11/07/12

Notte fonda




Io l’ho visto mio padre quando parlava del Foggia. Quando era un ragazzo. Quando aveva meno anni di me adesso. E un lavoro, una casa, una famiglia, due figli da crescere. Ho visto i suoi occhi. Secoli prima della prima in pay-tv, che per la A fu un Lazio-Foggia 0-0. Io, si. Li ho visti quegli occhi. Mobili, irrequieti. Sognanti. Innamorati. Solo gli stolti, papà, i superficiali, gli intellettuali da seghe in una bottega di barbiere, potrebbero cestinarli con una scrollata di spalle, di quelle magistrali. Di quelle che hanno imparato a fare in lustri di solitudine. Solo quella gente, da cui ci siamo sempre tenuti lontani come per sfuggire al sortilegio del benessere, potrebbe – sorridendo – irridere il tuo slancio. Fatti loro. La nostra gente è altra, e lo sappiamo. Quelli della Nord, quando ero un abbozzo di persona. Quelli che mi accudivano tutti attenti a non perdere un grammo virilità, come una famiglia di fatto. Quei mille maschi uno accanto all’altro: il geometra, il carpentiere, l’elettricista. Ognuno al proprio posto, sul cemento anonimo dei gradoni. Domenica dopo domenica. Avrei potuto tifare per la Juventus, che vinceva le Coppe che si giocavano a dicembre, di mattina presto, in Giappone. Avrei potuto tifare per il Milan, l’Inter, la Roma. Se non avessi visto gli occhi di mio padre. E quelli di mio zio, dei miei zii, di mio nonno. Se non avessi, senza saper leggere né scrivere, riconosciuto la grandezza del sogno che trasferivano al mondo.

Oggi sono stato fuori tutta la giornata. Fuori città, voglio dire. E il telefonino non smetteva di trillare. Messaggi e voci. Voci dei fratelli, di quelli della Nord, ancora una volta. Attorno avevo gli altri. Il mio gruppo, la mia ragion d’essere. Ad ogni squillo un sobbalzo. Ad ogni clic una domanda forsennata di notizie. “Pare che il Napoletano abbia occultato la debitoria”. “Pare che il nuovo acquirente si stia tirando indietro”. “Pare che i due soci del nuovo acquirente siano in realtà comparse del Napoletano”. “Pare che al Municipio stia succedendo il finimondo”. Moriamo, dicevamo tutti. Moriamo e basta, senza tirarla per le lunghe. Senza complicarci l’esistenza. La serie D, boh, non sappiamo neppure immaginarcela. La stagione all’inferno di quel poeta francese. Pare, dicono, ci sia il Grottaglie, la Fortis Trani. Pazienza. Anzi, senza Tessera, ai nostri posti. A far vedere chi siamo, cazzo! Ma ancora squilli, ancora voci. “Ci sta lasciando morire, quel pezzo di merda”. Ovvio. L’avevamo messo, nero su bianco, due anni fa. Quando i tifosi facevano tremare l’Ariston. “È venuto a vendicarsi di noi, – scrivevamo – di Foggia e dei foggiani”. Buh!, ci rispondeva la gente, volubile al sogno. Solubile ai sogni. In macchina abbiamo ripercorso la Statale 16, a ritroso, a tarda sera. Quando tutto era compiuto. “Per noi cambia poco”, ci siamo detti e ripetuti fino allo sfinimento. Un campetto di quinta serie vale quanto il “Meazza”. Servirà l’orgoglio. Lo sguardo dritto e invincibile di chi s’approccia alla piazza d’un paese come alla scala del calcio. Ci siamo fatti forza. Cambia davvero poco, per noi.

Poi, una volta a casa, a notte fonda, ho saputo. Ho saputo che papà aveva saputo. “E come ha reagito?”, ho chiesto. “Non ha detto niente – mi è stato risposto – è rimasto così, a fissare il vuoto”. Allora, e solo allora, ho sentito il dolore. Un dolore profondo, sottile, implacabile. E la rabbia. Tracimante, fertile, cupa. E il disprezzo. Totale, viscerale, senza alibi. Il disprezzo autentico. Perché non è niente. Per voi non sarà niente. Ma io li ho visti e me li ricordo, gli occhi di quel ragazzo di trent’anni che mi teneva sulle spalle mentre una ressa inenarrabile premeva per entrare. A vedere Foggia-Catanzaro. 

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