19/04/10

Dancing to Portogruaro

Antefatto aereo

“Portogruaro”, di solito dice uno. “Scusa la mia ignoranza, ma dov’è?”, risponde subito l’altro. “Tra Venezia e Trieste”. Nelle Venezie, per gli aulici colti dall’istinto di dissimulare. Ci andate in treno? No, in furgone. Ma una voce fa capolino: pare che una tra Darwin e Skybridge sia interessata ad allestire un charter dal Gino Lisa. In aereo? Ma neanche per sogno! Neanche in Russia! Neanche in Uefa! Se togli il viaggio, che resta? E poi – osservano occhiuti i contestatori – qua mi sa che, stando alle prime notizie, bisognerebbe viaggiare con la squadra e lo staff. No, no, no. Indicibile promisquità. Ci manteniamo sul classico, anche se il paesello non è dietro l’angolo e le spese lievitano. Blocchiamo un bel sette posti, ma una smorfia compiaciuta si dipinge sul volto: il Foggia che viaggia in aereo. Penso sia la prima volta in assoluto. Pure ai tempi dell’anglo-italiano saranno andati in pullman. Poi erutta un vulcano. Il Eyja-fjalla-joekull. Cenere e lapilli, dal buco del mondo in Islanda, si rovesciano sul Regno Unito, l’Irlanda, la Scandinavia. Una nube abrasiva attenta al traffico aereo di un continente. Gli aeroporti di mezza Europa chiudono già da mercoledì. Ma la nube – in quanto tale – si sposta coi venti. E sabato, dopo Germania, Francia, Spagna, dopo le ansie e le paure di Flaviana per il suo viaggio a Lisbona, chiudono anche le piste del Nord Italia. Trieste compresa. È ironico e globalizzato al cotempo. Novant’anni di storia, e quando si è deciso di spiccare il volo verso il futuro, l’ultima parola spetta a un vulcano islandese. Che si chiama Eyja-fjalla-joekull, oltretutto.

