08/04/13

Il sesto esistenziale




Domenica 7 aprile 2013, Nardò-Foggia 0-1


Per noi è così. Ogni trasferta vissuta come un evento. E come un evento, trascurata. Perché siamo refrattari all’idea del clamore. E dell’abitudine, al contempo. Quando sappiamo di dover viaggiare, pensiamo che non ci sia nulla di strano, che sia normale, che così è sempre stato. Che così siamo cresciuti. Invece, no. Non è normale per niente, non più. Da anni, ormai. Che l’ultima volta in pullman fu a novembre. Napoli, via Caldieri, zona Vomero. Da allora, il niente. Ed abbiamo ricominciato a sgranare i rosari dei nostri record di divieti. Anche in D, come per due stagioni filate in Lega Pro. Poi, dopo Matera, s’è mosso qualcosa. La società, persino il defibrillato sindaco. E l’Osservatorio che, munifico, ci apre un credito di fiducia. Il pullman fermo a San Rocco. Si gioca alle 17:30. Non chiedeteci perché. L’armamentario al completo. Le dodici e trenta. Nardò non è proprio dietro l’angolo. La Puglia è regione lunga e stretta. Lo si evince dalle cartine. Ma prima dell’una nessuno è pronto. Aspettiamo ancora un po’, è il momento di salire. Il Foggia è sesto. La posizione più stronza che la graduatoria possa offrire. Sesto, il gradino immediatamente sotto i playoff. A 8 punti dall’ultimo posto utile che, però, nessuno a capito a cosa serva. A fare gli spareggi nella speranza dei ripescaggi, dicono. E ci crediamo. Del resto, siamo senza stimoli da almeno cinque mesi. Non guardiamo avanti, non ci guardiamo le spalle. Ma maturiamo la sottile, inquietante sensazione di essere sesti da una vita. Di essere esistenzialmente sesti, non so come dire. Quella postazione metafisica propria di chi si batte, che a suon di bracciate chiede sacrificio e disciplina al proprio fisico, ma vede la terraferma beffardamente immobile alla stessa invariabile distanza. Da sempre. Mancano cinque partite. Davanti Monopoli e Bisceglie, che si alternano. Dinanzi a noi, il Basso Tavoliere e l’Alta Murgia, la Valle d’Itria e il Salento. Da percorrere di filato perché scende in campo la maglia rossonera. Senza stimoli, così come piace a noi. Scendere in campo per niente quando l’onore è in gioco. Come diceva quello. Le birre sono calde, i conti non tornano. Davanti si parla di strategie del finanziamento pubblico applicate all’industria dello spettacolo, di prebende alla cultura e di verde pubblico. Un simposio, intervallato da domande che simulano le volute del tasto Reset. In mezzo e dietro si cantano cori di scherno. Ci danno dei “sofisticati”. Noi ci impelaghiamo col Borghetti. Non andiamo di fretta, non grondiamo impazienza, alla fine non sappiamo neanche perché non siamo a casa a riposare. O forse si, si che lo sappiamo. E ci basta, aldilà dei calcoli e del pallottoliere di questa serie carogna. Pare che i casertani stiano volando verso Sassari. Torres-Casertana sa di anni Ottanta. Il J&B si scioglie tra i ricordi di quella volta a Barletta, campo neutro, quando gli assedianti si tramutarono in assediati. Sabrina non ha un’aria materna, oggi. Ed è buon segno. Quello, sgamone, scarosato non sembra manco così visibile. Skocca è casual tanto in maglioncino quanto in canottiera. I libici hanno un preoccupante sguardo concentrato sulla tappezzeria del sedile davanti, colorato come le divise di Campos. Che a noi, immancabilmente, riportano alla mente almeno un’assenza. Una sosta, frettolosissima. Un muro per i bisogni. Bari&Reggio. Poi via, il Salento. Ma nessuno guarda fuori. I cori, ancora, lo svincolo. Ci siamo. Non ci abbiamo messo tanto, in definitiva. Altri due pullman. Saremo un duecento. A Nardò, in serie D, senza obiettivi reali da dicembre. Non male, dai. I poliziotti all’ingresso chiedono il nominativo di un responsabile delle aste. Uno di loro chiede di andarci piano, che nella ressa di prima l’asta del bandierone gli è casualmente planata