24/02/09

L'accento di Jvan

di Lobanowski 2

Domenica 22 febbraio, Foggia-Pistoiese 1-1

“Ci vuole un attaccante di sfondamento, uno che butti la palla dentro”, gracchia una voce dal televisore. La casa si impregna. Ed è un refrain sanremese. Ciclico, ridondante, codificato. Un luogo comune agghindato a bandito, acquattato all’angolo d’ogni mezzo passo falso. Pronto a pugnalare il silenzio, a sovrastare i fischi. Pochi attimi. Poi lo spettatore al telefono, male equalizzato dai tecnici di Telefoggia, si fa rosso d’ira. Il suo timbro vocale s’impenna in un crescendo arioso: “Questa società ci sta prendendo per i fondelli!”. Che gente. Non vengono allo stadio perché piove e fa freddo e poi s’arrogano il diritto di parola. Di sicuro non hanno letto quanto diceva il Presidente Mao in proposito: solo chi fa, ha diritto di critica.

L’accento di Jvan è un problema. Ha deciso che vuole essere dei nostri allo “Zaccheria”, sugli spalti della Sud, e condividere con la ciurma ogni attimo della partita con la Pistoiese. Che già si preannuncia storica. Come, del resto, ogni gara con gli arancioni (…). Noi siamo contenti, finanche lusingati, dalla sua proposta. Ci fa piacere, certo. Solo che la Sud è un (meraviglioso) serraglio di folli integralisti. Tra cui ci saremmo anche noi, oltretutto. Jvan ci tranquillizza: “Ma io non tifo Salernitana – fa, con voce pacata, come a spezzare la tensione – tifo Napoli”. Il silenzio preoccupato muta in accorata partecipazione. “Facciamo che non dici niente e lasci parlare noi”. Accetta di buon grado. Le grate del prefiltraggio, quelle più esterne, quelle che si vorrebbero stabili – a ricordarci la nostra condizione di detenuti in attesa di giudizio, o di imputati a piede libero – sono finalmente al loro posto. Un tributo alla società dello spettacolo. Dentro soffia in piena faccia un vento gelido, da morsa. La curva, che è semideserta a venti minuti dall’inizio, non si riempirà, ormai è certo. Meglio stringersi, compattarsi. Di fronte ci sono nove pistoiesi. È un merito esserci, sempre, e gli va riconosciuto. Un minuto di raccoglimento per Candido Cannavò. Poi si parte, in campo e fuori. Due ricordi si sovrappongono. Quello di mio cugino Carmine, avellinese silente in curva Nord mentre la sua squadra veniva divelta dal Foggia di Baiano e Signori, e un vecchio Foggia-Reggina di B, con la pioggia battente e la tifoseria al piano di sotto. C’era un gruppo di inglesi, quel giorno, a vedere Zanchetta insaccare su punizione. Ci si diverte tanto, quando piove o tira vento (come recita un celebre mottetto). Si salta, ci si spinge, si canta. Quel tanto che basta ad intorpidire le menti, a fissare il proprio sguardo interiore sul pezzo di tribuna che occupi. E farti dimenticare, se ci riesce, che proprio il motivo che ti spinge a far festa – il gelo – oggi ha spinto tanti nostri eroici concittadini a preferire il divano. A seguire lo show mal microfonato di Telefoggia con la recondita speranza che tutto vada male, torni ad andare male, per comporre i numeri del telefono fisso e dire al conduttore che con questa società non andremo da nessuna parte. Uno sfogo morettiano, senza i girotondi. Perché anche i girotondi, diciamocelo, prevedono troppo movimento. Questi non ci sono e basta. In tanti invece ci vengono, ma non saprebbero spiegare ad un tribunale il perché. Braccia conserte, sguardo vitreo a seguire l’azione, scatti repentini a destra e a sinistra per scansare la bandiera che sventola qualche fila più sotto o più di lato, braccino teso o a volo di farfalla a spiegare all’amico che Coletti doveva aprire e Lisuzzo chiudere. Antonio dice che mi vede dare le spalle al campo, fregarmene della partita. Si sbaglia, non è vero che non mi interessa. Ma, a trentadue anni suonati, ho deciso di non far dipendere tutto dai nostri e dai loro undici. C’è un’altra partita, sugli spalti, importante anche aldilà del valore di funzione, che deve essere onorata. E poi certa gente, che presenzia e mugugna, mi appare offensiva, più che inutile. Non dico cantare, per carità… Non dico spingersi e crollare sulle note di uno stornello… Non dico perdere la voce… Ma almeno sostenere: ognuno a modo suo, come gli viene. Invece, mentre il Foggia attacca sotto di noi ed entra in area sei volte nei primi cinque minuti, sembriamo un mondo a parte, circondati dal nastro giallo delle scene del crimine. Limite invalicabile. Sui corner, sui calci da fermo, qualcuno prova ad oltrepassare il limbo elettrificato ed immaginario. E si unisce al canto. Poi il corner finisce tra le mani del portiere, la punizione sfila sul fondo, e tornano a chiudersi in sé stessi, nella loro concezione autistica della partita. Lo speaker ricorda la curva degli anni Novanta, per spronare i reticenti. Dice anche una cosa molto brutta. Dice: “Dove sono i vecchi? Quelli che si sono fatti la serie A?”. Vecchio, qui, è un bel complimento, di solito. Come tra gli alpini. Ma una parte di me, che la serie A se l’è fatta, ci rimane male. Il campo è pesante, i restii non si lasciano commuovere e coinvolgere. Non vedo il fallo da rigore che porta gli arancioni dal dischetto. Vedo che segnano. L’autore del gol va sotto la curva. I tifosi toscani lo salutano superficialmente, lo allontanano con un certo fastidio. Probabilmente stavano giocando a tressette e quello li ha distratti. Ed ora li sta disturbando oltremodo.

