26/03/13

L’anticipo del sabato di Pasqua


ha sempre portato male al Foggia.

Questo pensavo stamattina, mentre mi lavavo i denti (atto che per qualcuno, ho scoperto ultimamente, ha persino un valore politico). E la mente ha cominciato il gioco delle associazioni. M’è tornato a galla Clagluna e la sua Salernitana, anno di grazia 1988. Pasqua cattolica festeggiata il 3 aprile. Rossoneri sconfitti al “Vestuti”. 2-1, con un rigore che definire “dubbio” farebbe rabbrividire gli indecisi cronici. Sasà Campilongo vestiva la maglia granata, all’epoca. E non so neppure se lo chiamavano già Sasà. Di certo non faceva ancora il testimonial per la guaina che migliora la precisione del tiro a rete, sul Guerin Sportivo. E neppure se allora si usasse il termine “testimonial”. Comunque sia, Campilongo si lasciò cadere a peso morto, tra Scienza e Accardi. Senza alcun contributo dei nostri difensori. Mazzalupi di Roma, al minuto 42, regalò ai campani il penalty vincente. Avevamo pareggiato con Baldini solo quattro minuti prima. Clagluna – alla domanda: “I foggiani contestano il rigore. Lei cosa risponde?” – dichiarò: “Perché? Era troppo angolato?”. In panca c’era Marchioro. Non andammo in B.

Il dentifricio fa il giro del cavo orale. Risciacquo. Sputo.

Nel 1989 andò pure peggio. Perdemmo a Caserta, 2-1, dopo una striscia di risultati positivi che durava, se non erro, dal rovescio di Frosinone. In settembre. Caramanno era uno che non vinceva quasi mai in trasferta. Ma col calcio del due punti a vittoria, arroccarsi pagava. Ma soprattutto quel 25 marzo perdemmo, persi, si può ben dire per sempre, il mio eroe dell’infanzia: Fabio Fratena. Un fallaccio, una specie di chiusura a sandwich, una caduta scomposta. E il Buitre di Capitanata cessò d’essere il trascinatore sul campo. Un gran gol di List non evitò la sconfitta.
Ispeziono i denti con la lingua. E mi sale al cervelletto il pareggio interno con l’Udinese, 2-2, l’anno della promozione in A, con Zeman. Vincevamo 2-0 e dovevamo continuare ad attaccare. Pioveva, o quasi. Ero in Curva Nord. L’unica partita mai vista sotto, in Nord. C’era tanta di quella gente che la metà avrebbe fatto la gioia del presidente del Bari. Con mio padre accanto, assistetti ad una prodezza di Beppe Signori. Una punizione di seconda con gol in scivolata. Una cosa da antologia. Poi segnò anche Balbo. Si, Pasqua porta sfiga.

Poi, una volta uscito dal bagno, decido che non è il caso. Devo documentarmi meglio. Non è possibile che si sia sempre perso. E d’incanto mi torna indietro come un boomerang quel colpo di vento che spinse in rete un calcio d’angolo di Stroppa contro il Piacenza. Era il 2 aprile del 1994. Avevo appena visto Il nome della rosa in videocassetta e tentato l’ultimo disperato tentativo di riavvicinamento con la santa madre Chiesa. Hai visto, mi dico.
E i ricordi tornano a rimescolarsi, come un mulinello d’acqua dolce, lacustre.
A Messina, al vecchio “Celeste”, vinciamo 2-0 con doppietta di Signori, nel Novanta.
E 5-0 il Verona di Liedholm, nel primo anno di A, con Zeman. Il povero barone disse che mai aveva subito un’umiliazione così pesante. I veronesi erano trenta. Erano raccolti e noi gli auguravamo di finire tutti appesi. Ricordo. Così come ricordo, ma a malapena, il pari interno col Parma dell’aprile ’95. L’anno della desolante retrocessione in B, dopo i fasti del nono posto. L’anno che scoprii Le Fanu.
E come ho potuto dimenticare quella ormai storica trasferta all’ “Olimpico” con la Lazio, con Di Vincenzo che realizza un eurogol in pallonetto e corre sotto un settore semideserto, dove saltiamo come invasati e, con l’ausilio del tetto protettivo che fa da amplificatore naturale, da cava, sembra di essere un migliaio e non 100.
Ormai sono adulto, vestito di tutto punto, e sto per chiudermi alle spalle la porta di casa per andare a lavorare. E ripenso a zio Tarcisio Burgnich, alle sue strepitose salvezze, alle stagioni di B. D’incanto mi torna il buonumore. Ripenso a Sciacca, che con un rasoterra da fuori beffa al novantesimo il portiere del Brescia ed espugna il “Rigamonti” vendicando – seppure parzialmente – un 0-5 casalingo subito all’andata con Delio Rossi sulla panca. Stile zemaniano. Il 2-0 con cui regoliamo in casa la Lucchese, nell’anno della pasquetta a Vasto, il 1997.

In strada c’è vento e quasi pioggia.
E il ricordo tende ad adeguarsi. Si rifà uggioso, chiaroscuro.
Il 3-3 di Treviso, l’11 aprile del ’98. Quando con Angelo al Ruvé sembravamo in trance ed ognuno chiedeva all’altro di svegliarlo. E attorno a noi altri cinquanta avventori, che chiedevano lo stesso al titolare del bar. Che nel frattempo era uscito scosso e fuori di sé per le vie della città incredula. Lasciando incustoditi interi fusti di birra. Si vinceva 3-1 e, rilassati, guardavamo i nostri fallire le palle per rendere più definitiva la vittoria. Al novantesimo si vinceva 3-1. Non ci credo ancora oggi. M’è pure capitato di ritrovare tracce di quella partita nel doppiofondo di una videocassetta, mentre senz’altro cercavo altro. Ed, ironia della sorte, era una cronaca integrale. Telenorba. Del quale rimangono gli ultimi cinque minuti più il fatale recupero. E la festa di quei quindici ultras che c’ha il Treviso.
Nel 1999 eravamo in C1, di nuovo, e impattammo a Palermo.
Due a due. Poche ore prima un viale di vecchi aveva fissato lo stesso punto nel cielo, prima di cena, alle mie spalle. Avevo contato i bombardieri che si dirigevano su Belgrado. La cosiddetta “guerra del Kosovo”. Una Pasqua militante.

E ancora, il Duemilaotto. Il tre a tre di Cremona. Che cosa ha fatto Mounard!
Il Duemilanove. L’uno a uno di Benevento. Il giorno della scarica di birre a prezzi Ultras.
Il Duemiladieci. L’uno a zero di Rimini. Che almeno i cardoncelli non ci vanno di traverso.
E il sabato dei mille nocerini tesserati allo “Zaccheria”. Duemilaundici. Ancora Zeman. 0-1. La loro promozione sotto i nostri sguardi di pietra.

Già, in definitiva, l’anticipo del sabato di Pasqua ha sempre portato male al Foggia.
Ma quest’anno si gioca di giovedì. Per quel che vale.

1 commento:

Anonimo ha detto...

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Forza Foggia!
J.P.

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