12/10/09

La linea del novantesimo

di Lobanowski 2

Sissignori, io affermo che Waterloo consacrò Napoleone più delle tante vittorie, delle quali infatti non ricordo né date, né luoghi. Quanto a voi, maestà, avete oggi dimostrato che il vostro modo di perdere è, senza dubbio alcuno, davvero… imperiale. (Wu Ming)

Giuseppe mi scrive: Ma non pensi sia esagerato partire alle sette?
Io non devo pensare, rispondo. Io sono un soldato.
Soldato della vera fede, sanfedista d’altra specie. Vado incontro al destino, anche quando è prevedibile più di una fetta biscottata a colazione. La sveglia rumoreggia che fuori è ancora buio. La strada è quella che punta a Sud. Anomalie del girone B, la cosa sembra strana. Non scendiamo da gennaio. Direzione Potenza. Si punta sulla carovana. I furgoni precedono le nostre due macchine. E ci sfuggono dopo meno di un quarto d’ora di marcia. La prima sosta è in aperta campagna. Il Conte fa il botanico, l’umore – come al solito – è alto. Non ci sfiora l’idea di come abbiamo abbandonato lo Zaccheria sette giorni fa: i cori contro la società, le critiche sempre più aperte all’impegno (oltre che alla qualità) dei ragazzi. Se ne parla incidentalmente. A Cosenza fa freddo e piove, dicono gli oracoli. Abbiamo le prime felpe della stagione, ci sentiamo in una botte di ferro. I segnali che indicano la Salerno-Reggio. Proseguiamo per Brienza, paese natale di Mario Pagano. Non possiamo non fermarci. Il viale che porta al castello è coperto da una coltre di nubi grigie. Pioviggina. Ci ripariamo in un bar. La signora al banco ci narra delle vicende dell’illustre cittadino mentre raccatta bicchierini di vetro, poi – dinanzi allo sfoggio di erudizione del nostro autista – si rifiuta di venderci una bottiglia di Borghetti. Il suo collega a cinquanta metri è più malleabile. Tre ragazzine completano tre vasconi del viale nel tempo della contrattazione. Spunta il sole e l’autostrada senza pedaggio comincia a scorrerci sotto le gomme con una serie di strani zig-zag. Notizie dagli altri: sono a Sibari, o giù di lì. Altri cinquanta chilometri e saremo nuovamente un convoglio unitario. Si ammazza il tempo raccontando di quella volta che Delio Rossi fu inseguito – con tutta la sua nidiata di svogliati campioncini – da Ancona fino alle porte della tribuna. Strani presagi, mentre le montagne disegnano un orizzonte ispirato. All’autogrill di Tarsia c’è l’intero plotone di foggiani al seguito. Sette furgoni e le nostre due macchine. Un’ottantina scarsa di elementi. Un tempo badavo molto ai numeri, agli esodi, alle svariate invasioni. Oggi non mi sento di criticare più di tanto chi è restato a casa. O, meglio, non mi preoccupo di loro, non li detesto e non li invidio. Come Enrico d’Inghilterra sul campo di Azincourt, “Se è destino che si muoia, allora siamo già in numero più che sufficiente”. Una volante della polizia ci attende allo svincolo per Rende. Scortati. Transitiamo per una indefinibile periferia. Un cancello aperto accoglie i veicoli. La caserma. C’ero già stato nel 1995, e non sembra cambiato niente. Mi lascio assalire dalla nostalgia mentre un operatore videoriprende le perquisizioni dei mezzi. Via tutte le aste dalle bandiere. Una domanda a mezz’aria: “Ma come si sventola così?”. La più classica delle risposte: “Non dipende da me, sono disposizioni e ci atteniamo. Però – si sente di aggiungere il milite – non appena finita la partita ve le restituiamo”. Sguardi perplessi. Ha smesso di piovere, il cielo è grigio, l’aria è afosa. Il San Vito è vecchio decrepito: uno stadio malmesso, monumento esso stesso di un calcio oratoriale spazzato via dal tempo implacabile. La polizia fa filtro nelle due vie d’accesso al settore. C’è un tornello. Ci sono due steward.