E Jvan in tutto questo? Arrivato nel giorno più freddo dell’anno, nel giorno del record negativo di presenze, becca il gol dell’ultima in classifica con stoica rassegnazione alle sfighe. E c’è di più, c’è di peggio. Una specie di ispettore di curva comincia ad aggirarsi tra le linee dell’esercito abbioccato e deluso. Afferra dal cravattino i fanti scoraggiati, li scuote, li percuote, fino a farli dondolare avanti e indietro, come pupazzi di pezza: “Allora? Volete cantare o no?”. Il tono non è conciliante. Lo speaker fa partire Noi non molleremo mai, la versione sulle note di Go West dei Pet Shop Boys. E l’ispettore prosegue il suo tour, a sincerarsi che ogni labiale corrisponda. Erano anni che non succedeva, che non c’era bisogno di cotanto drastico provvedimento. Proprio oggi che c’è Jvan. Eppure Jvan canta, con la massima naturalezza, senza perdersi d’animo, senza risentire delle forzature. Almeno, così sembra. Il pareggio giunge nella ripresa, ancora su rigore. E alla fine piovono i soliti sparuti fischi, dagli angoli del silenzio. Ma non è quello che conta. Oggi mi ha impressionato altro. E cioè che erano anni che non mi soffermavo a pensare alla serie A, a cos’era la curva a quell’epoca. Me l’hanno fatta risalire come un gin-lemon, rancida come un conato di maionese. Idolatrata, mitizzata, sopravvalutata. Certo, diecimila voci sembrano più possenti di centocinquanta. Ma non c’è da rimpiangere niente. Una diserzione di novemila e passa uomini non è cosa da ricordare con nostalgia, nel bilancio di una guerra trentennale come la Guerra dei Trent’anni. O centenaria, come quell’altra. Ci sarebbe da scomodare Shakespeare, il suo Enrico ad Azincourt, il suo giorno di San Crispino e Crispiano. Ma quel pistolotto poetico l’hanno usato tutti, dai fascisti all’antimafia. Allora, meglio sorvolare. Scriviamo sulle nostre porte: Niente nostalgia. E andiamo avanti, please.

Jvan è partito alle 18,25, dal binario 4. L’Eurostar, di quelli bianchi e rossi, un po’ vetusti, un po’ comici, un po’ Treno Ok di una volta, ha fatto il suo placido ingresso in stazione, planando come un Pendolino senza pendolo. Il rituale d’ogni arrivederci, un abbraccio, una raccomandazione scherzosa, una battuta. La bandiera ancora in mano, residuato del pomeriggio. Mattia, che ad Jvan l’ha preso proprio a benvolere, dice che lo si potrebbe salutare sventolando. Si ride. Dovessero esserci dei baresi a bordo, lasceremmo il nostro salernitano alle prese con una quantità di contraddizioni difficilmente esplicabili in un’oretta di viaggio. Lasciamo perdere e lo guardiamo salire. Sulle scale che portano al sottopasso, però, decidiamo che la bandiera può essere aperta. Così, giusto perché se hai una bandiera è bello sventolarla. Una famiglia – padre, madre ed un bambino – sta per imboccare la nostra stessa scalinata, solo in senso opposto. Ci viene incontro, distrattamente. Poi si accorgono della nostra presenza. Ed è un attimo. Il padre allunga la sua mano protettiva sul bambino e sulla consorte. E l’intero gruppo si schiaccia al muro, come si fa quando c’è un terremoto da far trascorrere, e ci si accalca sotto gli stipiti delle porte. Ma noi siamo in tre, stiamo ridendo, e c’è una bandiera che fa avanti e indietro. Capisco quel che sta succedendo ed allargo lo sguardo. Attorno a noi, i passeggeri scesi dall’Eurostar al binario 4 sono imbarazzati. Se ci siamo noi, è probabile che ci siano altri tifosi, altri “ultras”, nei paraggi. E la cosa pietrifica diversi bravi viaggiatori, li rende confusi sul dopo, immobili nel durante. Sguardi obliqui, qualche sussurro. Il tutto per una bandiera. Eccoci, faccia a faccia, col mostro mediaticamente costruito. Questa è la gente che s’abbevera al video, che ha imparato a temere, a tremare di questa (e di ogni altra) difformità comportamentale; questa è la brava gente in buona fede che non può più fare a meno di ritrarsi, se non proprio fuggire, alla vista di ogni pericolo indotto. Che pensa male di tutti solo perché qualcuno ha spiegato che così si fa. Un po’ li capisco, un po’ li detesto. Mattia, invece, vorrebbe prenderne a ceffoni un paio, così, presi a casaccio, a mo’ di sveglia. Giusto per confermare, nel rovesciamento dei valori, il senso di un luogo comune. Meglio lasciar perdere e tirare avanti. Dietro di noi c’è gente che sbircia ancora verso i binari, che si attende di veder spuntare dal nulla e all’improvviso altre duecento teste calde, e nel frattempo si esercita nel fingersi invisibile. Meglio andare. Lasciare l’atrio e liberare una stazione prigioniera dei suoi fantasmi. Che poi sono i fantasmi di un intero Paese.

2 commenti:

NicKappa25 ha detto...

molto bello..

Anonimo ha detto...

Thanks...

Lob2

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