11/04/13

L’estrema colpa



Non basta, no. Dire che vent’anni fa giocavamo con la Juventus, il Milan e l’Inter. Quindici con Genoa, Cagliari e Torino. Dieci con Catanzaro e Sanbenedettese. Cinque con Padova e Cremonese
E che adesso abbiamo nostalgia anche del Tritum dell’anno scorso.
Non basta. Dimostrare – tutto documentato! – che abbiamo attraversato il deserto della curatela fallimentare, con una carovana precaria assaltata dai predoni, dagli sciacalli e dai coyote. Che siamo falliti, sprofondati. Che abbiamo lasciato la B ad Avellino, allo “Zini” e al “Santa Colomba”. E abbiamo ripreso da Termoli. Come se niente fosse. Che l’anno prossimo San Severo e Cerignola non saranno le location della partitella del giovedì.
Che guadiamo torrenti di lacrime. Che le foto non ci rassomigliano più. Che perdiamo i capelli e moltiplichiamo le rughe, aspettando una gioia.
Non basta. Pensare allo “Zaccheria” della festa popolare. Della domenica in apnea tra venticinquemila innamorati degli stessi colori. Volevano cacciare gli Ultras e riportare le famiglie allo stadio. Ora allo stadio siamo rimasti solo noi. La famiglia degli Ultras.
Non basta.
Questa povera, martoriata, sfibrante passione di minoranza, fuoco residuo di residuati bellici, Ultimi Mohicani di quel che un tempo era un tempio, deve subire anche lo scherno.
Un must. Le indicazioni per il naufragio affisse al muro immaginario: qualsiasi cosa vada male, compilare il modulo allegato. Scrivere quel che non va. E alla fine, a mo’ di estremo insulto, scrivete: “U Fogg è nu squadron!”. Equivalente indigeno dell’oppio marxiano. O, peggio ancora, del “Beato a te che non capisci niente” in voga tra Sant’Anna e le Croci.

Perché bisogna scegliere. Sempre. Rendersi soggetti geometrici piani, a una dimensione. Le priorità perdono il plurale. Una e una soltanto è la cosa che puoi fare. Devi scegliere, ma a conti fatti non hai scelta. Guai a dire che vai allo stadio mentre chiude il Gino Lisa. Diventi immediatamente un subumano. Una specie di spaventapasseri animato. Un abbrutito a comando, incapace di distinguere ciò che è importante, nella vita, da ciò che non lo è. E guadagni il disprezzo dei dotti.

Eppure io c’ero. Ricordo che c’ero. E che avevo un mal di denti terribile. Una carie. A notte alta, coi tir di traverso a bloccare gli accessi alla zona industriale di San Nicola. Davanti al fuoco acceso, coi metalmeccanici di Pomigliano d’Arco e di Atessa seduti a cerchio a mangiare flauti del Mulino Bianco. Di Termini Imerese. A parlare della Sata di Melfi, mentre si bloccava il terzo turno. E a me faceva male il molare. E l’alba non sorgeva. Mai. C’ero. Quella volta che occupammo la via esterna, per chiudere in trappola i crumiri. E quella volta che dalla questura si vedeva il castello mentre ci chiedevano il nominativo di un avvocato. C’ero in decine di pullman all’alba, col sonno a precipizio e l’acqua fredda in faccia per sfuggire al torpore delle coperte. Del disimpegno. E se la memoria non mi inganna, c’ero anche quando occuparono le case a Viale Europa. In mezzo alla strada, anche lì di notte. Di domenica notte. O ai picchetti della Sofim, dell’Upim, della Standa. C’ero a Lucera, quando gli operai occuparono la Metalsifa, a Cerignola contro il rigassificatore, a Manfredonia contro le trivellazioni in Adriatico e in corteo per l’aeroporto. C’ero, nella sala consiliare, a battere i pugni sul tavolo coi mobilitati della Cartiera. E subito dopo, in strada, a favorire i documenti alla digos. Che ci aveva fermati che manco Serpico. E poi si, c’ero a Barletta, a Bari sia quando segnò Di Biagio e perdemmo, sia quando segnò Matrone e vincemmo. A Salerno, ad Avellino, a Napoli. E a Venezia, a Portogruaro, a Cosenza. A Trieste, in una trasferta lunga tre giorni. Il mio grande sogno è sempre stato quello di giocare il primo turno di Coppa Uefa. Beccare il Cska di Mosca. E andarci in pullman. Oltrecortina. Poi la cortina s’è smaterializzata, l’Unione Sovietica s’è dissolta. E pure la Jugoslavia, dove aveva giocato l’Atalanta. Sul Kosovo piovvero le bombe. E si, all’Amendola c’ero. O almeno, ricordo d’esserci stato.

