30/03/09

Come il sole a mezzogiorno

di Lobanowski 2

Domenica 29 marzo, Arezzo-Foggia 1-0

Qui non piove, ma le previsioni danno pioggia su tutto il versante tirrenico. Non me la bevo: i metereologi e le loro diavolerie stanno ostacolando i miei piani. Vogliono, per qualche ragione che mi sfugge, vedermi bardato all’invernale ancora a lungo. Impedirmi di sfoggiare la t-shirt. Le lancette sono dolorosamente scivolate avanti di sessanta minuti e, nonostante il bilancio di un sabato sera tutto sommato quieto, il deficit di sonno si fa sentire. Il furgone noleggiato spunta da corso Roma come un vecchio amico. Ci contiamo come in gita scolastica: uno, due, tre, nove. Un breve resoconto delle bandiere e della strumentazione da viaggio. Ci muoviamo, con soli sette minuti di ritardo sull’orario prefissato. Nella più ottimistica delle previsioni.
Alle 6, che poi sarebbero le 5, è ancora buio. Il clima è sonnolente e chi trova la posizione, crolla. Al ponte di Lucera, dormono già in due. E il numero tenderà ad aumentare nei primissimi chilometri di questa spedizione della speranza. Ho lavorato di fantasia lungo tutta la dorsale della settimana appena passata; ho elaborato e rielaborato il momento: immagino il gol del Foggia, l’intero settore che viene giù, il più liberatorio dei putiferi. E sento la pelle d’oca incombere. Devo scuotermi per evitare di perdermi quel sentiero parallelo, di avventarmi/annientarmi in quell’universo onirico. Il cielo tende a rischiararsi, la campagna attorno assume tonalità sempre più definite. Lo stereo a cassette è una mannaia sui nostri progetti musicali e, tra Volturara e Indiprete, le curve ascendenti impediscono all’onda sonora di stabilizzarsi. Questa strada ci è familiare. Se i nostri piani saranno rispettati, alle dieci avremo Roma sottomano. Il primo tratto è di Giuseppe e la velocità di crociera è considerevole. In meno di due ore manteniamo fede alla nostra sosta a Venafro. Ci sono 21 cornetti nel bagagliaio. Peppone ne chiede uno “con la confettura”, e tutti si svegliano in una nuvola di buonumore. Solito bar per il solito giro di caffè, solito bagno per i primi stimoli primari, solito spaccio di mozzarelle di bufala. I manifesti annunciano che è in corso il primo campionato di karaoke, mentre s’è da poco disputato il match di calcio a cinque tra Scarabeo e Real Adriatica. Chissà l’Osservatorio. Noi abbiamo pagato – in anticipo, circuito TicketOne – 13,20 euro comprensivi di prevendita per un tagliando nominale. Il barista ci chiede a quale manifestazione siamo diretti. Rispondiamo che no, che stavolta andiamo a guadagnarci il diritto di insistere. Fa due conti e ci saluta: “Ci vediamo alle nove”. All’imbocco del paese c’è un circo di palese sottomarca. La guida passa a Jordan.

Badia al Pino è un autogrill in tutto simile agli altri che lo precedono. E a quelli che lo seguono. Qualcuno ci ha detto che è meglio evitare di fermarsi lì, che la Stradale potrebbe creare problemi. Noi abbiamo deciso che, in ogni caso, vale la pena rischiare. Abbiamo messo la freccia a destra. Ci sono diversi furgoni, dentro. Pensiamo a qualche tifoseria in transito. Poco prima gli stabiesi diretti a Pistoia ci sono sfrecciati accanto. Prevarrà la cavalleria, il muto patto che ci stringe a quel ragazzo, Gabriele o Gabbo che dir si voglia, e alla sua morte assurda. Che poi, andando a stringere, con Gabbo non condividevamo nulla, se non questa assurda voglia di macinare chilometri. E tanto basta. Parcheggiamo e, non senza sorpresa, scopriamo che quelli che sostano sulla piazzola sono foggiani come noi. È un luogo tetro, Badia al Pino, reso ancor più funereo dalla pioggia sottile e dal cielo carico di nuvole nere. Due passi a piedi in direzione dell’uscita. Non c’è alcun altare spontaneo, nessun luogo della memoria. La memoria è, a prescindere, invisibile. Uno sguardo dall’altra parte della carreggiata. Cazzo. L’autogrill che ci sta di fronte, quello da dove hanno sparato, è vicinissimo. Ha mirato, ci mancherebbe altro. Ha sparato per colpire, altro che. Le macchine sfrecciano nei due sensi di marcia. Un pensiero alla famiglia, agli amici. Un brivido gelato in un rapido processo di immedesimazione. Muoversi, allontanarsi in fretta da quel posto. Fossi cristiano, ci starebbe un segno della croce. Ma non lo sono, e provo imbarazzo al commiato dall’asfalto.

