14/04/09

Dalla strega in carovana

di Lobanowski 2

Sabato 11 aprile, Benevento-Foggia 1-1

Il fetido cortile ricomincia a miagolare, l’umore è quello tipico del sabato invernale.
Fuori tempo massimo. Ad alzare lo sguardo al cielo si annusa l’incipiente beltempo. Oggi mostriamo la maglia, ne sono quasi certo. Siamo a Pasqua. Il giorno che per i cristiani anticipa la Resurrezione. Alte le Rossonere. Sono scesi da Torino, da Bologna, da Roma, i pirati. Gli altri si fanno sentire telefonicamente, da Modena, da Napoli. Saremo tanti. Anche troppi, secondo Fabio. “Meglio quando siamo tra intimi”, mi confida, navigato com’è alle trasferte da cento elementi scelti. Condivido. Ma Foggia è città terrestre, vissuta di passaggio. Gli stanziali, qui tra le vecchie mura, se vogliono studiare architettura o anche solo evitare di vivere coi genitori fino a 35 anni, evaporano. Ascendono ai cieli della Repubblica. E quando ritornano, alle feste comandate, la festa è ininterrotta.
Giù in strada per fortuna, sono ancora tutti vivi, l’oroscopo pronostica sviluppi decisivi.
C’è Daniele che s’è disperso, come un alpinista sulla Cordigliera. Il nostro bar è aperto dalle undici. Patrizio ha riempito il muletto. Negroni fatto in casa, miscela terrifica tipica del weekend, Borghetti nei bicchierini di plastica, Amaro Lucano incalzante. Siamo in ritardo sulla tabella di marcia. Facciamo conto si tratti di una sosta, a 95 chilometri dalla meta. L’autoinganno gentile. L’ultimo autogrill, tra le pareti amiche. Non ci contiamo. Benevento è una di quelle trasferte fuori porta che attirano, evocano, sublimano il senso d’appartenenza. Carovana di macchine. Prima tre, poi quattro, poi cinque. E il tasso alcolico sale. Le bandiere, fedeli compagne di viaggio, arrotolate alle aste nell’abitacolo della monovolume di Jordan. Spettacolo. Andiamo in scena al “Santa Colomba”. Andiamo a conquistarci un pezzo di play-off. A rimirar le stelle.
Guidiamo allegramente, è quasi l’ora delle streghe, c’è un’aria formidabile le stelle sono accese.

Sia lode alla mezzeria. Alla striscia bianca che divide la carreggiata. Al fascino dei colli, che s’inorgogliscono al nostro passaggio. Una pipì trattenuta diventa una pisciata naturalistica. Alla piazzola di sosta. Il rombo delle macchine che sfrecciano fanno da involontario sottofondo alla campagna verde e gialla. Ai profumi della bella stagione. Penso agli scavi, ai castelli sepolti, agli scenari che vorrei fotografare. Si punta al Sannio, terra eroica e storicamente sottovalutata. Insomma, questa gente fece calare il capo ai romani alle Forche Caudine. Sembra ieri. Imponenti, i monti affiancano l’autostrada. Lode allo svincolo, all’uscita. La carovana è un miracolo della natura, al pari del grano, delle macchie d’olivi. Sono leggero, felice, quasi emozionato.
E sembra un sabato qualunque, un sabato italiano, il peggio sembra essere passato, La notte è un dirigibile che ci porta via, lontano.

La città ci accoglie con un intreccio di soprelevate, che sembra Potenza. È una città tranquilla, Benevento, finanche benestante, secondo alcuni. La Svizzera della Campania. C’era un gemellaggio, un tempo, coi tifosi giallorossi. Poi le cose sono cambiate. La loro amicizia con gli odiatissimi napoletani ha incrinato i rapporti. Anche se non fino al limite della drammaticità. Ci incolonniamo e a destra e a sinistra scorrono lentamente le macchine dei padroni di casa. Ci guardano, qualcuno sorride. La partita va in diretta su Rai Sport Sat, è l’evento clou della giornata di Prima Divisione. Terza contro sesta. Dal finestrino vedo lo stadio. Uno stadio vero, il “Santa Colomba”, un tutt’uno organico, senza rimaneggiamenti e giustapposizioni. Tondeggiante, come un tempo avrei voluto lo “Zaccheria”. Sbagliamo strada e finiamo sotto la curva di casa. Lo notiamo dai murales. Una vigilessa ci richiama alla strada giusta, ci indica il percorso. È gente tranquilla, questa, disponibile fino all’apparente umiltà. Un tornante e ci si apre davanti il parcheggio di una scuola, ricovero delle autovetture e dei furgoni giunti dalla Capitanata. Abbiamo il pallone in macchina, lo stesso di Civitella, ma manca poco all’inizio. E c’è ancora tanto da fare. Ci incamminiamo senza giocare.

