05/11/12

Dall’influenza al rigore


Sabato 3 novembre, Internapoli Puteolana-Foggia 1-0

Tre giorni di febbre.
Uno, forse.
Nessuno, anzi.

Però la testa che duole, la tosse bronchiale, la spossatezza dei muscoli svuotati, mi legittimano. A rimanere a casa, che non si sa mai. Piove, oltretutto, lo vedo dalla finestra. L’asfalto è lucido. La febbre, poi, magari c’è davvero. Ma il mio termometro è moderno, di quelli che fanno “bip” quando hanno ottenuto una temperatura accettabile. Solo che il mio il “bip” non lo ha mai fatto, da che lo conosco. E così, per noia, ho preso per buona la prima cifra impressa sul micro-display. 36,1. Ho la febbre a 36,1, mi ripeto. Come logica conseguenza – nel pieno possesso delle mie facoltà mentali – mi gonfio di TachifluDec. L’intruglio che quella tipa beve al bar e poi va pure a teatro. Nella pubblicità. E mi drogo di Megadisastri aerei su Focus. Cazzo, 583 morti quella volta a Tenerife. Un botto spaventoso! Colpa degli olandesi, senza alcun dubbio. Grano cotto. Non voglio perdermi Pozzuoli. Perciò evito le ricadute, pure quelle relative ai malanni immaginari. Pozzuoli è Napoli, alla fine. Gli altri mi hanno raccontato di quella volta che, insomma, ci siamo capiti. E stavolta voglio esserci. Certo, non è la stessa cosa. Sono cambiate le epoche, ma questo è ormai talmente futile da specificare che potremmo apporlo come incipit di ogni digressione al riguardo. Sono cambiate le epoche. Ok. Ma perché ci lasciano andare? Già, perché fino all’ultimo nessuno – di quelli che sento al telefono – sembra crederci fino in fondo. E quando giunge la matematica certezza – 200 tagliandi – provo l’esatto, esofageo, opposto del divieto di Bisceglie, condensato – ironia della sorte! – nella medesima domanda: perché? Già, perché l’epoca dell’Osservatorio vive anche questi scompensi ormonali. Se no, perché no? Se si, perché si? È un dilemma che coinvolge l’onore e il rispetto. Mi sento smarrito, ma subitaneo mi rispondo: non giochiamo in serie D da mai, mi pare ovvio non avere tante rivalità, o rivalità di cui portino memoria i capoccioni del Ministero. Però fa strano lo stesso. Guardo la zona flegrea su Google. Tutti quei buchi per terra. Studio, mi applico, ho tempo. Crateri, solfatare, vulcani ormai inattivi che secoli fa in quattro giorni hanno creato – con la loro lava – vere e proprie colline. Leggo. C’è pure un parco, con tanto di camminamenti e sentieri montani. Sarebbe interessante, da turista, penso. Poi – sotto Montenuovo – vedo lo stadio. Il “Conte”. Non mi dice niente di buono, sto nome.

“Alle dieci e mezzo dobbiamo essere partiti”. Il tono al telefono è imperativo. Andrà così, mi comunicano le voci. Alle undici meno dieci sono l’unico del mio gruppo. Guardo il cellulare. Mi convinco che no, non devo chiamare nessuno. Ma tutti attorno guardano me, con le facce che comunicano tolleranza, disponibilità e Macheccazz. Allora, timidamente, provo a fare un giro di perlustrazione. Di alleggerimento. Ma niente. Paziento. E solo quando vengo sopraffatto dall’idea che il mio gruppo abbia approfittato della mia assenza febbricitante per sciogliersi e fuggire all’estero, comincio a chiamare. Rispondono che sono in strada, che stanno arrivando. E, uno alla volta, spuntano tutti. Soddisfatti. Alle undici ne manca solo uno. Il Conte. Per l’appunto. Al telefono è fulminante. Ha un cervello spugnoso, quell’uomo abominevole. La sua capacità di confezionare ciclopiche menzogne, la velocità con cui ci riesce, fanno somigliare le sue giustificazioni a quelle puntate di Quark dove si seguono insetti operosi lungo un’intera stagione, col video accelerato per esaltarne la laboriosità. E alla fine, in entrambi i casi, sono palle di seta. Il Conte è uno che non ha mai mollato il banco di scuola e il libretto. “Che ha detto?”, mi chiedono. “Che sta arrivando. Ha parcheggiato dieci minuti fa…”. Gli sguardi attorno si fanno scettici. Mi trasmettono, senza bisogno di parole, che in dieci minuti a Foggia si copre una distanza enorme. E quello abita qua dietro. E poi: è impossibile che abbia deciso di parcheggiare così lontano dal luogo dell’appuntamento, quel bestio. Hanno ragione, ma preferisco passare per ingenuo che accettare l’ipotesi di scannarlo appena arriva. No, grazie, non bevo Borghetti, sto ancora male. No, non mi accocchio per le birre. No, neanche per il William Lawson’s. Il pullman è dell’Ataf. L’autista, a bordo da oltre mezz’ora, sembra il frontman di un gruppo rock, di quelli che fanno le cover della Steve Rogers Band. Sciarpe, felpe nere, aste, sciamano verso l’imbarco. Alle undici e dieci, alle mie spalle, spunta la macchina del Conte. E non è sola. Dieci minuti dopo, siamo a bordo. Cinquanta di ritardo. Potevo dormire un’ora in più. Ci sistemiamo con gusto estetico. Scommettiamo che questo autista c’ha il telepass. Di sicuro ha imboccato la Candela circumnavigando Foggia. E in tanti hanno già fame quando i palazzi in costruzione sono ancora in bella vista. Enzo tradisce un gusto tedesco per i panini che si appronta. Io penso che un bicchiere di whiskey non possa che farmi bene. E lo pensano anche altri che avevano rinunciato all’accocchio. Si sbraita. E il William Lawson’s si spegne prematuramente, poco prima del casello. C’ha il telepass. E la notizia scatena il putiferio. Una gioia incontenibile. C’ha pure il bagno a bordo, ma non lo userà nessuno. Per principio.

