02/03/09

Canto per te

di Lobanowski 2

Domenica 1 marzo, Gallipoli-Foggia 2-2

Gallipoli sembra vicina, ma è suggestione. La Puglia, questo concetto singolarizzato dopo decenni di Puglie, è lunga e arcigna. Conviene mettersi in viaggio presto. Conveniamo. Quelli che hanno dormito sette ore come quelli che sono ancora in piedi da ieri sera. Presenti a caricare due macchine e inseguire il presentimento che qualcosa di buono possa accadere. Non prendiamo l’autostrada. Il tempo di superare Cerignola e i lenti lavori in corso, e la statale si trasformerà in una comoda quattro corsie dal sapore vagamente vacanziero. Siamo sereni, distesi, riposati. Antonio, alla fine, s’è arreso all’influenza. Paolo ha preso il suo posto in men che non si dica. Allo svincolo di Canne della Battaglia omaggiamo Annibale, il condottiero. S’inalbera una discussione dotta sui recenti studi che avrebbero spostato più a nord, nell’agro di Ascoli, la famosa battaglia. Qualcuno corregge: ad Ascoli ha combattuto Pirro. Giusto, risponde un’eco, Federico Pirro, del tg3. Un correttore di bozze specifica che Federico Pirro non lavora più al tg3 da diverso tempo. Un altro sostiene di vedere sempre Costantino Foschini nel regionale per Bari. Scende sempre a Barletta. Dove gioca oggi il Barletta? La macchina davanti si accosta a fare metano. Le sinapsi, colte da mal di macchina, riposano. Per poco. Il gestore del bar tabacchi ci guarda male. Vorrebbe litigare, sbatterci tutti fuori, chiamare la polizia. Gli siamo antipatici, è un fatto di pelle, lo si nota. Quando chiedo un pacchetto di Diana da dieci, e vede la mia dieci, rifiuta, manco stessi tentando un raggiro: “No, no, no… E che siamo? Qua ognuno viene e prende gli spiccioli…”. Giuseppe, mentre gira il suo caffè, annuisce: “Ha ragione – dice – è uno dei problemi più sentiti nell’odierno dibattito semiologico”. Quello un po’ ci resta, vorrebbe replicare qualcosa a caso, ma Mattia, che sopraggiunge col suo vitreo bicchiere di Borghetti, lo zittisce: “Eh, ma di che parliamo? Di Ontologia?”. Quando abbandoniamo il parcheggio, il volto del tale ci comunica un desiderio di bastonate. Da Bari a Brindisi, 97 chilometri. Non è facile. Si rispolverano i ricordi scolastici, mentre un cd – il solito cd – entra ed esce dal lettore, stoppato ad ogni nuovo discorso. Fumo di mattina, è un dramma da trasferta. E quando arrivo a quella volta che il povero Frino si è fatto protomartire con la lavagna, Brindisi ci corre accanto. Un cartello marrò indica Grecìa. Qualcuno ha aggiunto Merda con lo spray nero. Peccato non aver portato la digitale.

