21/04/09

Doppio Taranto

di Lobanowski 2

Domenica 19 aprile, Foggia-Taranto 2-0

I walk a lonely road, The only one that I have ever known, Don't know where it goes, But it's home to me and I walk alone
. Non so perché mi tornino in mente in Green Day. Dev’essere dovuto al sonno. Cinque ore e mezzo di riposo sono blande per una domenica mattina. Ma il sole è metaforicamente già alto e la luce – anch’essa metaforica – inonda la stanza. Non c’è da perder tempo. I walk this empty street, On the Boulevard of Broken Dreams, Where the city sleeps and I'm the only one and I walk alone. Devo averla sentita in macchina stanotte, o da qualche parte ieri sera. Come che sia, non è un bel segnale. Qui di sogni da coltivare ce n’è un gran bisogno. “Io ho scoperto che non potrò esserci all’andata dei play-off”, fa Daniele. Facce deluse, mormorii di disapprovazione, cazzo. “Ma tu come fai a sapere che ci saremo ai play-off?”, provo a domandare, così, più per saggiare il terreno che per altro. Ignorano l’eventualità, mi bypassano. Provo a spiegare ciò che già sanno tutti. Fosse per me, vivrei in un eterno girone meridionale di terza serie. Ma giacché continuerebbero a proibirci tutte le trasferte più sfiziose, allora tanto vale provare Vicenza, Brescia, Grosseto. Senza contare che le quattro partite dei play-off allungherebbero di gran lunga il divertimento, allontanando di quattro settimane il tedio estivo. È deciso, si va ai play-off. Il tempo di svuotare i cicchetti. My shadow's the only one that walks beside me, My shallow heart's the only thing that's beating.

“Siamo undici!”. L’urlo ossessivo di Benevento risuona anche al chiosco, mentre il tempo volge al brutto e la pioggia comincia a infastidire. Ma stavolta siamo di più. C’è Valerio, che è sceso da Modena. C’è anche Juan, che ha concluso il suo giro di consegne. L’abbiamo adocchiato mezz’ora fa, ci è sfrecciato accanto senza neppure salutarci. Aveva fretta di arrivare, aveva fretta di aspettare. Lo raggiungiamo e ci offre un giro di amari. Solo il giubbino inganna la sua mise da pasticcere. Pare siano sbarcati dei tarantini, in città. È una leggenda metropolitana, come quando si narrava dei due napoletani uccisi a corso Giannone, quindici anni orsono. Solo che allora la notizia la diede Teleblu e stavolta anche il popolo è più cauto nell’accettarla. Di sicuro c’è che Antonio mi telefona per ragguagliarmi sugli screzi tra giornalisti in sala stampa. L’acredine coi tarantini è forte, e ci sono certamente anche strascichi dalla gara d’andata. Un tempo non era così. Diciamo che non sussisteva nessun motivo di confronto, regnava l’indifferenza. Ma un tempo eravamo amici dei leccesi e dei beneventani. E, lo dice anche il Maestro, “il tempo cambia molte cose nella vita”.

Solito posto, solito schieramento. Entriamo che il lanciacori sta facendo alzare tutti. Scuotersi, che la partita va ad iniziare. Sguardo circolare, rotatorio. La curva è quasi piena, nonostante la pioggia e la diretta su Puglia Channel. Il resto dello stadio, non so. Non lo guardo quasi mai. Il Corriere parlerà di duemila paganti. Che non è malaccio per la situazione miserevole in cui versa il nostro calcio. E non parlo del calcio foggiano. Di fronte a noi, la curva vuota fa tristezza. Le squadre entrano in campo, le mani si alzano, le bandiere si fissano al vento. Noi siamo qua, Sempre con te. Il Foggia attacca sotto la nostra porta. Uno striscione della gradinata ricorda le vittime del terremoto. Uno, dietro di noi, ci racconta del gemellaggio tra gli aquilani e i baresi. I commenti sono sfuggevoli. Piove con maggiore insistenza, una pioggia fitta e fredda. Cappucci e t-shirt convivono, metafora dei capricci del clima. In basso è più divertente non capire. Sommersi dalla voce sfilacciata della curva, che si fa alta quando i nostri premono. Ma non c’è verso di sbloccare. Anzi, è il Taranto a sfiorare la rete. Io sono sereno. Non ci succederà nulla. E, Green Day a parte, non ho i tristi presagi della sfida col Perugia.