Il cartello “Tifosi ospiti” indica dritto. Ci conduce ad un incrocio, ci porta a destra, poi a sinistra, poi ancora dritto. Lo perdiamo, lo ritroviamo. E sbuchiamo sulla tangenziale. Una freccia ancora a destra. Altro slalom tra le vie della periferia. Poi uno stradone. Un secondo. Un terzo. Il decreto parla chiaro: bisogna evitare i contatti tra le opposte tifoserie. Anche se le due tifoserie in questione non hanno mai avuto contatti in vita loro. E, semmai dovessero avercene, dubito che si riconoscerebbero. Fatto sta che la legge è legge. Quando giungiamo sul piazzale, capiamo che al punto di partenza eravamo alle spalle dello stadio, e che abbiamo circumnavigato il globo prima di spuntare dall’altra parte. Ci sarà la lobby dei benzinai, dietro. Al primo controllo si va con biglietto e documento d’identità alla mano, come all’imbarco in aeroporto. Apro la mia carta d’identità. Lo steward mi guarda a lungo, per carpire eventuali differenze. Penso che sia stato un bene non portare la patente, dove spicca una foto dei miei anni da capellone, interrotti bruscamente dalla calvizie frontale. Il secondo omino che m’accoglie ha il metaldetector. Suona tutto. Fibbia, cellulare, mazzo di chiavi, digitale, monetine. Ma quello ha una faccia bonaria e dice: “Vai, vai”. Sembra finita. Invece, dietro l’angolo, spunta il tornello. Alto e becero, come una Vergine di Norimberga; strumento di tortura che mi causa claustrofobia. Uno per volta. Il terzo omino di questa storia ci sussurra, con marcata cadenza toscana: “Ragazzi, non li mettete i tornelli… Sono soldi buttati”. Con noi sfondi una porta aperta, amico. Dentro.

C’ero già stato, in questo stadio. All’Arezzo Wave, una sera d’estate. C’era Kusturica, col suo palco immenso a nascondere la curva dove siamo adesso. E, guardandola per la prima volta adesso, ammetto che aveva le sue buone ragioni. A volte non ci si riflette. E l’esperienza annega le facoltà critiche in un mare di consuetudine. Ma pure ammettendo che il calcio possa essere uno spettacolo, com’è possibile – mi domando – che a qualcuno venga in mente che debba sorbirmelo ad altezza d’uomo, dietro la sagoma del portiere. È come se andassi al cinema e mi obbligassero a sedermi sotto lo schermo con la motivazione che non sono del luogo. I progressisti parlerebbero di “intollerabile caso di intolleranza”, quanto meno. Qui, invece, è tutto normale. Il vento gonfia gli striscioni come vele d’un peschereccio. La Ciurma s’allarga ai romani, ai bolognesi, ai modenesi, ai fiorentini, ai perugini. Gli espatriati, però, da una prima rapida cernita, non sono tanti quanti se ne prevedevano: un centinaio, forse. Noi, da Foggia, saremo altrettanti. Di fronte c’è la curva aretina. È vuota, con qualche sprazzo di teste in basso. Abbiamo ingoiato Gallipoli, e la sua curva a quattro gradini. Ma qui è anche peggio. Contestano la squadra, ed hanno 44 punti; la fischiano all’ingresso e sono in piena zona playoff. Ci scaldiamo, cantiamo.

Il Foggia sembra propositivo. Lello ha invocato un 3-0 senza pensieri, una di quelle prove che rasenti l’orgasmo e torni a casa fischiettando. La squadra attacca, ha pure qualche spazio da sfruttare. Ma non punge. Noi offriamo una prestazione confusa, con rari cori imponenti e poca coordinazione. Il vento impedisce alle bandiere di sventolare. Poi comincia a piovere. I cappucci si inzuppano rapidamente, mentre in campo l’Arezzo fallisce il vantaggio. Viene espulso Lisuzzo per fallo da ultimo uomo. Qualcuno vorrebbe cominciare a piangere alla mezz’ora, per portarsi avanti col lavoro. Ma non è possibile, bisogna crederci ancora. Alla fine del tempo le reti restano inviolate. Nella ripresa, cominciamo a guardare di buon’occhio anche il pari. Non ne sono convinto. Vorrei vincerla, questa partita. Vorrei tornare coi tre punti. Non mi succede da tempo. Invece i minuti scorrono, e facciamo di necessità virtù. “Quanto manca?”, chiedo in giro. “Venti minuti”, mi rispondono. Penso ad un calcio piazzato, ad un lancio che peschi un attaccante isolato, a qualcosa di fortunoso, ad una burgnichiana vittoria in extremis. Tanto più che non sembriamo rischiare. Al minuto 81, poi, uno dei loro fa partire un tiro senza pretese verso l’angolino. Bremec, il nostro estremo catalano, si tuffa sulla destra. Ma non la devia in angolo, tenta di bloccarla. La palla sfugge, resta lì. Il loro attaccante è un nostro ex, Chianese. Uno bravo, uno veloce, uno efficace. Inutile dire come è andata a finire. Il boato è insignificante, più d’uno attorno a me non s’è neppure accorto d’aver preso il gol. Vince anche la Cavese, lo annuncia l’altoparlate. Meno sei, di nuovo. Per molti è finita. Io m’aggrego, con convinzione, al Noi non molleremo mai che parte dal settore.

Saluti a tutti. Poi è di nuovo autostrada. Imperversa Dolcenera. Alla fine, inutile girarci attorno, tutto si riduce alla tua capacità di incassare i colpi. I dardi dell’avversa fortuna. Quando sbarchiamo al solito bar di Venafro, alle 9 come previsto, il barista ci accoglie come vecchi amici. “Avete perso?”, ci chiede. E a noi non va di fingere.

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