16/02/09

Provinciali e no

di Lobanowski 2

Domenica 15 febbraio, Juve Stabia-Foggia 2-3


Questa città è ancora provincia. Periferia meridionale, feudo, di un impero calcistico che ha altrove le sue capitali. Cerco di convincermi del contrario, e agisco come se ne fossi convinto. E dalla mia azione scaturisce il convincimento, come un drago nordico che si avvinghia alla sua coda rugosa. Ma dal salumiere il marito della signora allampanata parla di una partita imperdibile, di una domenica infuocata. Lei gli chiede del Foggia, azzarda, ma lui fa spallucce, si ritrae, quasi indignato. Inter-Milan, dice, domani c’è il derby della Madonnina. Google Maps fissa in 760 chilometri la distanza tra via Zuppetta e il centro di Milano. Procedi in direzione sudovest da corso Giuseppe Garibaldi verso via Luciano Mele. 7 ore e 5 minuti. E pochi secondi per accendere la bagarre al banco. I due tizi di mezza età sorridono, prima di schierarsi, di infervorarsi. Milanisti contro juventini, che si limiteranno a gufare. I bambini a scuola sono tutti interisti, dice Ceska. È un classico: i bambini salgono sul carro del vincitore, imitano gli adulti. Fuori il mercato del sabato è quasi un ricordo, la sera è alta. Possibile che nessuno abbia risposto all’imbeccata del signore gobbo con un sonoro: Non mi interessa, sono di Foggia e tifo per il Foggia? Solo per il Foggia. Pazzesco. Senza contare che questi hanno continuato a tifare Inter, Milan e Juventus anche quando il Foggia calcio viveva i suoi anni eroici. E poi vengono a parlare a me di Zeman e calcio totale. Indecenti, sono esseri indecenti.

Non ho ben capito perché non si gioca a Castellammare di Stabia, ma questo stadio che snocciola le gradinate di una dignitosissima tribuna centrale man mano che la telecamera allarga il raggio d’azione, non sembra quello di Sant’Antonio Abate. Zitti, state zitti, sentiamo. Il mister è a centrocampo, l’inviato di Conto Tv gli porge le domande di prassi, quelle banali sulle intenzioni della squadra. Come se quello dovesse rispondere – da un momento all’altro – che non ha alcuna voglia di vincerla, la partita, e che preferirebbe starsene a casa a vedere la Lambertucci che cura il mal di schiena. Risponde che si, qualcosa è da rivedere ma c’è gran voglia di stare bene. E l’accento è inconfondibilmente nordico. Troppo. Ci guardiamo stupiti, l’ansia da sottile pungolo si fa pensante lamina: Ma di dov’è l’allenatore della Juve Stabia? Fingiamo di non aver capito, ci esercitiamo in fintotontismo. Lo zoom indietreggia ancora. Ci saranno venti file di gradini, in quella tribuna. Senza contare quelle sotto. E le poltroncine. Sicuro non è lo stadio del Sant’Antonio Abate. Ergo: abbiamo sbagliato partita. Il cognome in sovrimpressione elimina ogni dubbio: è l’allenatore del Padova, quello sullo schermo. Abbiamo comprato un’altra cosa. Ci toccherà vedere il Verona impegnato all’ “Euganeo”. Il panico diventa più gelato del vento. E si che fuori la temperatura lambisce lo zero. Il più su di giri di tutti prende a premere tasti a caso sul telecomando, guidato da una follia incipiente. Scopriamo, affascinati, che Conto Tv possiede anche una rete 2. E, avvinti come l’edera, anche una 3. Qui è in onda un campetto in erba sintetica, senza tribuna, ma con un elegante reticolato a dividere il dentro dal fuori, con perizia adagiato a fungere da limite estremo di un parcheggio per mezzi pesanti: ci sono due pullman gran turismo e un camion dei vigili del fuoco. Mi sa che è il nostro. La speranza cresce al crescere del brullo paesaggio. E più il paesaggio è brullo, più speriamo. Poi una tuta rossonera impalla il cameraman: prolungato sospiro di sollievo. Non avremmo cambiato il nostro spelacchiato rimasuglio di quarta serie per nessun polifunzionale centro sportivo dell’opulento Nord-Est. Garantito.