La Tourtel che mi giunge tra le mani emana un odore di pomodori. Come quando mio nonno, alle prime luci dell’alba, saliva sul terrazzo condominiale per fare la salsa. “È analcolica”, ha detto qualcuno al banco, con punte di spavento nella voce. L’ha rovesciata indietro al primo assaggio, sulle file posteriori. Mi è arrivata dopo una specie di catena umana, di quelle che si organizzano nei cantieri. Ne ho buttato giù due sorsi per accompagnare una sigaretta. Dall’imbocco della Sud si vedono le teste dei giocatori in campo. Hanno ricominciato. Ascendiamo. E quando il Foggia passa, su rovesciata di Salgado, il boato si trasforma nel più desiderato, ambito, tirato dei cori: Che confusione, Sarà perché ti amo. Canto e mi accorgo che in tanti indicano la tribuna stampa, come si fa da sempre quando il nemico è oltre lo schermo, contenuto nell’obiettivo di una telecamera in rec. È un’emozione, Che sale piano piano. Stingimi forte, E stammi più vicino, E chi non salta, è sporco tarantino. Bellissimo, sentito, commovente. Ripensiamo ai colleghi, ai nostri omonimi. E per poco non parte da noi un coro che ricorda la diossina. Potenza del politicamente scorretto e dell’aggregazione da curva. Ieri eravamo in piazza Garibaldi, a Taranto, a stringerci attorno alla città violata; oggi balliamo sulle sue rovine. Verrebbe da tracciare qualche distinzione, che il mondo è pieno di moralisti, di esperti, di tuttologi benpensanti. Sabato, all’Olimpico di Torino, i cori razzisti nei confronti di Balotelli sono stati scanditi da migliaia di persone. In sede d’analisi, i due opposti si contendono il prime-time televisivo: quelli che sminuiscono, perché sminuire è il loro sporco mestiere, e parlano di semplice sfogo semibestiale, di logica dei ruoli, di scherzo di pessimo gusto. Ed allontanano, allarmati, i sospetti di razzismo dal “civile pubblico torinese”. Dall’altra, quelli che tutto amplificano. Perché amplificare è il loro sporco mestiere. E nella loro disamina scandalizzata, la curva diventa il luogo del privilegio, dell’abuso, la serra libera dove tutto è concesso e nulla è etico. Lo sfogatoio legalizzato, panem et circenses. E, di bocca in bocca, al secondo passaggio siamo già all’invocazione di pene più pesanti e sicure, all’idea dello stato d’emergenza. Come se questo Paese non riuscisse a giudicarsi se non giudicando le sue curve. A Torino, come a Milano o a Roma, c’è la società su quei gradoni. Sezionata, come durante un’autopsia. C’entrano gli istinti, certo, c’entra il senso titanico di rottura d’una correttezza che è feticcio inapplicato. C’entra il razzismo e la sottovalutazione dello stesso. Da parte dei media, delle società, dei razzisti stessi. Perché non si sveglia il cane che dorme. E di razzismo ci si guarda bene dal parlarne nei casi di ordinaria violenza, di recrudescenza. Mentre diventa la prima ipotesi plausibile, se non l’unica, quando si discute di stadi. Come se il dentro e il fuori fossero due cose diverse. Come se l’accusa al recinto non riguardasse il resto del mondo, che deve rimanere incontaminato per ispirare brutte poesie alle anime belle. Razzista io che grido “nomade!” ai pescaresi? Razzista la mia dolce metà, che all’Opera Nomadi presta servizio? Ma si, liberi di crederci. Tanto ormai ci si capisce tra pochi. Se i tarantini avessero sentito il nostro “Solo la, Solo la, Solo la diossina, Voi c’avete, Solo la diossina”, avrebbero fatto un ghigno. E c’avrebbero risposto cantando che siamo dei colerosi, degli appestati, dei contadini. Come tra qualche domenica canteremo agli aquilani, gemellati coi baresi, che sono dei terremotati. I peggiori istinti, certo. Ma anche la voglia di farla finita col lutto e il suo culto. E la gabbia solidale. Perché il cinismo rovescia i termini dell’imposizione in una strana libertà criminale. Goliardica, nel senso più feroce e liberatorio del termine. Stasera telefono a Bachtin e gli sottopongo questa mia lettura degli eventi. Vediamo che mi dice.

Una volta mio padre, in compagnia di Mimmo il meccanico, proprio davanti al portone di casa, cercava di spiegare ad un ragazzo africano, di quelli che volgarmente si chiamavano Vu’cumprà, che Mussolini è stato il più grande politico che l’Italia abbuia mai avuto. Quello annuiva, fintamente interessato. Mio padre non è un razzista, sia chiaro. Ma un fascista, si, per sua stessa ammissione. E il secondo termine porta a spiacevolissime conseguenze. A mio padre i neri dell’Africa nera stanno simpatici. Perché sono lavoratori, dice. Perché non si ubriacano, non danno fastidio alle donne e si fanno i fatti loro. In tanti la pensano così, e perdono le giornate ad allontanare le accuse di razzismo perdendosi in sottili distinzioni etnografiche tra albanesi, polacchi, rumeni e marocchini. A loro favore, portano esempi mediatici, racconti di terza tacca ed enumerano il numero di neri che loro stessi conoscono e frequentano. “Ho un sacco di amici neri”, ripetono. Come se l’amicizia fosse un dovere d’ospitalità a cui il nero deve sottoporsi. E senza riuscire a distinguere un nero dall’altro. Non sono razzisti, per carità. Perché, lo dicono tutti, essere razzisti è sintomo d’ignoranza. È una brutta cosa. E loro, che non sono ignoranti, le brutte cose non le fanno. In realtà, la giustificazione è peggio della premessa. Malcolm X, che non era un fesso qualsiasi, parlava dei “neri da giardino” per indicare quella variopinta genia di ospiti di cui l’uomo bianco gradiva circondarsi. Gente che risponde agli input delle aspettative. I neri sono lavoratori e si fanno i cazzi loro, dicono i non-razzisti di casa nostra. E così dev’essere, sempre. Una caratteristica immutabile che somigli al cliché. Pena, la fine della tolleranza ipotetica. Balotelli è antipatico, riferiscono, sta sul cazzo a tutti. Ergo: ha smesso di essere un nero da giardino. Non va bene affatto. Non può permetterselo. Deve ricordarsi di essere sub-judice, debitore della bontà dei bianchi. Che possono smettere d’essergli amici e farglielo ricordare. È questo il significato del sabato torinese. Volete che una cosa del genere riguardi solo le curve degli stadi?

Il 2-0 del Foggia è un gol fantasma, ma va bene così. Ultimamente la sorte sta soffiando nelle vele del sogno. A partita finita, mi rendo conto che non mangio da un giorno e mezzo. Ma prima d’addentare il meritato panino, apro Facebook. E saluto i compagni di Taranto. Guardateci le spalle, è il messaggio. La vita è fatta di priorità.

1 commento:

oldwarrior ha detto...

grazie per il favore. ora speriamo anche noi di far vedere loro le nostre spalle...
ciao! oldwarrior

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