sul capo incappellato. Saliamo. Ecco, bene, siamo divisi. Per non farci mancare proprio niente. La spaccatura, da qualche tempo visibile in Sud, si ripropone qui. A destra, all’angolo, gli Indomabili. Al centro, il Regime e gli altri. Noi non interferiamo, ma alla fine il blocco sembra accorparsi sulla linea di centrocampo. Le squadre scendono in campo, scende una fitta pioggerellina. E cantiamo da schifo. Perché è il minimo. Se sparpagli duecento persone in una gradinata e pretendi di avere tre coristi e tre tamburi, l’effetto – logico – è quello della sagra. Quando a nugoli i contadini ballano ai quattro cantoni, al suono magnetico delle chitarre battenti. Ci proviamo, ma la stereofonia, l’effetto surround è insopportabile. Credo che neanche dal campo riescano a sentirci. Niente, non va. Il coro secco che dovrebbe scioglierci ci getta nello sconforto. E ogni faccia incrociata la dice lunga. Ogni viso è una richiesta d’aiuto. Della serie: “Ma perché sono qui?”. Il primo tempo scivola via completamente inutile. Di fronte c’è il loro gruppo di volenterosi. Ci hanno accolto con dei cori contro i tarantini. Alla fine del tempo c’è da prendere delle decisioni. La tribuna diventa politica e si sposta nel sottoscala. La pioggerellina diventa pioggia. Il cielo è nero, tagliato da nuvole cupe. La testa spoglia gronda acqua mentre le tre fiammelle continuano a sventolare sulla balaustra. Il settore, adesso, è vuoto. Vuoto e uniforme. Il dibattito pare proseguire. Le squadre rientrano. E i primi cinque minuti sono angoscianti. Noi siamo in cinque o sei. I fari sono accesi, il verde dell’erba è elettrico. L’acqua sempre più gelida e incalzante. I cappucci sono pregni. La bandiera sventola. Fino al contrordine. Tutti giù. Tutti assieme, si intende. Senza striscioni, senza appartenenze che non siano quelle alla nostra città. Che ovunque rappresentiamo. Ci piaccia o no. Tutti insieme, per quaranta minuti scarsi. Per il tempo che rimane. E si, da subito, da prima che il parterre diventi il pavimento di un discopub, lo capiamo: siamo una bella tifoseria, quando vogliamo. Quando ci gira, quando andiamo oltre gli steccati. Anche quelli dello spartito da eseguire. Quando oltrepassiamo i limiti dello stile, della compattezza, della perfezione dei battimani. Quando ci lasciamo prendere dalla foga della passione senza infingimenti o sovrastrutture. Cantiamo, balliamo, mentre dall’alto non smette di piovere. Sembra un vecchio Foggia-Reggina allo “Zaccheria”. Le torce illuminano il vapore acqueo. Ultras liberi! Il branco dilaga nel recinto. Soffia sul campo, dove la partita scorre via senza acuti. Quelli del Nardò ricordano Federico Aldrovandi. Noi diciamo Fuck Off all’Osservatorio. Poi riprendiamo le danze. Fino al boato, che giunge dai gradini più alti, da quelli con gli immancabili cellulari in missione per conto di Youtube. Ha segnato. Il Foggia ha segnato. E la partita è finita. Praticamente, in contemporanea. La squadra è qui sotto, sulle grate. Qualcuno si arrampica. E la memoria va a Fabio Fratena in quel di Monopoli. O a De Zerbi. Dov’era? A Brindisi? Uno a zero, è terminata uno a zero. Il Foggia ha vinto. Gli Ultras hanno vinto, facendo quello che sanno fare meglio. Hanno sospinto la vela. Rabbia e nostalgia. Appartenenza. Di nuovo ai pullman, assetati. A suddividere le birre rimaste. Nel buio di una mezza sera che sembra già nuovo inverno. Non c’è da farsi calcoli o spiare la classifica. Siamo sesti. È una vita che lo siamo. 

2 commenti:

xs400 ha detto...

Impeccabile! da leggere tutto d'un fiato. Veramente un pezzo di alto livello per quello che sa trasmettere e per come lo fa.Complimenti sinceri!


xs400

Anonimo ha detto...

concordo in pieno col commento precedente. amo leggere questo blog nonostante la mia fede calcistica totalmente opposta (sono barese)...in bocca al lupo al Foggia.
Piero

Il Libro