08/10/19

Cosmonautica


Il video del gol di Tortori è già un classico della cinematografia sportiva contemporanea.
Nella versione adrenalinica commentata da Antonio Di Donna, in quella – per certi versi ancor più soddisfacente – di Studio 100, coi commentatori tarantini che smorzano la voce e il fiato come dopo un pugno nello stomaco; nelle varianti amatoriali dalla Sud, dalla Nord, dalla gradinata, dalla tribuna, dal palazzo di viale Ofanto angolo “Il pneumatico”, dal drone di stanza sullo “Zaccheria”.
Quarto di recupero, rinvio del portiere, Taranto – in dieci da cinquanta minuti – che occupa militarmente il centrocampo in vista di una “spizzata” verso una punta, che non si sa mai, oppure semplicemente per tenere il pallone lontano dalla propria area; un rimpallo, un giocatore in maglia rossonera che stoppa e ne lancia un altro, in uno spazio sin lì inimmaginato; il difensore tarantino che si protende, inciampa, prova a reagire, cade; il nostro solo davanti al portiere, lo stadio che trattiene il fiato, la palla che sfila di lato ai guantoni, lo stadio che sbotta come uno sbuffo vulcanico. Da noi, in una stanza, nella stessa stanza di sempre, sembra Agodirin a Benevento.
Il gol nel recupero. In un derby di D e senza tifosi ospiti.
Probabilmente è questo il metro di giudizio di una passionalità mai sopita. Irriducibile e non perimetrabile. Il momento esatto in cui, smessi i panni del difensore della Mentalità, ti ritrovi nudo con quel che realmente provi. Senza infingimenti. Senza paludamenti. Senza stronzate.

Di mio, ci penso spesso. Fisso lo schermo che si carica di passaggi in orizzontare troppo indietro o troppo avanti rispetto al compagno di squadra, di falli laterali, di cross sbagliati, e provo a sovrapporre a quel che vedo quel che vedevo. Mi dico che è lo stesso rettangolo verde di Roccotelli, di Stimpfl, di List e di Marsan, la stessa curva dello striscione del Regime con le lettere squadrate ed arrotondate, lo stesso stadio delle gradinate nude, la stessa città. Gli anni cambiano le mode, le mode influenzano gli anni. Ma dietro quegli sponsor, quei seggiolini colorati, quegli effetti sonori, c’è ancora quel che era. Mi dico. E provo a convincermene. Anche quando è oggettivamente difficile pensare che quel che c’era possa essere sopravvissuto. Che un Tormen, un De Marco, un Englaro, un Seno, possano essere riproducibili nella scala discendente del tempo. A volte, lo ammetto, non ci vedo niente, vedo solo il presente. E resto deluso. Ma, altre volte, c’è una squadra in inferiorità numerica che sbaglia lo schema sul rinvio dal fondo, una carambola, un lancio ed un uomo in maglia rossonera solo davanti al portiere. In quell’attimo – l’attimo del soldato – il procedere insensato dei secondi, si blocca. Il tempo, lo sciocco tempo, si curva come un televisore degli anni Ottanta. Mentre Tortori, che non so ancora veramente chi sia, sta per tirare, il mio pensiero finisce risucchiato. Un’esperienza extracorporea. Una di quelle storie sui moribondi che rivedono la loro vita in un flash.

All’improvviso non c’è più stanza o gente che scatta in piedi. Sono in via Caldara, una traversa di Via Vittime Civili, all’ultimo piano, sul terrazzo da cui si vede il campo di San Michele. È domenica sera, siamo in visita ai parenti e sono orgoglioso d’essere stato fondamentale per il pari su rigore del Foggia a Perugia. Marzo del 1989. Non c’è stata ancora Hillsborough, non è ancora caduto il Muro. Io e i miei amici del quartiere abbiamo una radiolina. Ci vediamo dopo pranzo e diventiamo cosmonauti, alla ricerca di una frequenza, di un’onda radio sempre variabile, sempre imprecisata. Ci fondiamo con la voce di Peppino Baldassarre, rassicurante terminale d’ogni nostra emozione, ripetitore di un sentimento condiviso e totalizzante. Una partecipazione mai più ritrovata, parzialmente svanita con lo svanire dell’infanzia. Ho provato qualche grande gioia, dopo il rigore di Onofrio Barone che riagguanta il vantaggio perugino di Manfrin. Quattro o cinque promozioni, un paio di vittorie sulla Juventus, un paio di derby col Bari. E diversi dolori, più o meno lancinanti. Svariati play-off, il play-out di Ancona, Rivaldo. E curatele fallimentari, fallimenti, dilettantismo. Il mio cuore ha sempre retto fieramente, fieramente issato sul vessillo rossonero, di sconfitta in sconfitta. Vittorie comprese. Eppure, nonostante le feste e le tristezze, non ho più provato quella frenesia della radiolina. Del gruppo attorno alla saltellante frequenza con Foggia tutta intorno. La differenza tra l’infantilismo e l’infanzia. Non ho più provato l’orgoglio di quella visita ai parenti in cui sembrava che fossi lì lì per chiedere tributo ai grandi: il tributo che si deve a chi è stato determinante. Gli ultimi anni sono stati all’insegna di altre urgenze. Il gruppo è cambiato. È diventato anagraficamente adulto. Si è parlato di presenze, di incontri e di scontri, e poco di calciatori e di calcio giocato. I tempi dettano le priorità. Ma poi, al quarto di recupero, c’è un portiere che sbaglia un rinvio, un centrocampo affollato che sbaglia la “spizzata”, un lancio che sotterra il difensore ed uno sconosciuto con la maglia rossonera solo davanti all’estremo difensore del Taranto. C’è un gol, c’è un urlo. E, d’improvviso, svanisce la categoria e si trascina con sé l’età, il contegno ed ogni ragionamento serio sul nostro apparire di questi anni. E ritornano tutti, come una sfilata di rilucenti ricordi, ad incarnarsi in quella maglia che corre sotto la Nord. Ritorna Barbuti, ritorna Porro, ritorna Lunerti. Ritornano in vita i caduti di Sheffield. E pure qualche pezzo di Muro. Ritorna l’infanzia perduta. Urli come un matto, come se nulla avesse più importanza. E tutto ricomincia. Dal principio dei tempi.
Ammettiamolo: niente al mondo è più entusiasmante.

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