Aspettiamo che i due piloti tornino dal parcheggio. La nostra jolly roger è rimasta com’era, attaccata all’asta con determinata ostinazione. Sfuggita al frugare, è disinvoltamente passata aldilà del cancello. Chiedo: “Ma come avete fatto?”, “Semplice – è la risposta – sventolando”. Mi viene in mente Fantozzi e la sua radiolina. Il posto più sicuro per chi nasconde è sotto il naso di chi cerca. Abbiamo uno spicchio di curva, speculare a quello dei padroni di casa. Sono divisi, dall’altra parte: un buon gruppo sopra il generico striscione Curva Sud, uno piccolo ma compatto sullo striscione Brigate. Un tempo gli ospiti si accomodavano in un angolo alto della gradinata. Fa caldo. Si appendono le pezze. Mancano dieci minuti all’inizio. C’è una specie di sospesa indifferenza nell’aria. È ben lungi dall’essere una bolgia, questo stadio. Un tempo era diverso, ma adesso non c’è più tempo per rimpiangere il tempo andato. Ci compattiamo, ma sembriamo sfilacciati. Dobbiamo sostenere i ragazzi, sperando in un’insperata riscossa. Ma soprattutto siamo qui per noi. E partiamo in sordina. “Tu devi gridare, non cantare!”, urla Angioletto, dal volto contratto e per niente addolcito dalla paternità. Il Conte dopo un po’ si preoccupa, e comincia a guardarsi attorno. Poi annuncia: “Non è a me”. E urla il solito: “Diamogli una lezione di tifo!”. Squadre in campo. Quel che accade in campo non è degno di interesse. Di solito, lo si intravede appena. Ma stavolta non c’è bisogno di un esperto per notare che i nostri sono più pietosi del solito. In macchina con noi sono venuti un paio di Nocivi. Abbiamo parlato anche di questo: di come probabilmente la questione societaria abbia shermato l’incapacità dei ragazzi, finendo per sottrarli alle contestazioni che meriterebbero. Oggi sembra chiaro che è così. Dopo il consueto quarto d’ora, prendiamo un gol ridicolo. Noi cantiamo, alziamo i decibel. A volte sembra un gioco: cantare a squarciagola nelle situazioni disperate per dimostrare mentalità o chissà cos’altro… Potrebbe quasi sembrare, ad occhio estraneo, una specie di goduria rovesciata, un piacere perverso nell’atto del protomartirio. Non è così, ed è dura da morire. Un decennio tra terza e quarta categoria, unito all’amore profondo per la quella maglia e i suoi colori, provocano fitte lancinanti ad ogni rete subita. Ma siamo qui per dimostrare che non ci arrendiamo. E allora svolgiamo il compito a dovere. Incassiamo il secondo e il terzo. La partita è chiusa alla mezz’ora, o giù di lì. Fa male, altroché. Ma siamo a Cosenza, a 400 chilometri da casa. In ottanta. Rappresentiamo Foggia, non possiamo metterci a fare capricci come bimbi viziati. Con la squadra, la società, ci sarà modo di discutere. Ma qui si incita fino al novantesimo. Il malumore è nerissimo. Il caldo, apertamente africano. In bagno, alla fine del tempo, volano battute amare e ciniche. “Mario, ti va bene il pareggio?”, “Neanche per sogno, questa la dobbiamo vincere”. Mi chiama Antonio dalla cabina: ridere o piangere per questa squadra senza spina dorsale? Impossibile dirlo su due piedi. Ho visto io stesso uno dei nostri difendere palla sulla linea di fondo, a mezzo metro dalla bandierina; chiamare a sé, palla al piede, un difensore rossoblu; alzarsi il pallone, come a preannunciare un gioco di prestigio, una magia. E al secondo palleggio indisturbato, osservare il pallone uscire fuori. Nella ripresa prendiamo anche il quarto. È una disfatta. Non ci resta che usare l’ironia. Andiamo, andiamo, andiamo a vincere. E attendere la fine. Che pure arriva. I nostri pensano di venirci a salutare. Il nostro è uno di quei gesti che – nel suo piccolo – fa la microstoria di questa stagione: tutti di spalle. Meritiamo di più! Sbircio i giocatori chinare il capo, tristi come bambini. Ma davvero pensavano ad una benevolenza infinita? Mi torna alla mente l’inseguimento al pullman di Delio Rossi. Mi torna in mente Sanò. Uno mi guarda dal gradone di sotto: “Se ne sono andati?”. Si, si, puoi girarti. All’uscita prevalgono le note di Lupin. Poi è una serpentina tra le vie. Tifosi cosentini ci passeggiano accanto. Non fanno in tempo a sfotterci che rimangono sfottuti: quattro, quattro, ripetiamo con le dita. Loro non capiscono. Il blindato della polizia ci accompagna fino all’uscita della città. Non abbiamo ripreso le aste. Lo Stato ha disilluso una formale promessa. Faremo formale protesta.

