06/04/09

Il bivio e i ceci

di Lobanowski 2

Domenica 5 aprile, Foggia-Perugia 2-1

Il bivio. A livello esistenziale, una lacerazione, uno sconquasso, un dilemma da evitare. Nell’esistenza di un tifoso, l’essenza. Ricercata, inseguita, pedinata. Stati d’adrenalina pura, quando ti capita di pensarci e ti si blocca lo stomaco. E l’ansia monta, come una marea di detriti.
Una settimana trascorsa in apnea. A fare le bolle a filo d’acqua.
A galla, oltre la battigia, il contingente di parolai anfibi, intento a traslocare. Da un carro all’altro, per l’ennesima messinscena della Ragione contro il Torto. Laddove il Torto perde. Ed ha torto per questo. È stata una stagione strana, questa, attraversata senza picchi di entusiasmo e senza baratri di delusione cocente. Si è passati con naturalezza dagli insulti di Potenza alla gioia breve di Castellammare, dalla fiducia crescente di Taranto e Cava allo sconforto del doppio pari interno con Foligno e Pistoiese. Un tagadà frigido, coi giornalisti impegnati a fiutare il vento, a provare ad anticiparlo. Anche in questo, senza talento. Arezzo ha rappresentato un punto di svolta.
S’è quasi acquisita, domenica, la certezza che non ce la faremo, che trattasi realmente – così come annunciato da luglio – di stagione di transizione. E in tanti, sopraffatti da questa consapevolezza, si sono dati alla pazza gioia. Una settimana di studi televisivi affollati, di godimento ed estasi, nel più meridionale dei crogioli fintamente dolorosi.
Quell’opinionista sovrappeso ha fatto il pendolo per mesi. Vagonate di letame da scaricare il venerdì e scuse ruffiane da presentare lunedì, alternativamente. Per darsi un tono da esperto. Poi s’è deciso. Ha sparato sulla tifoseria. Su noialtri, nello specifico, che alla fine della gara di Arezzo abbiamo cantato per incitare l’undici sconfitto. Non hanno più le palle di contestare, ha detto, in sintesi. Gli stabiesi, che hanno lasciato la squadra in mutande dopo l’1-0 patito a Pistoia, quelli si che sono cazzuti. Guardano la classifica dallo sprofondo, però. Allora va a finire che cazzuti sono gli aretini, che vanno in cento allo stadio con la squadra quinta e contestano a 44 punti. Ad un passo dai playoff. Contestare. A -6 dal traguardo con sette giornate da disputare. Una follia. Come a seppellire lo sforzo, rompere le righe e andarsene al mare. La diserzione spacciata per coraggio. L’incapacità di soffrire esposta al pubblico h24. Come un atto di arditismo. Adombrando finanche scenari ambigui – retroscena cotti ad arte per il pasto dei dietrologi – per spiegare il mutismo delle curve. Tanto che, a furia di ripeterlo, diventa ingenuo chi non ci crede. Goebbels docet.

Otto ore di sonno pieno. In una settimana ho macinato 2.200 chilometri, tutti rigorosamente su gomma: Arezzo, Bari due volte e, da ultima, Roma, ieri. Il sole copre il vento, ma la giornata è tutto sommato primaverile. Mi sveglio con in mente un big-match di qualche tempo fa. Che poi qualche tempo sono ventuno anni. Il Foggia quinto di Pippo Marchioro, costruito per il grande salto in B, contro il Licata quarto. L’ultima spiaggia, dopo la sconfitta di Campobasso. Aria di resa dei conti. Ecco: quella partita e questa non c’entrano niente. È bene togliere ogni alibi alla similitudine. Perché allora non c’era la pay-tv, non c’era il campionato spezzatino, non c’erano alternative: fischio d’inizio e tutto in novanta minuti, con ventimila persone a soffiare sul rettangolo e un caldo afoso, sempre, anche a novembre. Perdere col Licata significava salutare i sogni di gloria. C’erano ancora quattro o cinque giornate davanti, all’epoca. Oggi è tutto diverso: di fronte il Perugia, che deve ridimensionarsi ed adattarsi ad una inattesa una bagarre salvezza da dieci squadre. E davanti ce ne sono sette, di giornate. Si deve vincere, certo. Ma per il resto, lo scetticismo ha già rotto gli argini. Saremo in duemila, forse anche di meno, allo “Zaccheria”. Fantasma di se stesso. Ci credono, ci crediamo in pochi. Non c’è la stessa epica. Eppure, quella partita mi torna in mente. Mentre, seduto al chiosco, osservo l’arrivo dei primi tifosi. Ci saranno anche i perugini.

