04/11/12

Il campo santo


Carapelle, 4 novembre 2012

I satanelli li fecero vedere a Telefoggia. Una sera d’inverno. O di primavera. Non ricordo più. Erano gli anni Ottanta. Il secondo scorcio, quello casilliano. Restyling si definiscono ste cose, oggi. All’epoca no, all’epoca si era più immediati: “Stasera fanno vedere le nuove magliette e il nuovo simbolo”, ci disse la fiumana del passaparola. Semplicemente. E semplicemente ci mettemmo dinanzi al televisore bombato, nella camera in mezzo. Io ho sempre adorato l’altro simbolo. Quello a tre bande verticali. Quello che sta sul taschino del giubbino corto. Quello dell’Unione Sportiva. Ma l’US era morta e dalle sue ceneri, come sempre capita, era risorta la fenice del Foggia Calcio. Quello che, nella sera del televisore bombato, navigava ancora in C1, ma che di lì a qualche anno avrebbe scalato un paio di categorie. Il Foggia Calcio aveva, come stemma, due satanelli stilizzati. All’epoca non mi entusiasmarono.

Oggi, però la storia è diversa.

Novembre, la domenica che segue le celebrazioni dei Santi e dei Defunti (No, Halloween no, non siamo Yankee noi). Cielo grigio tendente al bianco. Calore terrestre statico. In macchina nei primi tratti a Sud della Statale 16. Dietro le montagne si aprono squarci di irriducibile luce solare. Usciamo a Carapelle, seguiamo la direzione dei cartelli che indicano gli Impianti Sportivi e parcheggiamo. In cinque. Nei giubbino si trasuda come piante stanche. Pochi passi tra le casse basse e un cancello. Che un ragazzo, dall’interno, ha appena chiuso. Richiamiamo la sua attenzione, quello torna indietro, apre il lucchetto. Entriamo in un uno spiazzo di cemento. Il campo sportivo vero e proprio dev’essere dietro quel muretto grigio. Un cartello verde sulla porta d’accesso: Stadio comunale Francesco Paolo Di Gioia. Oltre la porta, sulla sinistra, un campo d’erbe selvatiche. In fondo, una tribunetta di travi. A destra, il rettangolo di gioco in terra battuta.
Oltrepassare quella soglia significa arrivare a contatto con un incubo metropolitano. L’incubo ricorrente di questi nostri anni sfortunati. Segnati dallo stigma del Napoletano. Dal suo ritorno nefasto, dal suo influsso maligno. Ha iscritto una squadra alla Terza Categoria. E fin qui, niente di male. Niente di peggio del suo ostinarsi a voler irridere questa piazza rimanendo in pianta stabile in città, quanto meno. Niente di peggio del quotidiano rischio di incontrarlo per la strada. Se non fosse che la squadra che ha iscritto si chiama Unione Sportiva Foggia. E questo si, è il peggiore tra gli incubi ricorrenti possibili. L’ultimo schiaffo, inferto alla vigliacca, com’è nello stile del personaggio. L’ultimo colpo ad una tifoseria già ferita e sprofondata, che campa d’orgoglio, che si tiene in piedi per pura autostima, scagliato da lontano, mentre i tutori dell’ordine trattengono la parte lesa e fanno quadrato attorno al provocatore. Perché questa è la vita reale, non il palco del Festival di Sanremo. Qui i buttafuori si fanno fedeli al più forte, come scherani feudali. Anche quando il più forte è un fallito.