Look back, Look back, Atena was black

Dormi sepolto in un campo metano, Non è la rosa non è il gas propano.

Un sole giallo copre la distanza tra la statale e le montagne. La strada è nostra, nostra è la serata. Comincia l’avventura. Nicola reclama il suo abbeveraggio di metano. Giuseppe, su Google, aveva parlato di Castrovillari. “Ma Castrovillari dove?”, “Castrovillari”. Chiediamo ad un motociclista appiedato che fa la guardia ad un drink bar. Gesticola. Ci narra di una rotonda e di 400 metri sulla sinistra. Ringraziamo. E quello, per tutta risposta, incalza: “C’avete un euro? Cinquanta centesimi?”. Prima sbandata in campagna. Ripieghiamo. Un benzinaio ci racconta di una seconda rotonda, e di un chilometro da fare a destra. Ci impelaghiamo nella natura silvestre. Troviamo la Esso. Ma è chiusa. Il Conte, con la felpa raccattata dagli scarti di uno zingaro felice, s’avvicina ad un elettricista e cerca di convincerlo a mettere in funzione il distributore. Quello non sa come spiegargli che la richiesta è assurda. “Che ha detto l’addetto?”, “Non l’ha detto”. Ripieghiamo ancora. Scartiamo l’ipotesi del bar in piazza e sfidiamo il tempo. Il prossimo distributore è a Sala Consilina. I chilometri ascensionali sono tutti in una strada nera a due corsie, immersa nel nero della vegetazione. No surprises dei Radiohead ci fa da ipnotica colonna sonora. Allo svincolo per Potenza, seguiamo la sorte. Una salita, un paio di curvoni, un cartello. Benvenuti ad Atena Lucana. Non ci pensiamo due volte. Parcheggio e bar. Buonasera. Il momento che storicizza le trasferte. Panzerotti e birra. La ragazza che gestisce il bar, popolato da una decina di ultrasettantenni, si incuriosisce: “Ma che ci fate qui?”, “Andiamo a vedere la partita del Foggia”, “E a che ora gioca? Alle otto e mezza?”, “No, ha già giocato”. Resta basita. Tifa Napoli, ci confida. Ne approfittiamo per chiederle se il tappo del Borghetti al San Paolo sia effettivamente azzurro. Nega decisamente. Un’altra leggenda sfatata, siamo come il Cicap. In tv va la Salernitana. Fuori il buio e la curiosità. Girano foto oscene. Mi torna in mente che stasera, alle undici, Espn trasmetterà lo speciale sulla cosiddetta Zemanlandia. Dentro di me spero di trovare mio padre già addormentato. Non accetterei un sorriso modello bei vecchi tempi dopo una giornata come questa.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

fo-ggia-cha-cha-cha
i-nde-ba-cca-là
i-ri-go-ri-so-no-tre
fo-zza-fo-ggia-olè

Anonimo ha detto...

Grazie.

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