Il che dovrebbe comunicarmi qualcosa. Dovrebbe. Probabilmente una vocina cavernosa dalle cavità del mio cervello dal fegato grosso, mi sta dicendo che non c’è conflitto. Tra una cosa e l’altra. Non c’è idiosincrasia, antagonismo. Che il problema è di chi guarda e non vive, non certo il mio. Che la maglia, la città, l’impegno, non sono termini estremi di una rissa reale. Che volendo, le cose possono convivere. Che, anzi, convivono per forza. Perché legate, indissolubilmente. Quel che vuoi dare. Quel che sei disposto a dare. Quanto sei disposto a metterti in gioco. La politica è seria e il tifo è goliardico. Ma è vero anche il contrario. È quel che sei quando giochi a fare la differenza. Senza soluzione di continuità. E quando senti quei saccenti sbraitare alle nuvole grosse, prendersela con questa città e i suoi bipedi abitanti, accusarli di scarsa dedizione e attenzione (alla cultura, allo spettacolo, all’istruzione), e concludere con il più classico dei “U Fogg è nu squadron”, come a sottintendere una superiorità di casta rispetto ai bassi istinti della piazza, come a chiudere un pensiero autoarticolato, la tristezza s’apre varchi come una petroliera all’Artico. Perché si, capisco la serietà degli altri. Il loro modo di barricarsi, la loro ansia insensata di dissociarsi da una realtà alla quale si sentono estranei. Per talento e stile. Capisco chi dell’artista ha l’invidia. Compatisco. Le loro vite-roccaforti, il continuo chiacchiericcio. La frigidità sociale. Chiude il Teatro del fuoco, chiude l’Oda, chiude questo o quell’altro luogo di meretricio intellettuale, e tutti a indicare i pecoroni. Che pascolano, beati e spensierati, sulle verdi pianure di Viale Ofanto. Come se davvero vi fossero ancora 20 o 25mila pecorelle nel gregge. Come se fossimo nel 1993. Io pure pascolo. Ancora. Perché no, il teatro non mi piace. E manco il balletto. Ma non sono un mostro, per questo. O, almeno, credo di non esserlo. Sono un individuo sensibile e garbato. E non capisco perché sempre il Foggia, sempre il mio Foggia, debba fare da fogna del pensiero. Da negazione dello stesso. Perché continua – questa gente che si, saprebbe far funzionare la macchina amministrativa, se non fosse troppo impegnata a farsi i cazzi propri, ad estendere il proprio privato oltre i limiti dell’ego di un Mishima – ad indicare nelle mie amate magliette rossonere l’aberrazione, quando non la causa stessa d’ogni distrazione, d’ogni sortilegio piombato su questa città. Indifferente come le altre, assorta come le altre. E come le altre abbandonata da chi non perde occasione di descriverla come una discarica a cielo aperto, salvo poi – da altri lidi d’approdo – indicare le urgenze a chi rimane. Ma perché dare la croce all’unica passione capace di unire, di infervorare, di far ridere e piangere? Forse proprio per questo. Perché il mondo degli algidi odia le passioni. E anche un po’ perché le passioni rovinano il ciuffo.

“U Fogg è nu squadron!”, “Pensate ai fatti seri”.
Sarà fatto.

Ma ricordatevi, amici. Quando pronunciate le o aperte in luogo delle chiuse o delle pagine della Beat generation fate ulteriore scempio. Quando scrivete versi banali e li recitate impostandovi a Ungaretti. Quando riempite di dritte tecniche Malmsteen.
Che non è colpa mia, né del Foggia, se le vostre inclinazioni non suscitano passioni.
Che non è colpa mia, né del Foggia e neanche dei miei amici, se non avete amici.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Fantastico come sempre...condivido tutto. Piero

Anonimo ha detto...

Ho 46 anni, vado in curva da oltre 30, ho letto di tutto sul mio povero Foggia, anzi, nostro povero Foggia, dalle coglionate su pseudo libri agli aneddoti falsi e strumentali, alle enciclopedie su Zemanlandia... Ma quando leggo te, mi commuovo ogni volta di piu'. Con le lacrime agli occhi, Ultras liberi !

Lobanowski ha detto...

Sono i commenti che mi spingono a scrivere. Contento di condividere le stesse emozioni.

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