Domenica 18 aprile, Portosummaga-Foggia 1-1

La sveglia interrompe un sonno ristoratore, circolare, completo. Sono le 2:15. Il buio invade la stanza dalle imposte lasciate aperte. Caffè e sigaretta. Ceska mi apre onirica e mi consegna una teglia di pasta al forno. La movida sciama tra le vie del centro storico. Io, sciarpetta al collo e teglia a due mani, sono un estraneo. Felice di esserlo. Il Ford Galaxy è parcheggiato fuori dalla sede. Ha una linea aggressiva, pescesca, gli interni puzzano di pelle, la radica impreziosisce i dettagli. In una parola: è ciaciacco. Ma legge gli mp3. Si fa strada l’ipotesi di fare la statale fino a Pineto, a Roseto, a Pescara, boh, almeno a Vasto. Nicola mi porge la sua doppia compilation dance anni Novanta. Carichiamo il baule di pezze, bandiere e arance della salute, gentile dono di Daniele, bloccato dal lavoro. Partiamo. Ed è subito nebbia. Velieri all’orizzonte, sentore d’arrembaggi improvvisi. Schegge di sonno in seconda linea. L’autostrada. Il mare si intuisce appena, l’andatura è buona, non ci sono soste. Non troppe, almeno. L’appuntamento è a Bologna. Angioletto e Davide ci hanno inspiegabilmente convinti a sbucare su via della Corticella per completare il quadretto di lontananza. Nella immaginifica tabella di marcia dovremo sbucare ad Arcoveggio non più tardi delle 10, per avere qualche possibilità di farla franca nel traffico del capoluogo. I'm Blue da ba dee da ba daa. I cassetti dell’ipotalamo si aprono per dissotterrare perle d’epoca, dimenticate come la più alta civiltà dei sumeri. E mancano venti minuti alle 9 quando entriamo in orbita. Angioletto viene buttato giù dal letto. Muoversi! Siamo in anticipo, il che è sempre un bene (per qualche oscuro motivo che sfugge sempre più spesso), ma un male per il fegato. I due esuli sono a centro strada, si sbracciano. Li raggiungiamo. Saluti e baci, “Mo ti faccio vedere la Bolognina, il luogo dove Occhetto…”, “Zitto, zitto, ho capito, evitiamo di parlarne”. In sette, nerovestiti, alle porte del luogo dove il Pci morì suicida. Ironico. Il bancone del bar è un luogo atemporale, ma non nel senso canonico. Ho due ore di sonno e sento la stanchezza come se viaggiassi da dieci ore, da quindici o da sempre. E incontrare Angioletto, con le sue “nius” in un tale stato psicofisico è deleterio. Nelle stanze da Bar Aurora di wuminghiana memoria, giocano a biliardo e bussano a tressette. C’è tanta gente e tanta altra ne arriva. “Questi si sono prenotati alle 6”, pensa e dice il Conte, incredulo, mentre li osserva con fare cupo da maniaco. Giuseppe si sofferma sulle statistiche del torneo di tarocchino, che presto – ne siamo certi – aggiungerà alla sua mortifera contabilità da Marzotto del 61/62. Nicola si aggrega a quelli che guardano il gran premio. Un sorso di cappuccino e abbandoniamo quel luogo sconsacrato. All’autogrill c’è tanta polizia. Roba di bolognesi che salgono in Friuli. Un benzinaio ci saluta: “Siete tifosi anche voi?”, “In un certo senso”, “Di che?”, “Foggia”, e quello: “Foggia e?”. Angioletto, spiazzato da cotanta involontaria ironia, allarga le braccia: “E bast!”. “Dove andate?”, “Nelle Venezie”. Per l’appunto. Dissimulazione. Ma mancano due ore di viaggio. E sono da poco passate le 10. Il Borghetti nuovo e quello vecchio necessitano di un luogo di decantazione. Scegliamo Cento, come avremmo potuto scegliere Cinquanta. È giorno di mercato. Passeggiamo come turisti tra bastioni e bancarelle e a me tornano alla mente le ore di Pizzighettone, quelle che precedettero la catastrofe. È una mattinata amarcord, a ben pensarci. Alla Snai suggeriamo caldamente il 2 del Foggia. Si gioca contro la capolista e dobbiamo fare a meno di sei titolari, garantisce Teleradioerre. Ma ciò nonostante “Mettete il due al Foggia” suona più come un imperativo che come un disinteressato consiglio. “L’altra mattina ho visto una partita del campionato giapponese. Lo sapete che l’Osaka c’ha gli ultras che si chiamano Brigate?”. Mattia vorrebbe acquistare un cappello sovietico. Lo invogliamo a desistere. La campagna emiliana è costellata di capannoni inustriali. Torniamo sull’A4, e il Conte al volante indossa occhiali fashion. In meno di due ore siamo a Portogruaro. Ed anche qui è la memoria a fare salti. Ci siamo stati ad agosto, sulla strada per Trieste. Abbiamo passato un intero pomeriggio ai mulini, tra il rumore dell’acqua e una interminabile gara d’assaggio di vini bianchi e spritz. E subentra la malinconia nuova: sembra ieri che andavamo incontro alla prima di Coppa, eppure questa è l’ultima trasferta della stagione. Di già. Un epicureo Mattia si fa saggio e ci riprende: “E cazzo, ma godetevele le cose!”. Gruppi di compatrioti fuori dai bar lungo la strada del settore ospiti. Saluti e insulti. C’è chi ha inrociato quelli del Celano Olimpia diretti a Gradisca e chi i fanesi che puntavano Bassano. C’è vita, ancora.

