08/03/19

Il disfattismo di piazza



La prima volta che ho sentito qualcuno urlare: “Faccill!”, non avevo ancora compiuto dodici anni.
Era una calda domenica di primavera. Uno sfrontato Licata si stava imponendo 1-0 allo “Zaccheria”. E i suoi esterni continuavano senza sosta a fendere una linea difensiva – la nostra – più smarrita che lenta. Almeno tre volte i loro ragazzi si presentarono al tiro, soli davanti a Stefano Ciucci, il nostro portiere. E per almeno tre volte fallirono il colpo fatale.
In una di queste occasioni, di questi più o meno frettolosi ripiegamenti della nostra difesa, con i loro centrocampisti, le loro ali, a sembrare non solo più veloci, ma anche più giovani dei nostri, che la folla attorno a me parve sbandare dalla retta via della fede. E qualcuno – il primo, a memoria – gridò: “Faccill!”.

Il bello è che “faccill!” può significare tanto “Faglielo!” che “Faccelo!”.
E nella distanza tra la seconda e la prima plurale, c’è un mondo.
Non solo. “Faccill!” è tanto un imperativo quanto una preghiera. Un’invocazione pura e semplice.
La voce del tormentato che implora al boia: “Finiscimi!”. O: “Finiscili!”.
Decine di altre volte, in questi successivi trent’anni, ho visto ripartenze avversarie. Sullo zero a uno al quinto di recupero, in tre contro uno, alla disordinata ricerca di una vittoria che sfugge allo scoccare dei novanta regolamentari, col Gualdo Tadino come con la Juventus al “Delle Alpi”, in inferiorità numerica e al primo turno in Coppa Italia. E altrettante volte, da arnie talmente distanti e disambigue da non metterci la mano sul fuoco, ho sentito qualcuno urlarlo. Urlare: “Faccill!”.

Gridare, in sostanza, all’avversario di farla finita. Di troncare l’insopportabile esercizio della speranza. Di seppellire un colpo di pistola nel nostro dolente cuore di amanti respinti. È il segno della resa, non c’è dubbio. Io, personalmente, lo detesto. Perché detesto chi molla, chi chiede pietà, chi si dichiara vinto. Dalla sorte e dall’undici avversario. Ma è il paradigma di quel che siamo. E devo riconoscerlo. Come un tratto sporgente, montuoso, della nostra piana morfologia collettiva. Un rilievo, come una vena azzurra sull’avambraccio. Noi – e in questo noi c’è l’intera piazza XX settembre la sera del Venerdì santo, a prescindere da come la si pensi – siamo gente che non sopporta il dolore. Che preferisce morire pur di non soffrire. Umorali, lunatici, indolenti. Probabilmente incapaci di slanci stoici. “Meglio soffrire per poi gioire”, c’era scritto in Sud. Vero. Ma questo, come al solito nella storia umana, riguarda una minoranza. Foggia, di solito, non soffre con dignità. Foggia s’abbatte. Di colpo. Di botto. Come un albero o l’impero romano. Perché sente un condizionante peso sullo stomaco ma non vuol farsi vedere in lacrime. E allora spegne la tv. O cambia canale.

Prendete questi giorni. Il vertice alto di un mese febbrile, con tre finali e una sosta forzata da qui ad aprile. E l’incubo di una crepa che s’apre ogni settimana di più, fino a divenire sentore di voragine. Il fantasma della retrocessione, dopo due soli anni di cadetteria. Il presagio della retrocessione, quando quel giorno in piazza Cavour eravamo forse 60 mila, pronti a marciare sulla Serie A, sull’Europa, sull’universo-mondo. Prendete la sofferenza che proviamo, tutti. E l’impazienza che, da mesi, ci spinge a dire che la prossima è risolutiva. E poi la prossima diventa passato e la miccia s’è fatta più corta. E ci resta in mano. Prendete le paure di non limitarsi a retrocedere. Prendete il terrore di fallire. Di scomparire. Di ritornare a vivere la stagione all’inferno: le estati trascorse in corteo o sotto i portoni degli avvocati, mentre il resto del mondo “normale” va in cerca di sesso facile a Gran Canaria. Ed ecco che Foggia reagisce come sa: sbroccando. “Muoia Sansone con tutti i Filistei!”. “Magari fallissimo! Ricominciamo tutto da capo! E avast!”.

