla fumata bianca. Non c’è molto tempo e non ci interessa altro. Chiuderli a chiave, impedirgli di mangiare e bere, forse anche di fumare. Scoperchiare il civico di via Napoli. Uscirete di lì quando avremo un presidente e l’iscrizione. Raniero Gatti è un nome che non potevo ricordare, stiamo parlando pur sempre di storia minore. Mi ha aiutato Wikipedia stamattina, lo ammetto. Ma il succo è quello. Lasciamo da parte la delusione, la tristezza, lo sconforto che rasenta la disperazione per il giocattolo che salta. Passiamo alla pretesa cieca, all’insensibilità, all’ignoranza. E siccome la confidenza è la madre della malacreanza, disinteressiamoci dei patimenti patrimoniali di questi vip, smettiamola di dargli consigli e pareri. Non siamo un sindacato giallo. Siamo il Foggia. Lo spirito e l’essenza del Foggia. Allora cum clave. Chiusi a chiave.

Sia chiaro: sono padroni. Padroni dei loro soldi. Non hanno obblighi nei miei confronti, come io non ne ho nei loro. Ho riconosciuto il loro ruolo. A loro probabilmente interessa poco il mio, il nostro. Il contributo di passione, di chilometri e di cuore che non risulta ascrivibile in bilancio, che non si presenta liquidabile per nessuna banca. Che, andando a stringere, ad un imprenditore non serve. Ma, comunque la si voglia mettere, è quello il fulcro, il nucleo ardente della questione. La nostra passione. Quella voce assente dello stato patrimoniale. Quella sopravvenienza attiva che non figura a fine anno. E Foggia e Pro Sesto pari sono.

Fallire. “Ripartiamo dall’Eccellenza”, sento dire. Capisco lo sfogo, capisco la rabbia, capisco Sansone. Lo scorpione si getta nel fuoco per non farsi catturare dai predatori più grossi. Onore a lui. Ma noi siamo una compagnia itinerante che ha bisogno di palcoscenici. Non c’è gloria a cantarcela e suonarcela da soli ad Avezzano, a Marcianise, a Gallipoli, a Manfredonia. Non c’è gloria neppure a Ferrara, a Foligno, a Pistoia. Ricordo la delusione che provammo a Perugia, un paio di anni fa, a sfidare una curva sguarnita. O a Terni, quando dinanzi ci trovammo non più di 300 persone. E lo stupore dopo Arezzo, quando per tutta la partita ci soffiò in faccia un vento gelido misto a pioggia, e al ritorno ci si chiedeva attoniti: “Ma i loro ultras avevano gli ombrelli?”.

Siamo animali da palcoscenico.

A Castellana, a Copertino, a Terlizzi, a Vieste, non possiamo. Non è proprio cosa. Vogliamo mortificare noi stessi, ridurci uno per uno a comparse minori, solo per dare un segnale della nostra dignità? E se dovesse poi vacillare la costanza? Se finiamo incastrati nelle maglie della serie D per cinque o sei anni, come la Casertana, e deperiamo, come certi insetti nella tela del ragno? E poi, a chi? A chi dovremmo dimostrare qualcosa? C’è un’intera generazione che non ha mai visto la serie B. Un’intera nidiata di ragazzini che tifa Inter, perché i genitori hanno mollato. Io tra dieci anni ne avrò 44. Lanciarci tra le fiamme per seguire l’istinto è cosa nobile. Ma l’urlo, il pianto dirotto che hanno accompagnato l’ultimo gol, quello di Caraccio ai playout, indica che l’istinto della sopravvivenza è pari a quello del “Muoiano i filistei”. Quindi, dobbiamo essere decisi e calmi al contempo. Non godrei a veder scremare la curva, ad osservare – senza poter incidere, intervenire – assottigliarsi la piazza. Come i pesci rossi, adattarsi all’habitat. Che gusto c’è a dire che si era in 20, in 15, in 5? Dividere chi ci crede da chi lo fa per moda, si dice di solito. Ma non scherziamo. Simili prove di forza alla Tafazzi si possono fare in ogni ambito e a qualsiasi livello. Uccidersi per una pena d’amore – “per impazienza”, come diceva Massimo Troisi – è un impulso primario. Poi c’è un secondo impulso, che chiama a lottare per la vita. Fino in fondo. Fino alla fine.

Nessun commento:

Il Libro