Il Salento. A sentir parlare di Salento. A leggere il 12 sulle magliette rosse con su scritto Salento. Ad affollarsi i pensieri di pizziche e tamburelli, world music e riti pagani cristianizzati a viva forza, di chiese bianche e processioni, di pietra rossa e barocco, di mare e camping, Salento nazione e sistema-Salento, uno, magari uno come me, pure attrezzato di buona fede e pazienza, finisce per detestarlo, il Salento. Il dialetto, la cadenza, gli ulivi e il sole a picco. Insopportabile. Quando chiedi ad un leccese cosa fa il Lecce, quello risponde che il Salento fa zero a zero. Come il Barca è nazionale di Catalogna, insomma, il Lecce è la selecao salentina. Avevamo un gemellaggio coi leccesi, un tempo. Roba vecchia, in disuso come i sommergibili della Flotta del Nord. Adesso non so, non sappiamo. L’altra macchina ha deviato per Squinzano. Noi tiriamo ancora per la capitale, poi svolteremo alla fine delle quattro corsie. Ci si vede in piazza a Galatone. Un’ultima sosta prima del rush finale. Non è durato tanto, in definitiva. Due operai piantano assi di legno. Uno ci rivolge la parola, sorride. Ma l’idioma, ahimé, è incomprensibile. Sorridiamo di rimando. Un signore daltonico ci si avvicina per chiedere se siamo tarantini. È un foggiano, vorrebbe narrarci fantastiche imprese belliche di cui è stato attore, testimone o ascoltatore. Ma tiriamo dritto. Un caffè alla veloce. Poi i campi arsi ai margini della statale. E campanili, di tanto in tanto, affogati nella vegetazione bassa. Cumuli di pietra, arditi accostamenti tra i reperti del passato e le costruzioni residenziali democristiane, case basse da contadini, dormitori per braccianti di un tempo, verde e giallo fino al lampo blu del mare, in fondo. Galatone dista undici chilometri da Gallipoli. Abbiamo qualche chilo di pizza da smaltire. E il vino, il primitivo dolce, se non l’hanno finito nell’altro abitacolo. Una chiesetta rurale, una recita in corso, bambini. Il cartello che indica il centro, la strada sconnessa. Una chiesa. Barocca, manco a dirlo, con tanto di ghirigori sulla facciata. Di pietra rossa, ovviamente, che sembra arancio. Ancora aperta. Di fronte, il torrione basso di un castello, che la didascalia indica come palazzo marchesale. Sembra la piazza principale e parcheggiamo. Gli altri non arrivano. Così sostiamo al bar, dove un avventore ci chiede chi di noi fosse juventino. Anche questa domanda, non merita risposta. In paese, a giudicare dagli adesivi e dalle scritte sui muri, sembra forte la presenza forzanuovista. Gli altri sono giunti, ma non sanno dire dove sono. Mi inoltro in un vicolo. Galatone è il classico centro salentino fatto di muri bianchi, piazzette improvvise e torrioni arditi. La sede di Forza Nuova è a due passi dal municipio. Sbircio dentro, ma è chiusa. Il centro storico non mi convince, non mi appassiona. Continuo a preferire l’Umbia, le Marche. Ma forse è pregiudizio anti-estivo, il mio. Ci ricongiungiamo sotto il monumento ai caduti. Gli altri raccontano delle tette di una barista incontrata sulla strada. Sono esaltatissimi. Saltiamo la pizza, muoviamo su Gallipoli. Manca un’ora e passa al via.

Il lungo parcheggio è costeggiato da un parco precario. I furgoni si affiancano, si parcheggiano le auto, spunta un pallone. E nello sventolio di bandiere prelevate dai bagagliai, si pranza al sacco. È l’atmosfera giusta per scambiare due chiacchiere con vecchi amici, un saluto o una battuta coi conoscenti. C’è voglia di portare a casa i tre punti, nella sfida alla capolista, ma anche tanta preoccupazione per il futuro prossimo. Marzo sarà il mese decisivo. Ci accalchiamo all’ingresso. La pezza passa senza problemi, le aste lunghe vengono rispedite al mittente. Non passa la jolly-roger. La vita del tifoso è una metafora della precarietà esistenziale: non si è mai sicuri di niente. Ciò che è legale, o quanto meno tollerato, a Pistoia, può diventare illegale a Potenza o a Gallipoli. E viceversa. È una vita affascinante, senza punti di riferimento fissi. Una specie di sfida al conformismo. Alla tentazione al conformismo, che pure può fare capolino, a una certa età. Entriamo. Saremo trecento. Giovani arrampicatori piazzano le unghie nei vetri per appendere gli striscioni. Uno, grande, ricorda un ragazzo di Cagliari. Noi ci mettiamo più del dovuto a sceglierci un posto. E quando lo individuiamo, ingaggiamo una battaglia col nastro isolante. Una giovane ispettrice della polizia locale sfila sotto il settore. Il campo sportivo ricorda Manfredonia. Una copia in miniatura del “Miramare”. Questi stanno per spiccare il grande salto verso la cadetteria, e al solo pensiero, il groppo ostruisce la gola. Saranno un migliaio, gli spettatori, e il campo si vede come in panchina. Cinque minuti di silenzio. Si sente qualcosa dalla curva dei locali. Poi partiamo anche noi. Canto per te, solo per te, Devi lottare, Dai non mollare, Foggia olè. Si poga come ad un concerto dei Flogging Molly. E lo scherzo finisce con un paio di feriti e qualche sacca di ghiaccio. In campo, il Foggia sembra fare la partita. Il Gallipoli non si fa mai pericoloso. Dalla mia postazione occasionale, vedo il vetro e gli striscioni. Quando l’urlo di incitamento cresce, capisco che sta succedendo qualcosa. Scendo al limitare del campo, ed inquadro uno dei nostri – che scoprirò essere Mancino – temporeggiare solo dinanzi al portiere avversario. Quindi sparare sul ginocchio dell’estremo difensore in uscita. Abbiamo fallito l’impensabile.