Ognuno di noi ha – in questi giorni – Whatsapp intasato di vocali da quattro, cinque o sei minuti, in cui perfetti sconosciuti svelano ad altri perfetti sconosciuti la verità sulla situazione societaria e sugli arcani invisibili agli occhi. Ognuno di noi ha saputo da voci senza volto che la proprietà ha intenzione di cedere a fine anno, che la squadra sarà consegnata al sindaco, che a giorni prendiamo i punti di penalizzazione, che l’anno prossimo – se tutto va bene – si riparte dalla Serie D. Qualcuno ha detto che i Sannella si son fatti prestare 350mila euro da Pio e Amedeo. Stamattina al chiosco della frutta davano per scontato il commissariamento. È il “faccill!”. Sotto sembianze che travalicano il campo da gioco, sotto le mentite spoglie del pourparler, Foggia – messa dinanzi alla prova della sofferenza, all’attesa dei novanta minuti di Lecce e poi agli altri – si ritrae, rifiuta il dolore che sa che proverà e invoca la mannaia. Facciamola finita!, dice. E spuntano i disfattisti, quelli che sanno perché hanno origliato e quelli che non sanno e inventano catastrofi. Così. Per il gusto di scatenare il panico, la reazione emotiva irrazionale, il suicidio di massa. Il disfattista è una voce che ti dice che è inutile battersi, è inutile lottare, tanto è tutto già scritto, tutto già deciso. Il disfattista prende in giro la tua credulità, si fa beffe del tuo coraggio. Ti vuole simile a lui. Ti vuole disfattista. Ti vuole portare ad urlare con lui: “Faccill!”.

È la grandezza e la miseria di questa piazza. CapacIl disfatte di soffiare alito d’inferno sul culo di quegli interpreti senza i piedi buoni, ma col cuore dalla parte giusta, e di trasformarli in idoli. E di sprofondare – e far sprofondare chiunque – in un dirupo di scetticismo, di dramma, di apocalisse. Voi che vivete a Trento, ad Asti, a Sondrio, immaginateci così: gente che mentre i governi entrano in crisi e crollano; mentre la Cina testa i suoi missili nel Mar di Taiwan; mentre l’OCSE rivede al ribasso i dati della crescita nazionale, ascolta vocali. E si sconforta. E per lo sconforto, vorrebbe che la Terra finisse, giù di botto, col Foggia calcio.

Postilla

Da foggiano, capisco. E una parte di me riesce persino filosoficamente ad ammettere certe cadute dell’animo. Ma non scherziamo proprio! La Serie D non è mai un nuovo inizio. E se a noi è sembrata bella e bellissima – ammesso che possa essere bella e bellissima una cosa seguita da poca gente – è stato perché ci è andata di culo. Perché un conto è incontrare il Sant’Antonio Abate una volta: ci sta la goliardia, il divertimento del viaggio, l’allegria immotivata. Un conto è andare a Sant’Antonio Abate tutti gli anni, per anni, con la stessa cadenza d’un fedele a Santa Rita. Non scherziamo. Che la stagione di D è stata foriera di decine di aneddoti divertentissimi: il trenino di Santa Maria Capua Vetere, l’acquazzone di Nardò, il Vomero. Indubbio. Ma quasi nessuno ricorda cosa abbiamo fatto a Battipaglia, d’inverno, trasferta vietata, in quella fase del campionato in cui sapevamo già che sarebbe salita l’Ischia. Non cercate su Wikipedia, rispondete al volo. Se ne avete il coraggio. E smettetela di infondere paura. Spalla a spalla, teniamoci la categoria sul campo. Che ci serve più dell’aeroporto. 



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