All’ingresso è tempo di dubbi – “Ma quello come la sa sta cosa?” – e di doppi, tripli prefiltraggi. Il nostro settore sembra quello di Manfredonia, anche se è più ferreo e più piccolo. Facce conosciute, facce solite e molti emigrati. Siamo un duecento. Auguri Sergino, dice il nostro piccolo striscione bianco. Il pargolo di Jordan al battesimo, “l’inizio del suo rapporto con le istituzioni ecclesiastiche”, come sottolinea qualcuno. Lungo corridoio per l’ingresso delle squadre. Compatti siamo notevoli. Noi / Vogliamo / Questa / Vittoria. E si capisce che siamo in palla. Le trasferte in culo al mondo ispirano. E Canto per te / Solo per te è un biglietto da visita che dura dieci minuti. Bello. Ci guardiamo l’un l’altro e annuiamo, ci carichiamo, ci esaltiamo. Di fronte c’è una sparuta rappresentanza di tifosi organizzati. Evitiamo i commenti, anche perché ne abbiamo già fatti a sufficienza in macchina: l’idea del deprimente stato del calcio italiano trova la sua realizzazione più compiuta nei fenomeni che i media si ostinano a magnificare. E si parla di Grosseto, Chievo, Cittadella, Sassuolo, dove a squadre costruite per vincere e divertire fanno da contrappunto stadi oratoriali (Verona a parte, ovviamente) semivuoti e zero tradizione. Mentre Salerno sprofonderà dove è già l’Avellino, il Messina, la Casertana, lo Spezia, il Pisa. Meglio non pensarci. Qui nessuno intende criticare quei mille e passa tifosi che oggi sono qui al Mecchi. Brava gente che vive una dimensione pulita e sana della passione sportiva, distante anni luce dalla mia, però, come dire… immaginarli in B fa venire le fitte al pancreas. In ogni caso, il Foggia visto dalla gradinata sembra motivato e senza timori. Aumentano i rimpianti. In questo finale di stagione, pur di evitare l’ultima trasferta a Giulianova o Avezzano, per colpa di quelli che c’erano prima e della corte celeste dei cattivi consiglieri, si è costretti a infilare una grande prestazione dietro l’altra. E che non sempre portano punti. Essere chiamati all’impresa come precondizione della normalità è frustrante. Come essere costretti a salire su un letto a castello di mille pioli per schiacciare un pisolino. Cantiamo, e tanto. I battimani sono belli, rapidi e completi. Gli emigranti partecipano più che in altre occasioni e le bandiere sventolano ininterrotte. Bell’effetto. Il Foggia rischia una volta, poi sfiora il vantaggio in due occasioni. Alla fine del tempo, c’è la possibilità di prendere un po’ di sole. Fa un caldo folle, in questa landa austro-ungarica. A Foggia pare piova dalle prime avvisaglie dell’alba.

Quando le squadre rientrano, qualcuno invoca pietà: “Altri dieci minuti”. Ma bisogna scuotersi, essere all’altezza dei nostri che se la stanno giocando, dicono dalla balaustra. Essere all’altezza dei nostri primi 45 minuti, penso io. L’inizio è debole, poi cresciamo. D’improvviso, come per un segnale cerebrale. Il settore canta, sventola, segue. È uno spettacolo. È divertentissimo e, al tempo stesso, molto emozionante. Il calcio d’angolo trova la testa di uno dei nostri. E passiamo in vantaggio, nel nostro momento migliore. C’è una conseguenzialità che fa pensare, come la riscoperta degli Eiffel 65 e le nostre compilation. Per non parlare di Shaggy. Closer than my peeps you are to me, baby. Shorty, you're my angel. Come che sia, il Foggia è avanti. L’impresa di cui avremmo bisogno per evitare l’appendice playout. Per schiacciare un pisolino. E dopo cinque minuti d’incredulità, riprendiamo. Più forte di prima. Fino all’apice: Forza Foggia / Vinci per noi, con tanto di eco che ci riporta indietro il coro. Girano bottiglie d’acqua clandestine, si spaccia Cola. Rischiamo il raddoppio. Poi il sogno si brucia nel fuoco del pari. A dieci dal termine. Risentiamo della botta, mentre l’urlo di gioia – infantile, pulito e per questo distante come un messaggio dei marziani – di quelli di fronte ci riporta sull’amara terra. Cerchiamo di ripartire, e quasi quasi ce la facciamo, come del resto quelli in campo. Ma alla fine è pareggio. Sul campo e solo sul campo, ovviamente. Certe cose, per fortuna, non dipendono dalle disponibilità economiche degli imprenditori locali.