L’autostrada è la solita. Quella che punta Benevento. I nostri oracoli, quando ad agosto presero vita i calendari, sentenziarono: “Dimenticatevi la Campania”. Esclusa la tappa a Termoli, in Coppa, questa è la terza trasferta della stagione. La terza in Campania. Un autogrill e un po’ di macchine decollano. Qualche coro solitario. E Napoli spunta prima del previsto. La densità abitativa di questi luoghi mette una certa ansia claustrofobica. E non è tanto per lo scenario del Vesuvio e della metropoli, quanto per la sterminata periferia. Urbanizzazione ovunque, case basse dappertutto, un work in progress costante. Il pullman, rapito dalle pattuglie senza che quasi ce ne accorgessimo, mette il muso in un paese uguale a tanti altri già visti. In giro non c’è nessuno. È ora di pranzo. Ed è sabato. Ci fermiamo davanti ad un chiosco della frutta. Non sappiamo perché. Poi veniamo invitati a scendere. Pensiamo che il metallaro alla guida non abbia voluto essere da meno del suo esimio collega di Sant’Antonio. Dove si sarà conficcato il mezzo, stavolta? Scendiamo incuriositi dalla catastrofe, ma al posto del sinistro c’è una scalinata. Una scalinata in mezzo al nulla. È lo stadio. In fondo alla strada una camionetta dei carabinieri, applicata diagonalmente sul manto stradale, ha letteralmente saturato la stradina. Per passare da una parte all’altra bisognerebbe volare. O strisciare appiattiti sotto il semiasse. Grandi precauzioni. Gli steward alle porte incitano la nostra calma. Il biglietto è il solito tagliando Siae, sormontato stavolta dal simbolo del sodalizio flegreo. Che ha pure il satanello, nella parte alta, e questo fa propendere molti per l’atto di galanteria. Ma la galanteria non si esercita con un timbro su un tagliando della Siae. Lo si studia alle medie. Due tribune e nessuna curva. Noi siamo dietro la panchina degli ospiti. Gridiamo in testa ai nostri. Il manto erboso fa raccapriccio. Le squadre entrano in campo. Di fronte entrano pure gli Ultras locali. Fanno blocco. E pure noi ci stringiamo. Ci sono anche svariate famiglie, nel nostro settore. Si accomodano ai lati. Fa piacere. Ma non nego una punta di rammarico. Il Foggia dei foggiani, attrezzato in quindici giorni, è reduce da una vittoria importante, contro il Matera. Sta dignitosamente lottando nei quartieri alti di una categoria dove le altre società, per salire, spendono milioni. Cosa aspettano i tifosi foggiani a dimostrarle riconoscenza riprendendo a viaggiare? Sarà la disillusione del crollo, ma ormai abbiamo avuto mesi per metabolizzare; sarà la disabitudine, dovuta agli anni della Tessera. Ma adesso non ci sono più scuse. Le trasferte da cento Ultras vanno bene, ma la piazza calda dov’è finita? Eseguiamo il repertorio. Ci piaciamo così così, all’inizio. Siamo entrati a freddo, con le squadre praticamente già in campo. Carburiamo in fretta, con le pezze ancora in allestimento. Mettiamo anche la bandiera coi cannoni. Si lotta, sul campo di patate. Ingraniamo e i cori volano alti. Quelli di fronte cantano ed eseguono battimani. Ma evitiamo di cadere nel vaffanculo reciproco. Siamo il Foggia, e pure questo mi pare d’averlo già detto. Zero a zero e tante botte, una sola occasione. Ma siamo belli, non c’è dubbio. Nell’intervallo c’è una visita guidata ai bagni dell’impianto. Bisognerebbe cambiare un po’ di tubi o decidersi a smontare la ceramica. Se deve finire tutto a terra, tanto vale togliere l’illusione al pisciatore. Nella ripresa siamo più reattivi. Sentiamo che i ragazzi sono entrati determinati, annusiamo la vittoria possibile, e battiamo il ferro come maniscalchi. Le bandiere sventolano incessantemente, le torce fanno fumo, il Foggia preme. Guadagna angoli e punizioni dal limite. Sarà capitato anche a voi di avere una squadra del cuore. Per una decina di minuti. Poi la pressione si fa palpabile. E Siamo qui per te, devi vincere diventa un pungolo nelle natiche. Avanti! A prenderci i tre punti! A dare un senso gladiatorio a questo campionato! Il portiere s’allunga e mette in angolo. Il frastuono del coro è sovrastato dalle lamiere battute a oltranza, dal tamburo che chiama alla breccia. Avanti! Ma non sembra giornata. Poi la Puteolana s’allunga e a due passi da noi possiamo vedere l’intervento del nostro difensore. Pulito. Sulla palla. Pensiamo a ripartire, invece l’arbitro fischia il rigore. Di fronte a noi il blocco flegreo riprende vita. Noi protestiamo: stavolta l’abbiamo visto tutti. Il rigore non c’era. Ma quelli realizzano e noi ci sfilacciamo. Ma il Foggia non demorde. E, prima rischia il tracollo, poi si tuffa a testa bassa dall’altra parte. Ripartiamo anche noi, con un’intensità pari ad una scalata. È un assedio e ci giochiamo le corde vocali. Un attacco di tosse, l’acqua finita. Il palo, poi un paio di botte da fuori, un salvataggio sulla linea, un colpo di testa a botta sicura che finisce fuori. È una disdetta. Di fronte cantano, esaltati dalla difesa a oltranza dei granata. È finita. Vinceranno tutte le altre, domani. Ci allontaneremo dalla testa della classifica. E pure da quell’entusiasmo che tanto ci servirebbe per riprendere il volo. Un applauso ai nostri, che hanno lottato, mentre di fronte sono in visibilio. Vi vogliamo così, cantano. Glielo cantiamo anche noi, a loro, quando provano a farsi mantenere. Quando inscenano la finta del desiderato contatto. Sfolliamo, con negli occhi la scena dell’ultimo scalatore, uno che per venirci a prendere si è issato a mani nude su un palazzo. Onore a lui.