Vinciamo. Oggi vinciamo. Il sentore è consistente, il pronostico fiocca a più voci, polisemico e polifonico, come una corale bizantina. Ho un cauto X2 sulla bolletta della Snai, quotato poco più di 1,50. Angelo ha fatto come me, e ci piazziamo in coda all’ammasso di sedie. I primi dieci minuti li perdiamo a discutere d’altro: c’è una giornalista locale che ci ha omaggiati della sua presenza, qualche tempo fa, durante un dibattito sulla questione palestinese. E da qualche ore impazza la ressa sul suo articolo, appena pubblicato su un settimanale free-press, e zeppo di inutilissime osservazioni che non avremmo accettato neppure da un anchorman di fama. Si fa il domenicale per quelli che ancora non sanno, si ricapitola con quelli che conoscono la vicenda. E com’è, come non è, la Juve Stabia segna. E il naufragar è spietato. C’è uno strano rinculo ad ogni rete presa in tv. Un effetto camera d’aria che lascia attoniti ed impotenti. Certo, si può sbraitare contro l’elettrodomestico, e succede. Ed è un bene che nessuno videoriprenda la scena per approntare futuri ricatti. Ci giunge l’eco della curva stabiese. Sui vetri, l’ululato del vento polare. A Pescara hanno finanche rinviato la partita col Marcianise. Tempo da lupi. Sorvolo le teste dei miei compagni: il rituale, alla fin fine, è lo stesso di sempre. Si vinca o si perda. C’è un gruppo, discretamente assortito e amalgamato dalle domeniche vietate, composto da gente che assiste, impreca, s’alza, beve, fuma. Ma, soprattutto, tesse una rete di complicità, di mutuo soccorso conto terzi, di condivisione difficilmente riproducibile altrove. È il potere aggregante del calcio, cari i miei snob di terza tacca. Capita e non si spiega: che, sotto di una rete, ci ritroviamo a parlare con foga di un viaggio a West Belfast, fantasticato per i primi di agosto, in un charter gomito a gomito con pisani e milanisti, o del nostro dream team per Sport Sotto l’Assedio, l’iniziativa di solidarietà alle popolazioni dei campi profughi in Palestina; o dei Mondiali Antirazzisti di luglio, ad ipotizzare scenari di incontri e birre a fiumi coi nostri omologhi baschi, turchi, francesi, irlandesi, di impegno e cazzeggio a targhe alterne, come in centro a Milano. A sette ore da qui. E la scossa elettrica viaggia da cranio a cranio, trascendendo dal motivo che ci sforziamo di far rimanere centrale. È la cosa che ci unisce, anche quando non ci riflettiamo a sufficienza. Come al pari pennellato su punizione, o al raddoppio di rapina. Alla fine del primo tempo siamo in vantaggio. Su binari paralleli: in tele a Sant’Antonio, a Reggio, a Belfast. E, perché no, a Gaza.

Spalanchiamo la porta ed usciamo a respirare la gelata. Siamo una ventina, forse di più, coi bicchierini di plastica, le Diana rosse, i dolci di Moffa o ancora la pasta al forno nel piatto. A discettare di Piccolo, che pare sia un nostro giocatore, o di Colombaretti. Idem. È stato dissotterrato, come un simbolo di guerra, il bandierone con la stella gialla in campo rossonero, quello steso a Manfredonia, l’anno scorso, che pesa chili. Alcuni si esercitano a centro strada, altri fanno i conti sulla Cavese, sul Crotone che s’impone a Benevento. Non siamo provincia. Non apparteniamo a nessun impero. Noi, quanto meno. Siamo qualcosa di appena percepibile, un dualismo di forme e di sostanze in continua lotta. La serie C, che dura da dieci anni, ha temprato i fanti di questa città fino a renderli irriducibili, gente sulla quale puoi contare. E, come da copione, ha reso diportisti gli altri, tutti gli altri, che si sono dedicati ai loro soliti amori riflessi e non ricambiati. Servi della gleba, onanisti alle prese con le loro passioni da rotocalco, gente da una partita all’anno, se tutto va bene. Qui, si sa che torneranno a gremire lo “Zaccheria” quando le cose andranno meglio. Come se fosse la squadra a doverli conquistare, affascinare, vincere. Come se fossero così preziosi da dettare i tempi di un assurdo corteggiamento. Quasi che toccasse alla fede rendersi appetibile al fedele. Noi siamo d’altra scuola, e proviamo ad esplicitarlo martellandoci d’appuntamenti, di iniziative, aprendo casse comuni. In vista c’è il pullman per Gallipoli, da autorganizzare anch’esso. Ci pensiamo, e sostiamo ad assaporare lo strano effetto che fa.Una landa desolata, una crosta spopolata. Da via Arpi a piazza Giordano, non c’è nessuno. Incrocio la marea assente in senso contrario: incappo in una coppia di anziani amici che parlano dei campi, in una comitiva di ragazzi che non sa se separarsi o proseguire assieme fino al bar più vicino (e che alla fine prosegue), in due fidanzati che parlano fitto e a bassa voce, all’altezza del Banco di Napoli. Nessun altro. Ore 20:15, e Foggia è una città deserta. Sarà la temperatura, provo a convincermi svoltando in via Matteotti, sarà che domani si lavora di nuovo, ed è sempre un trauma. Ma il pensiero cosciente non s’impone alla superegoica consapevolezza di come stanno le cose: i foggiani affollano i locali, le case, i pub. Occhi sugli schermi al plasma, a prostarsi a Pato, a Ronaldinho, a Ibra. Turpe paganesimo, rimasugli politeisti. Il Foggia ha vinto. 3 a 2, alla fine di una partita in tutto simile a quella di Cava, ma senza il clima da guerra civile. La classifica mostra le crepe che la spaccheranno, da qui a maggio. Noi siamo su una zolla relativamente stabile ed abbiamo ottenuto la prima vittoria esterna. Sebbene in pay-tv. Fa niente, abbiamo di che gioire. Mi specchio trafelato nella vetrina di un negozio, a corso Giannone. Penso che in realtà, come Brecht, non ho alcuna fretta di raggiungere il mio obiettivo. Rallento. Tra un po’ cominceranno a rumoreggiare le finestre. Interisti, milanisti, juventini riprenderanno la carnevalesca danza degli sfottò. I ritardatari si riconoscono dal passo veloce, dalla semi-corsa. Rallento ancora, stavolta con l’intenzione. E il mio incedere pesante, passo dopo passo, diventa una rivendicazione d’appartenenza. Una forma plastica intenta a salmodiare: Non siamo provincia. Di nessun impero.

1 commento:

Anonimo ha detto...

SOLO FOGGIA E AVAST......
non siamo provincia.... di nessun impero.....
inter milan giuve stessa merda.....
SOLO FOGGIA E AVAST

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