21/04/13

Il sogno tascabile




Ricapitolare, no. Non serve. Stavolta ce lo risparmiamo. Del resto, l’abbiamo detto in settimana. E ormai lo sapete meglio di me dov’eravamo venti, quindici, cinque anni fa. Non possiamo, prima di emettere un suono o comporre ogni singola parola, farci precedere dal fardello delle nostre premesse. Fino a diventare noi stessi una premessa. Senza fine.
Certo, siamo figli dell’esodo. Della diaspora. Nutriamo un bisogno fisico di raccontare. Di raccontarci. Come viandanti alle porte delle grandi città immemori. Delle metropoli dell’antichità. Dire chi eravamo. Dove siamo stati in tutto questo tempo. Un tempo infinito, che è già vita, ma che a noi sembra sempre una parentesi. Tempo in prestito prima di tornare a batterci coi nostri pari. Nobili decaduti. Cavalieri laceri, sporchi di polvere di campetti d’allenamento elevati al rango di rivali, con un lampo inestinguibile in fondo agli occhi. A parlare di “San Siro” e “Bentegodi”. Col rischio d’esser presi per cantastorie. Per pazzi. Per giullari della sorte. E quelli di fronte, gli interlocutori occasionali, a sghignazzare, a darsi di gomito. Che non ne esci se non gli spacchi il naso. Perché no, non me lo dimentico mica il corteo che ci portava allo stadio di Torino, con le Alpi sullo sfondo. Anzi, sembra ieri il freno a mano a Piacenza. Sento ancora lo stridio delle rotaie incandescenti.
Ma ci siamo accordati sul no. Oggi non si ricapitola. Oggi si racconta. L’alchimia. Il fascino perverso di questo gioco, che alimenta sogni per il grottesco gusto di vedere che faccia farai quando li avrà infranti. Ma, nel frattempo, tu sai che non vorresti essere in nessun altro luogo, se non in questo limbo della speranza, con le orecchie piene di ovatta e la ragione al macero. Un passo indietro. Non a quella volta che vincemmo 1-0 col Pescara al “Santa Colomba”. Ieri, nel Millenovecentonovantasei. Ma a questo pomeriggio. Alle tre di questo pomeriggio, più o meno. I fatti li sapete. Il Foggia della serie D è sesto. A cinque punti dalla zona play-off. L’ultimo posto utile è del Bisceglie. Ma utile a che? Oggi pomeriggio, alle 15, mentre tiro fuori le chiavi per alzare la saracinesca del covo, avrei risposto: “A continuare a giocare”. Perché non c’è nulla di così sconfortante come l’ultima giornata di campionato. Niente, dai tempi in cui tua mamma al balcone ti obbligava a rientrare a casa. “Si è fatto buio”. Il buio estivo di un precampionato algido che dura quattro mesi. Troppo. L’idea che il 5 maggio, alle 18, noi saremo già in attesa dei calendari della prossima stagione, è desolante. Incute terrore più dei preparativi nucleari di Pyongyang. Alle quindici, mentre accendo la televisione, avrei detto: “Fateci fare i play-off, anche se non so bene a cosa servano. Fatemi vedere ancora la mia maglia. Un’altra volta ancora, una volta sola e basta”. Bambini capricciosi, imbronciati. Cinque punti sono tanti, a tre giornate dal termine. Il Foggia è di scena a Monopoli. Trasferta vietata, ovviamente. Sarebbe stato magnifico. Esserci. Quei cento, centocinquanta. Macchia nera striata di rosso, nel settore del “Veneziani” che dovrebbero intitolare a Fabio Fratena. Invece, telecomando e divano. Senza neppure la compagnia della compagnia che ha tirato l’alba. “Con chi gioca il Bisceglie?”, “In casa col Matera”. Beh, quinta contro terza. Ma inutile farsi illusioni. Le illusioni sono tarocchi a perdere. L’impiccato. In più non c’è neppure la diretta. Teleregione trasmette il Cerignola. Se la mia anima potesse diventare un gabbiano e volare sulla testa dei presenti, mi sentirei decisamente in imbarazzo. A farmi vedere così, sul sofà, mentre guardo una signorina che legge sms degli spettatori e ogni tanto da la linea ad un tale Gianni da Monopoli. Ma a questo siamo costretti. E questo facciamo. Anche se alla propria anima volatile non si può mentire. Il Foggia sta giocando. Lo si intuisce da uno schermo in studio, alle spalle della presentatrice. Quello di sinistra, come un picture-in-picture. “Come ci siamo ridotti…”, dice il viandante che c’è in noi. E qui l’interlocutore dev’essere bravo a non assecondare. Altrimenti gli occhi si fanno lucidi e si ricomincia con quella volta che Bacchin lisciò e Di Canio ci sbarrò la strada per l’Europa. È un attimo. E si precipita. Invece, fissiamo lo schermo. Parliamo di Beppe Grillo e di Napolitano. In fondo, cinque