Sono di fronte. Una trentina, qualcuno in più. In curva Sud si sta divinamente. Occupiamo la nostra fetta, innalziamo una canna da pesca di quattro metri: Jolly Roger e vessillo irlandese, ricordo del fresco contatto con i Boys (e le Girls) in Green. Guardo il terreno. Licata, mi dice la testa. Mi scuoto, allontano lo spettro. Mi muovo tra il primo e il secondo gradone, mi nascondo nel cono d’ombra del corifeo. È come se non volessi vedere, occulto la faccia alla sorte. Poco guerresco, magari, ma istinto di sopravvivenza. “Due a zero per noi, subito”. Perché vorrei muovere su Benevento, sabato, con il patema d’animo sul groppone e non semplicemente per anticipare la Pasquetta. Vorrei la strada spianata. Sei punti non si recuperano facilmente, tanto più che l’Arezzo gioca in casa col Marcianise. X2 sulla bolletta Snai. In fondo, sono quasi convinto che possa non fare risultato. Mi preoccupa la Cavese, che a Potenza potrebbe fare il colpaccio. Intravedo qualche cross, sulla mia sinistra. Niente di che. Il tempo scorre. La curva sostiene, e anche in gradinata c’è gente che incalza col battimani. Passo in rassegna i miei compagni, i pirati della Ciurma. Tesi. Licata. Mi faccio passare la bandiera e non ci penso. Benevento dista un’ora di macchina. Se dovesse andare bene oggi, quel pezzo d’autostrada diventerebbe un piccolo fiume rossonero. Un pellegrinaggio sulla via della speranza. Bellissimo. Dovesse ander male, saremmo in cinquanta. L’ho già detto ai miei, i miei hanno risposto affermativamente. Ad andare ci andremo. E così a Pagani, a Terni. Per dovere di firma, per onorare una stagione che abbiamo disputato – noialtri, sugli spalti – a buoni livelli. Un attaccante in maglia bianca gioca di sponda con la nostra difesa. La palla filtra, come nelle più precise triangolazioni: è solo davanti a Bremec. Guardo in guardalinee, come riflesso condizionato. Ci spero, ma quello rimane immobile, mentre l’attaccante supera il nostro portiere ed insacca. Un’occhiata ai perugini festanti. Licata. Licata e ancora Licata. Gialloblu, quelli, in trenta, in uno spicchio della Nord, a festeggiare un tassello della lunga marcia verso la cadetteria. Segnò La Rosa. Biancorossi questi, a sprofondarci negli inferi dell’inconcludenza. I nostri, sugli spalti, incassano. Come un gancio in pieno petto. Manca il fiato.

All’intervallo sostiamo fuori dalla curva. La bandiera fa capolino al bar. Scoramento, senz’altro. E scarse speranze. Da un paio di rumori scomposti, intuiamo che si è tornati a giocare, ma saliamo con flemma ed entriamo in ritardo. Ai nostri posti. Fino alla fine (che appare prossima anche ai più ottimisti). Poi un calcio di rigore. In tanti non guardano. Pareggiamo. Adesso è ancora peggio. Perché un punto, a certe condizioni, è più malsano di una sconfitta. Perché l’incertezza spinge all’utopia, all’idealismo. Ti porta a credere nei miracoli. Si canta, si spinge, tutti assieme, quegli intimi che siamo. Chiedo a Lello quanto manca. Mi dice “cinque” con una faccia che è tutto un programma. Scopro che è tornato Salgado. La cosa non mi rincuora. Poi, in rispettoso ossequio del più classico canovaccio thriller, il simulatore andino finge di schiantarsi su un difensore in ripiegamento. L’arbitro indica il dischetto. Di nuovo. Non ci credo, non è possibile. È un segno. il dio del calcio vuole che soffra ancora. Lo ringrazio infinitamente. Salgado va dagli undici metri. Parte. Tira. Vedo il portiere intuire. Vedo il portiere parare. La palla alzarsi, sulla destra del fronte. E tre, poi quattro persone volare giù dai gradini superiori, frantumarsi sulle transenne, ostruire la visuale. L’ultimo frame è quella di un omino in rossonero – che mi garantiranno essere Mattioli – che vola verso il pallone. Nell’unico spicchio aperto, fisso la tribuna. E il boato mi arriva addosso. Ha segnato, non so come ma ha segnato. E questo mi basta. E m’avanza. Non devo gridare, la gola è scarica e perdo la voce ogni due giorni, oramai. Meglio stringere gli occhi e rimanere immobile, impassibile. Ma dentro – dentro la testa, dentro lo stomaco – è festa. Mi sono giocato la possibilità di rimanere appeso ad un filo. Ed ora ringrazio Damocle per la sua spada sulla testa. Senza, starei infinitamente peggio.

Attendo Benevento e il suo affluente rossonero. Poi qualche pallone gonfiato dovrà inginocchiarsi sui ceci.

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