E poi c’è quel momento in cui Grottaminarda è una suggestione collettiva.
Che l’autista innesta il pilota automatico, regola la velocità da crociera, e accende le luci verdi.
E tutti si stravaccano sui sedili. E pensano alla settimana appena finita e a quella che deve cominciare. E chiedono se c’è un tarallo in qualche busta. E un po’ d’acqua, meglio una birra. E i Pocket Coffé volano sulle teste a fare male. E la sconfitta ha debilitato un po’ tutti, ma tanto non siamo qui per il risultato, peròchecazzo. E i cappucci coprono la testa, gli occhiali da sole oscurano i volti. Quel momento che non ci sono neanche le bollette da controllare, che è sabato e c’è solo l’anticipo. E pensi che stavolta è diverso dalla volta prima. Stavolta chiudi gli occhi e ti dici che non vuoi aprirli fino alla statale.
Poi un sibilo deforme, un gracchiare sospetto, ti porta ad aprire un occhio. L’occhio sinistro. Quello che da sul corridoio.
Prove tecniche di trasmissione una fila dietro. Occazzo, no.
Invece si.
Panico-pa-pa-panico-pa-panico-paura.
L’arbitro è un cecato e Panico-pa-pa-panico-pa-panico-paura.
E ci hanno rubato la partita, Panico-pa-pa-panico-pa-panico-paura.
Ci volevano gli occhiali e Marijuana, cocaina, panico-paura.
Panico-pa-pa-panico-pa-panico-paura.
Si, stavolta è diverso dalla volta prima. Stavolta è peggio.

E Grottaminarda mi sa che non esiste.

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