Cronache da Portogruaro stessa

Ultimi a lasciare il settore, lenti come vesciche sottocutanee, incocciamo contro la crudele osservanza delle leggi della barista. Niente alcolici fino alle 18. Allora posso fare da cicerone: andiamo in centro. Nel gruppo c’è un milite che stasera rischia il mancato rientro, dall’altra parte del Nord Italia, e c’è anche chi fa sondaggi per sapere se rischiare l’1 alla Lazio e incassare svariate migliaia di euro o coprirsi l’ics-due. Ovviamente, il plebiscito dei vigliacchi è per l’assoluta mancanza d’audacia. Sulle scale di una villa abbanonata imbandiamo pasta al forno, taralli e panini. Nella migliore tradizione stilistica meridionale. In tre ci avventuriamo alla ricerca di qualche birra di contrabbando, che otteniamo pedinando un buongustaio locale. Non possiamo rilassarci come vorremmo, perché la fretta ci morde il culo. Però un quarto d’ora, dai, ce lo meritiamo. Troppo. La digos locale ha tutto l’agio di individuarci. Parcheggiano. Scendono in tre, si avvicinano. Nessuno dei nostri dice “’e magnà?”, cosa per lunghi attimi sospetto avverrà. Non sembrano incarognirsi dinanzi alla scena da lessico familiare, piuttosto appaiono curiosi di venire a capo di qualcosa. Ci domandano del furgone, poi accennano ad un drappello di tifosi in stazione. Ma siccome Noi non collaboriam, gli rispondiamo che boh, noi abbiamo fame, mangiamo e ripartiamo. Di nessun altro sappiamo niente. Si, si, fanno quelli, ma il dubbio è altro, ed è atroce. Si appalesa pochi attimi dopo, quando le preoccupazioni soppiantano i pudori da gioco di ruolo: “C’è quel signore un po’ strano in centro, quello vestito elegante, col cappello e il mantello… Sapete se se ne torna con qualcuno?”. Ci viene da ridere. Il livello di tranquillità domenicale dell’opulento Nord-Est da stuscio alle prese con il Supertifoso a piede libero. La quiete monofamiliare del passeggio tra i caffè minacciata dalla libertà d’espressione di un singolo, distinto terrone. Hanno paura che non se ne vada più. Così, in quel preciso istante, ho letto nello sguardo del tutore della legge la certezza che, se fosse rimasto lì così, semplicemente a parlare al telefono, l’intera Portogruaro sarebbe stata pronta a spostarsi, palo dopo palo, palafitta dopo palafitta, in mezzo al mare. Una novella Venezia che, come l’originale, è pronta ad edificarsi per sfuggire ad un pericolo inaffrontabile. Mi sento di tranquillizzarli. Tutto si sistemerà, in un modo o nell’altro.

3 commenti:

4seasons*casuals ha detto...

-indigeno:"scusi puo' spegnere la sigaretta?c'è mia figlia e mia moglia ke è incinta..."
-supertifoso:"ua-gliò-vi-d-ndo-è-jì-chi-sì-tu-ke-me-fà-ì-ttà-a-si-ga-re-tta?"
-i:"ma io kiamo la polizia..."
-s:"kia-m-a-ki-caz-vuj-tu-co-rnu-to"

Lobanowski ha detto...

Stile, stile e ancora stile...

quattrostagionicasualfirm ha detto...

c'è solo sesso e calcio in tv...
quei cari e bei settori ormai non ci son più...
ke fine hanno fatto i vekki settori...
dove ti potevi scontraaaaaareeeee?
la famiglia griffin è quiiiii...
lei può rallegrarti ed emozionarti...
con le sue avventure....
più out ke in!
la-fa-mi-glia-gri-ffiiiiiiiiiiiiin!!!!

4seasonscasuals

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