Alle porte la celere sembra equilibrata. Del resto, siamo al Sud, dove certi fiscalismi stonano. Angelo spalanca il suo stendardo personale. I poliziotti leggono, traducono, poi sorridono. “Che significa?”, chiede avvinto e incuriosito un superiore nordico. “È un apprezzamento all’organo femminile”, risponde Angelo. Quello ride, ma gli chiede di tagliare le aste. I nostri vessilli passano ancora finemente ripiegati, come cuscini di battaglione. Ma ci areniamo sulle canne da pesca. Troppo grandi, dice un poliziotto grosso con tanto di casco. La trattativa è blanda. Rinunciamo, anche se io provo ancora ad estorcergli qualche malumore: “Le riportiamo in macchina, ma ammetterà che è assurdo”. Gli occhi si incrociano, come a dire: sappiamo entrambi come stanno le cose. Daniele, che è riuscito ad arrivare, brandisce le due canne dirigendosi verso la Digos. “Ce le tenete in macchina?”, chiede, abusando di confidenza. L’agente indica l’erba, Daniele le deposita con cura. Sarà l’ultima volta che le vedremo. Il settore è angolato, sulla destra, verso la tribuna. Chissà perché, m’aspettavo la curva intera. 750 biglietti agli ospiti, il 10% della capienza omologata dello stadio. Saremo mille, preannunciava qualcuno. “Millecinque”, vaticinavano altri. Siamo ottocento, dico, ci sono spazi vuoti ai lati. Ma si capisce subito che sarà una bolgia.

Il minuto di raccoglimento ci coglie mentre stiamo ancora lavorando di scotch. Siamo più di venti, oggi, ed abbiamo una transenna tutta nostra, da sfruttare come base del trapezio, come apice basso dello spicchio. Stavolta l’applauso non parte, e la suggestione è indescrivibile. In basso espongono uno striscione sintatticamente un po’ confuso, ma l’importante è il senso sublimato. Per quel che può contare. Le squadre a centrocampo. Il grido sincopato. Forza Foggia, Vinci per noi. Alto, altissimo. Rimbomba sotto la copertura della tribuna, ritorna. La gente ci guarda, come fossimo noi lo spettacolo. E così è. Forza Foggia la curva è con te. Sciarpe e bandiere, un timido sole, un calore afoso dal basso. Le magliette, come previsto, si moltiplicano all’aumentare della temperatura. Mezzemaniche. Fanno un bell’effetto. In casa e fuori è sempre grande festa. In campo sembra la replica della partita di Arezzo. Il Foggia alza un muro a centrocampo, s’impadronisce del pallino del gioco, ma addormenta la gara, la controlla. È importante non perdere, anche se vincere ci spedirebbe in orbita. Col passare dei minuti, progressivamente, minimalisticamente, i nostri alzano il baricentro. Fino al gol che l’arbitro annulla, lasciando agli opinionisti di curva il dibattito sul perché. Era di spalle, la giacchetta nera, stava indicando il recupero. Termina zero a zero, il primo tempo. Ma sugli spalti, siamo in netto vantaggio. Ci tengo a vincerla, questa seconda sfida. All’andata qualche amico d’amici beneventano sottolineò la buona prestazione dei suoi. “Chi giocava in casa?”, chiesero. Beh, oggi siamo qui per espugnare il “Santa Colomba”. E all’intervallo risulta chiaro che lo stiamo già facendo.