Nella ripresa sento, attorno a me, un’attenzione crescente. Mai visto, quest’anno, tanto pathos per l’esito di una partita. Di solito il risultato è l’ultima cosa da cui farsi condizionare. Ma siamo a marzo, e il tempo di cullare i sogni comincia a sgocciolare. La Cavese, in casa con la Paganese, sta facendo bottino pieno. Noi siamo attardati di quattro punti. L’incitamento è spezzettato, sofferente. Il cross che libera al tiro l’attaccante gallipolino a due passi da Bremec, parte da qui. Il boato del “Bianco” mi ricorda Foligno. E la cosa mi infastidisce. Canto per non pensarci, ma la botta è stata forte. A cinque punti dai play-off, con Arezzo e Benevento da affrontare in casa loro, comincia a venir meno l’entusiasmo. E subentra il pilota automatico. Il Foggia non merita di perdere. Prova a sfruttare le fasce. Quando, su azione d’angolo, Troianello si aggiusta il destro, l’intero campetto di Gallipoli trattiene il fiato. Una sospensione di giudizio che prepara al boato. La palla è nel sette, il Foggia ha pareggiato. Tutti sotto il settore, che crolla come un formicaio. È bello, bellissimo. Il tempo di riprenderci. Parte la vocale “e”, intonata all’unisono come fossimo un’immensa trombetta. È il preludio a quella richiesta, Andiamo a vincere, che facciamo ogni volta che raddrizziamo una partita storta e che di solito non si realizza. Il coro è alto, scuote la squadra. Ci sarebbe un rigore, che viene negato. Forse persino l’espulsione del portiere, che ha steso Malonga. Siamo rematori che spingono il galeone verso l’ultimo assalto. 5,50, la quota della Snai. Che, manco a dirlo, mi sono giocato. C’è un corner per loro. Cross. Uno stacca di testa. E di nuovo il boato. Sembra finita. La tristezza è profonda, tanto da rendere difficile la ripartenza. Di fronte, dei temerari si mettono anche ad insultarci. A Gallipoli. La cosa lascia basiti. Salutate la capolista, dicono quelli della curva di casa, che ha cinque gradini e non è neppure piena. Pessimismo e fastidio. Ci crediamo di meno, ma inseriamo nuovamente il pilota automatico. Dobbiamo uscire a testa alta, da Foggia, da questo campetto. Invece Malonga pareggia. E la magia si ripete. Tutti su tutti, e tutti contro la vetrata.

All’uscita mi fermo un minuto per salutare i seguaci di questa rubrica. Seguaci appassionati, costanti, che non sapevo di avere. Ci restituiscono la jolly-roger. E anche il vino, che non siamo riusciti a buttar giù all’ingresso: “Scrivi pure questo, domani!”, mi suggerisce un fan. L’ho scritto. E giacché siamo in tema, aggiungo: non c’è malafede precostituita nel dire che, per quanto apprezziamo l’incertezza (che rende vivace ogni spostamento), non sarebbe male avere dei punti fermi. Nothing else matters significa Nient’altro ha importanza. È una dichiarazione d’amore per la maglia rossonera. Sarebbe interessante capire perché a Potenza e a Perugia non lo si può dire, mentre a Lanciano e a Gallipoli si. Non è polemica precostituita. È che il buonsenso aiuta i rapporti, senz’altro più dell’arbitrio. Per non parlare della povera bandiera angolana, riposta senza un valido perché dopo il divieto di Caserta. O del vessillo piratesco. Ma tant’è.

I campanili persi nel tardo pomeriggio salentino vorticano attorno ai finestrini. Risaliamo una delle Puglie, nel silenzio interrotto da Radio Uno Rai. Nell’altra macchina, ci dicono, dormono già tutti. Tranne il pilota, ci auspichiamo. A Bari viene nominato Zeman. E basta questo, affinché la sonnolenta risalita si trasformi nell’ennesima bagarre. Il sacro nome ancora divide. Il cartello ci comunica che mancano 126 chilometri alla meta. Saranno 126 chilometri di fuoco.

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