26/06/10

Le due città

Fosse fallito, rischiasse il fallimento, l’Ascoli Satriano, il Rocchetta Sant’Antonio, l’Atletico Orsara, c’è da scommettere che la via principale di quei paesi si popolerebbe di gente, di bandiere, di striscioni. C’è da scommettere che l’adesione al corteo sfiorerebbe percentuali bulgare. Le mamme, le nonne, i bambini.
Invece è l’US Foggia a rischiare di non iscriversi, di scomparire.
E il corteo che si snoda per le strade centrali della città è …roba da ultras.
O, almeno, così sembra.
Foggia ha un problema di comunità.
Che non è un semplice problema di contabilità. È una questione di sguardi.
Perché sono quelli a fare la differenza.
Gli sguardi incuriositi, blandi, di quelli che s’affacciano ai balconi o aprono le finestre e sbirciano di sotto, destati dalla siesta d’un pomeriggio di quasi estate; le facce di quelli che sorridono, che commentano col vicino, appoggiati alla ringhiera; le mani di quelli che indicano, i gesti di quelli che gesticolano e, si intuisce, sanno come stanno veramente le cose e, al contempo, stanno motivando la propria estraneità. Quelli che tutto va male, che nessuno ha ragione, che tanto non mi riguarda.
Sono gli sguardi a fare la differenza.
Quelli dei passanti che si fermano ai margini del flusso, che osservano lo striscione, e poi le bandiere, e ridono stranieri ai cori, ai battimani. Quelli che scuotono la testa pensando che non sono queste le cose serie, le cose per cui bisognerebbe manifestare, che se poi gli chiedi quali siano non lo sanno neppure. È così da sempre, ed anche l’assuefazione, la rassegnazione insita, traslucida in queste due righe lo dimostra, più di un trattato di antropologia.
Ai tempi della scuola, quando ai cortei si andava in massa solo nelle ore di lezione, la gente ti guardava e diceva: “Andate a studiare!”. Quando si manifestava contro l’aggressione alla Serbia, all’Iraq, o contro le atomiche di Chirac, l’invito più pressante era quello ad andare a lavorare. Motivato, per carità, dalla distanza incommensurabile tra l’evento e questo capoluogo di provincia dell’impero. E anche quelli che si lamentavano dei giorni persi a scuola, a guardarli con distacco, oggi, non avevano tutti i torti. Ma i livelli si abbassano, le cause si afflosciano e finiscono per abbandonare l’etereo mondo dei massimi sistemi, e sfiorare le teste di noi tutti. Della cosiddetta società civile.
La mafia, la società, l’omicidio Panunzio, l’omicidio Giuva.
Altrettanti cortei mattutini. E tante teste ai margini, a guardare gli studenti sfilare, mentre gli anchorman più spudorati ciarlavano di nuove avvincenti prese di coscienza giovanili.
Poi fu la volta di Marcone, e di sera – si sa – gli studenti non ci sono. E la decantata antimafia da corteo è scomparsa, lasciando a quattro gatti il compito di accendere le fiaccole dell’indignazione di facciata. Una cinquantina di luci nella notte e, tutt’attorno, un mare di cappelli, di sigarette accese, di sbuffi di fumo. Tra le due città – l’una assai più piccola dell’altra – una membrana di vuoto.
La stessa di sempre.
“Questa è Foggia”, si dice. “Questo ci meritiamo”, arrischiano i più arditi.
Una città dove la parte attiva – attiva per qualsiasi ragione – è sempre osservata, videoripresa, commentata, talvolta vilipesa, dalla parte inattiva, che si ritiene arrivata, più furba, più intimamente consapevole, più navigata delle cose della vita.
Una città dove ogni corteo è espressione di una minoranza che, passo dopo passo, s’inoltra nelle viscere, nelle arterie di una esistenza estranea. Quella dei passanti, dei condomini, delle fortezze col cancello isolate dal traffico. Manco fossimo a Dallas. Foggia è lo scenario, la quinta teatrale, di ogni tentativo di riportarla in vita, di farla partecipare. “Non state lì a guardare”, si gridava ai tempi delle superiori.
E ieri, mentre il corteo per le sorti dell’US Foggia – una squadra di calcio, certo, ma anche un piccolo patrimonio comunitario per una città che un tempo viveva di pane e pallone – si snodava da corso Giannone a piazza Cavour, di gente che guardava ce n’era tanta. Tantissima.
C’era finanche chi arrivava al sacrificio estremo di sventolare la sua bandierina dei tempi della A dal balcone, ma che di affrontare la rampa di scale e sbucare dal portone per fare due passi con noi non aveva la minima intenzione. Così come c’è stato anche chi ha pensato bene di agevolare gavettoni d’acqua sui manifestanti. Così, per scherzo. Così, per scherno. Perché il “Che vanno facendo?” rimanga epigrafe sotto lo stemma delle tre fiammelle.
Una città dove manca completamente in senso di comunità, d’appartenenza.
Una città destinata a morire nelle proprie case, indifferente a tutto, incapace di mettersi in gioco, di sopportare il peso del ridicolo o di mostrare la propria faccia per una causa qualsiasi.
Una città dove chi ancora ha voglia di restare in piedi non può che sperare che quei centocinquanta-duecento non decidano, a loro volta, di chiudersi in casa.

1 commento:

NicKappa25 ha detto...

Tutto tristemente da sottoscrivere.

Ma non riesco a non pensare che debbano essere soprattutto le famiglie e, dentro logiche diverse, le scuole a instillare nei più giovani il senso d'appartenenza alla propria terra, e un minimo di cultura condivisa.
Parere personale.

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