Il Foggia ha scelto una strada diversa, tortuosa. Controllare il match, senza aggredire. Stordire l’avversario fino all’impotenza, renderlo inconcludente e spingerlo alla disperazione. Poi, magari, colpire. Ma al primo calcio da fermo, una punizione dalla destra, vedo la palla spiovere su Evacuo. Vedo l’attaccante saltare e colpire, con forza e precisione. Il boato dello stadio prende alle spalle. Siamo sotto, e per l’ennesima volta, siamo quasi finiti. Il boato continua, smorzandosi un po’. I giocatori giallorossi si abbracciano. Noi alziamo il coro, riprendendolo da dove era caduto. Finisce la partita, comincia l’epica. Quella che si impossessa dei fusibili invisibili quando la corrente ti soffia contro, il mulinello ti chiama giù, le sabbie mobili ti risucchiano. E tu resisti, in piedi, mentre un ragazzino ci fa il gesto dell’ombrello. In tutta onestà, non ci credo. Non credo recupereremo. Il Benevento è squadra organizzata, con una difesa stabile e solida. Non ci crede quasi nessuno, attorno a me. Ma c’è quella seconda partita, quella degli spalti, da onorare e vincere. E conta quasi più di quella sul campo.

Jordan mi guarda di traverso, con espressione corrucciata: “Senti anche tu ‘sta puzza di bruciato?”. Io annuso, poi annuisco. Si. “Sta prendendo fuoco qualcosa”. Mi guardo attorno. Poi mi viene il sospetto che ad ardere, magari per via di un mozzicone, sia la bandiera che giace sul gradone. Mi volto, comincio ad armeggiare. Mi piego sulle ginocchia, spalle al campo, per distendere la stoffa sospettata, alla ricerca del buco. E la curva mi frana addosso. Assisto, girandomi di scatto, al volo di Mattia e alla cavalcata delle file retrostanti, che passano all’avanguardia. Abbiamo segnato, non ci vuole molto a capirlo. Giuseppe quasi piange. Ripete: “Che cosa ha fatto, che cosa ha fatto”. Parla di Troianello, del gesto che è valso il pari. Una rovesciata, pare. Ma non c’è tempo per questo genere di cose. Devo provare a tenermi in equilibrio, intanto grido, come se del gol avessi avuto sentore. In realtà, l’urlo è legato alla rete che si gonfia, ma tant’è. Cado. Cadono tutti. Il Foggia è sotto il settore. Il boato non finisce più.

Recuperiamo l’auto al parcheggio, avvolti da una litania irripetibile. Un ragazzino allo svincolo si avvicina alle macchine in coda per chiedere di scambiare la propria sciarpetta del Benevento con una delle nostre. Diniego, grazie del pensiero. Pochi chilometri di superstrada ed entriamo a San Giorgio del Sannio, alla ricerca di un bar che individuiamo alla fine della strada principale, dopo un abbozzo di piazza coronata da una struttura palladiana. Otto maglie della Ciurma su dieci presenti. Un signore anziano prende il sole immobile e costringe il nipote a sognare la libertà guardando altrove. Una ragazza al banco. Avanza Antonio il Bolognese: “Ciao, ci servirebbero una scarica di pizzette e svariate birre, a prezzi ultras”. La ragazza risponde strizzando l’occhio. “Me la vedo io”. Ci accomodiamo all’aperto. Dinanzi a noi, la locale sede del Partito della Libertà. Deriva messicana, alla Garcia Marquez. Noialtri, i peones di turno, ci abbandoniamo all’aneddotica. È uno di quei momenti di leggerezza per cui vale la pena fare ogni sforzo. Sabato di Pasqua, relax prefestivo, soddisfazione per il fiato che ancora ci tiene in vita, a 2 punti dalla quinta. I bambini giocano a pochi passi da noi. Un primo coro, a far sorridere chi ci sta attorno. “Anch’io sono stato allo stadio – ci comunica un signore – e questo punto non serve a nessuna delle due squadre”. No, a noi si. È scettico. Secondo giro di Heineken, seconda scarica di pizzette. I cori si moltiplicano. E quando torniamo alle macchine, con la piena luce del Sannio ancora a strapiombo, diventano volanti, urlati dai due abitacoli simultaneamente, mentre ripercorriamo la strada a ritroso. Noi siamo qua, Sempre con te, Unica fede in tutto il mondo intero, Io canterò, Ti sosterrò, Ovunque andrai, Us Foggia. Un anziano si ferma per farci passare. Noi non siamo napoletani! Quello ascolta e ci indica. Un po’ sorride.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

spettacolo ultras... commovente il sostegno sotto d'un gol... in casa o fuori è sempre grande festa... d'impatto la ciurma... magliette sfoggiate, gruppo compatto, bandiere, calore, colore... dai ciurma... IL FOGGIA SIAMO NOI

Mr STRAmy ha detto...

Sto preparando lo stendardo da usare a fine partita in caso di sconfitta:

CIANNO SFONDATO

Il Libro