23/03/09

Una preghiera collettiva, il palo e la frana

di Lobanowski 2

Domenica 22 marzo, Foggia-Marcianise 2-1

È questione di approccio. Di valori. Di educazione.
Non quella che porta i reoconfessi d’omicidio a dire sempre “Buongiorno” e “Buonasera” ai vicini. Ma quella, più sostanziale, derivante dall’esperienza.
Da come guardi il mondo.

Il tifoso tiepido, l’amante occasionale, il passeggiatore da stadio, preferisce la fine all’agonia, il colpo di grazia alla tribolazione, il risveglio di soprassalto alle pieghe dell’incubo.

Antonio mi presenta il conto: “Guarda che sono in tanti quelli che sperano che il Marcianise faccia risultato”. Non ho dubbi al riguardo. Conosco i miei polli.
Tanti, troppi. Perché a 6 punti dai playoff sei appeso ad un filo. A 6 punti basta un passo falso – anche mezzo – per mollare la presa, interrompere l’inseguimento delle coronarie.
E aprire il fronte delle critiche.
In tanti, in troppi, non vedono l’ora di poter dire che l’avevano detto. Dove e quando, poi, sarà solo questione di sfumature da romanzo popolare. Fatto sta che, da marzo, costoro potrebbero dedicarsi alle gite fuori porta, senza quello scomodo assillo del patimento. E non gli sembra vero.

“Questa gente avrebbe mantenuto in vita solo Eluana”, alza il tiro Lello. E non ha affatto torto. A pensarci.

Quando Mancino fa partire un traversone dalla destra, a casaccio, in mezzo all’area, siamo al minuto 90 e rotti. Nel bel mezzo del blando assalto finale. È che sull’1-1, coi fischi già pronti a precipitarsi sul manto erboso, non c’è lucidità che tenga. È tutto perduto, o quasi. Un altro anno di transizione da mettere in soffitta, anonimo e senza picchi emozionali. Al minuto 90 e rotti, quando Mancino mette in mezzo un traversone senza pretese, se non quella di creare quanta più confusione possibile, a cantare siamo rimasti in pochi. Una minoranza suggestiva di quello sparuto gruppo di spettatori che sosta allo “Zaccheria” (che, ironia della sorte e polso dell’intero sistema, fanno di Foggia la prima piazza come numero di spettatori dell’intero girone meridionale della C1). Cantano le prime file, della Sud come della Nord. Cantiamo per non pensare. E perché, fino all’ultimo, abbiamo un dovere sociale da compiere. Quando al minuto 90 e rotti il traversone di Mancino scavalca il portiere e finisce in un angolo rettamente poetico tra incrocio e palo, rimbalzando nel cuore dell’area di rigore, l’intero “Zaccheria” – colmo di brutti presagi e pessime intenzioni – si ammutolisce. La palla vaga, e l’attimo sembra non volerne sapere di finire. Di finire male. Di finire bene. Quando Velardi, al minuto 90 e rotti, mette la sua testa da passante su quella palla vagante, quelli che mi sono attorno – ed io per primo – bloccano il cantico al diaframma. Un grumo di parole ritmate. Quando la rete si gonfia, al minuto 90 e rotti di Foggia-Marcianise, viene giù la curva. Che sembra un gol del Gremio.

Fuori dalla risacca. E, con la Cavese sconfitta in casa e l’Arezzo arenatosi a Foligno, di nuovo alla vita. A tre lunghezze dal primo approdo.

Cose che non si comprendono. Cose che non si possono comprendere, col solo uso del raziocinio.

Non abbiamo fatto niente, eppure è fantastico. Aver rimesso assieme, come frammenti di un mosaico tardo-antico, i pezzi del nostro esistere. Aver ricreato i presupposti per un presupposto: soffrire ancora. Ed è una gioia indescrivibile. Perché poniamo pure che Mancino l’avesse messo alto sulla traversa, quel cross; o che Velardi l’avesse lisciata, quella palla magica. Ora saremmo sereni, colmi come otri di quella delusione tiepida, svogliatamente rassicurati dalla completa assenza di partecipazione all’evento. Sereni, come chi trapassa. O chi assiste al trapasso di una vecchia zia. Invece no. Quando abbiamo capito – intuito magari – che quella tranquilla delusione, quell’estromissione forzosa dalla tensione, stava per realizzarsi, siamo corsi al capezzale della squadra ed abbiamo convocato gli dei laici del calcio per una nuova preghiera collettiva: Dacci, o signore, la possibilità di soffrire ancora. E ancora, e ancora. Fumeremo di meno, mangeremo di meno, porteremo l’immondizia ai bidoni. Ci impegneremo nei fioretti più disparati. Ma ti preghiamo di non lasciarci così, senza un sussulto. Quando la palla è andata dentro, dopo lo spazio della festa tribale, guardandoci negli occhi abbiamo sfamato il nostro lampo nello sguardo dell’altro: trapassato da un lampo. Lo stesso: a 3 punti dall’Arezzo. E domenica si va ad Arezzo. Questo semplice accostamento di elementi è paragonabile ad una punta invisibile che solletica la spina dorsale. Fremito. O gioia! Grazie, signore del calcio. Non vedevo l’ora.

Perché a Cremona c’ero, c’eravamo tutti. Con una delusione che definire “cocente” è alambicco per cronisti. E 800 chilometri da fare, a ritroso, come gamberi feriti. Ma nessuno di noi avrebbe, quel giorno, preferito essere altrove. In spiaggia, al parco, stravaccato dinanzi alla tele. In nessun luogo della Terra, se non allo “Zini”, a prendersi la propria parte di ceffoni. Arezzo è meno lontana, ma è ugualmente una delle trasferte più distanti dalla piana di Capitanata. I segni, i segni si moltiplicano. La sorte ci sfida, carica di presagi. E siamo pronti. Vada come vada, è meglio morire di coltello, da vivi, che nel sonno d’una corsia d’ospedale. Antonio il Bolognese mi chiama che è posseduto dal demone dell’attesa. Non vede l’ora. Gianni, prima di obnubilarsi di Jameson al nostro St.Patrick’s day posticipato, mi confessa che è cominciato il conto alla rovescia. Io ci penso, e mi brucia la fronte.

Da queste parti se uno assiste ad un sequestro di beni ad un ambulante, e decide di mettersi in mezzo, gli si consiglia di desistere. ”Ma perché ti prendi veleno?”. Se uno batte i pugni sul tavolo perché a Gaza la gente muore sotto le bombe, o raccoglie firme per far abbattere un ecomostro, il saggio adagio è sempre lo stesso: “Perché prendersi veleno?”. Laddove prendersi veleno è spia dei certissimi danni al fegato di chi s’impelaga. Chi non si prende veleno è un fatalista o – come dice lui stesso – un realista; uno che sa, conosce ed ha ingoiato le cose del mondo. L’andazzo generale, contro cui nulla si può. Uno che sa che battersi è inutile, oltre che dannoso. Il guaio, il mio e quello di tanta altra gente che conosco, è che prendersi veleno è anche l’unico modo di cui l’essere umano dispone per dimostrarsi tale. Traducibile in assioma: Vivo, esisto, mi prendo veleno. Grazie al cielo.

Domenica, tutti insieme, ci abbracceremo una nuova questione. Con la stessa voglia di penare ed esplodere. Con la vaga sensazione che, sotto sotto, chi non ci capisce si stia perdendo qualcosa.

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