punti in tre partite non si recuperano. Alla fine del primo tempo siamo 0-0. Il Bisceglie era passato sotto, ma ha agguantato il pari. Quarantacinque da giocare e i punti restano cinque. Secondo Lucano. È una passione lacerante, questa. Passi il tempo ad immaginare come debba essere ridicolo esultare ad un gol tra i dilettanti. E, senza accorgertene, fai venire giù lo stadio se al novantunesimo batti il Pomigliano. È una passione, l’ho detto. E le passioni mozzano la riflessione. Sono pura vita. Nella ripresa lo schermo scompare. O, meglio, il Foggia slitta sul terzo monitor, quello a destra. Per trequarti fuori dall’inquadratura. Il Monopoli attacca. Noi guardiamo una fetta di campo risibile. Chi ce ved. Certo, siamo di un’altra generazione. Il gol di Scienza a Cosenza intuito da come urlava Baldassarre. Il jingle dell’intervallo. 104,20 fm. O quella volta a casa di zio, davanti ad un film di Stanlio e Ollio che non guardavamo, gli occhi fissi sulla sovrimpressione che diceva Nocerina-Foggia 0-0. Per settanta minuti e passa. Poi 0-1. E il boato di due adulti e un bambino perché una sovrimpressione era cambiata. Vincemmo. Due a uno. Ed eravamo sudati come se avessimo giocato noi. Per noi la presentatrice che legge i saluti da casa è già oro. E poi viene il momento. Che il Bisceglie resta in dieci. E noi diciamo che, se il Matera vince, anche il pari va bene. Come se il campionato finisse a luglio. Perché un tifoso non chiede altro che la sua dose di immaginette a cui credere ciecamente. Lo stimolo perpetuo, che emerge impetuoso quando sembra sommerso dei rifiuti della routine. Invece il Foggia segna. Passa. A tredici dal termine. Noi non siamo lì, nel settore. Ad ammassarci l’uno sull’altro. A esplodere di gioia. Siamo qui, e neppure in venti davanti alla tv. Eppure attorno c’è una città che esce dal letargo. Come se il Foggia fosse una di quelle malattie imbarazzanti, da vivere privatamente. Ma che continua ad ardere. A farti fremere. Che quando sfiori il sogno, devi collettivizzarlo. Sento il mio urlo. Sento urlare. E comincio a sudare. Non riesco a stare seduto. Adesso cammino per la stanza, come quando al “Vestuti” sembrava non finire mai. Se ami questo gioco, non procedi per step. È una macchina del tempo, il mio Foggia. È il ritratto di Dorian Gray. Adesso i punti da recuperare sono tre. E questa città è tutta lì. Ne sento il respiro affannoso. Anche se è vergognoso dirlo. Dire che ti stai battendo allo stremo delle forze per partecipare ai play-off dei Dilettanti. Che non sai a cosa servono. Ma adesso no, non ha importanza ricordare i cinquemila dell’Olimpico. Adesso guardiamo la signorina. E sentiamo quel barese affranto che parla dell’assedio del Monopoli. Mentre il Bisceglie è in otto. E pareggia ancora. Il barista consuma le suole. Si affaccia – “Che fa il Matera?” – poi ritorna costernato al suo banco. E quando il Matera segna e glielo comunico è come se Grosso avesse infilato di nuovo i crucchi. Cazzo, cazzo, cazzo. Bisogna resistere. Il Monopoli ha preso una traversa, così dice Gianni. Ma adesso i punti sono due. Per un sogno in scatola a cui aggrapparci con l’entusiasmo dei sommozzatori. I minuti di recupero. Il Foggia raddoppia. Sarebbe stata l’estasi. La fuga di Giglio sotto le gradinate. Come Fratena nel 1987. E noi giù, uno sull’altro, ubriachi di gioia. Di una vittoria esterna in serie D. Non ci posso pensare. Ma non si parla d’altro. I malati di questa follia ora sono fuori. Ai balconi, a rifiatare. In strada, a commentare. A ridere. Carpisco brandelli di discorsi: “Due punti, due punti soltanto”. A due sfide dai titoli di coda. E la prossima, domenica in casa, rischia di diventare un evento. Si, certo, adesso si dovrebbero dire quelle cose Ultras tipo “Onore a chi c’è sempre stato”. Ma a me non va. Io fremo sin da subito a immaginarmi lo “Zaccheria” popolarsi. Perché l’amore mio è popolare. Le elite non mi sono mai piaciute. Rivoglio la gente, la mia gente. Ho parcheggiato sotto casa. Ho incrociato mio padre con un cappello giovanile, a passeggio. Mi ha sorriso in maniera inequivocabile. Ha detto: “Tutto a posto?”. Ma io so cosa mi stava dicendo, in realtà. Il Foggia ha vinto e domenica assaltiamo l’Ischia. “Si, papà, tutto a posto”.  

1 commento:

Anonimo ha detto...

fantastico ed emozionante come sempre... Piero

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