Oltre la porta c’è Carapelle-US Foggia. E c’è da attendersi di tutto. C’è da combattere coi fantasmi. Passiamo. E ci accorgiamo di essere attesi. Un onore previsto. Sono cinque gli agenti della Digos. Forse 6. Evidentemente questo campo sportivo, oggi, s’attesta come l’epicentro del controllo dell’intera provincia di Foggia. S’attendono vampate di inaudita violenza delinquenziale. S’attende la reazione scomposta di una piazza ferita nell’orgoglio, probabilmente. E come coi lavoratori dell’Ikea, è perciò importante che gli sceriffi s’attestino per tempo sul colle. Per avere una visuale ottimale. E poter prendere in fretta le parti degli altri. Ma qui oggi non verrà nessuno. Magari lo sanno pure, i “nostri”. Ma una giornata all’aria aperta, col ghigno a pelle di chi è impegnato a sventare l’indicibile, in questo novembre ancora immaturo, è un bel passatempo. Il nostro ingresso, poi, cambia gli equilibri. Solitari perdigiorno domenicali in visita ai parenti prossimi o pericolosa avanguardia di guastatori di professione? Nel dubbio, mano al telefonino. E alla digitale con lo zoom. Clic, un passo della comitiva. Clic, un altro. Clic, un terzo. Verso un signore che, piegato in due dietro la tribuna, raccoglie marasciuoli. “Qua vengono i foggiani e fanno lo sterminamento!”, dice. Ma no, non verrà nessuno. Noi volevamo vedere con gli occhi nostri. Come facciamo sempre. Volevamo prenderlo in faccia, il muro. Sbatterci sopra, fino ad avere i segni delle intercapedini sugli occhi. Abbiamo semplicemente anticipato o differito il pranzo. C’aggrappiamo alla rete. Le squadre sono schierate a centrocampo. Una, alla nostra sinistra, in maglia rossa. L’altra, in maglia nera. L’arbitro fischia, e quelle corrono a schierarsi, ad occupare le zone del campo. È così che il terzino sinistro è giunto nei nostri paraggi, senza quasi accorgersene. È così che l’abbiamo visto. Lo stemma. I satanelli. Perché anche quelli trattiene, nelle sue luride mani. I satanelli. Stringere gli occhi, stringere i denti. Questo si deve fare. Per non scavalcare la rete. Per non aggredire dei ragazzini che, colpevolmente, vogliono solo giocare al pallone. E sperare di avere qualche centesimo da quel bancarottiere di merda. Stanno freschi. Il fischio d’avvio ci riporta alla realtà. Le telefonate degli “amici” non erano a vuoto. Adesso un defender dei carabinieri occupa lo spazio dell’accesso alla tribuna e ai marasciuoli. Mentre due degli “amici” si sono venuti a posizionare dietro di noi, a distanza di sicurezza. Forse pensano che stiamo per farci saltare in aria. Tre carabinieri parlottano di licenze a quindici metri. L’amico fotografo, invece, seguita a scattare. Sarebbe bello fargli pagare lo sviluppo. Per vedere con che gusto farebbe l’americano!

La squadra coi satanelli segna subito. Uno si ferisce in area. Ma fa male. E fa pena. Restarsene qui, con le mani in mano, a vedere un pezzo della nostra storia scivolare nell’indifferenza sulla terra battuta. Meglio una caviglia slogata. O una lussazione alla spalla. Andiamo. Ma attorno è in corso l’allestimento del set cinematografico dell’ultimo Coliandro. E noi, che non ce ne eravamo accorti, siamo al centro del set. Gli ispiratori occulti della puntata. Un nuovo ispettore – probabilmente l’antagonista maschile della serie – entra oscurato dagli occhiali neri. Un brigadiere lo accompagna nel suo difficile compito di assistente alla partita. Mentre fuori, sullo spiazzo di cemento, slittano altre due pantere dei carabinieri. E una terza è in avvicinamento. Che viene da giungere le mani e pregare che quelli che assaltano i portavalori lo sappiano, che le forze armate oggi sono tutte al “Di Gioia” di Carapelle. E ne approfittino. Ciao, ciao con la manina all’americano che continua a immortalarci. Forse era meglio un video, “amico”. Un tipo ci apre le porte del cancello. Usciamo in strada. Uno sguardo indietro e un pensiero funebre, novembrino. L’ultimo tocco:  “Qui ci starebbero bene due crisantemi”. Uno per la morte dell’Unione Sportiva. E l’altro per noi. Però sono le tre meno un quarto del pomeriggio. […] Il cimitero è il luogo della pace. Per arrivarci, aggiriamo la complanare per Foggia. È chiuso. Ed è domenica, non riaprirà. Sta scritto sul cartello. 8-12. E, sorvolando sui motivi reconditi che spingono l’amministrazione comunale a serrare il camposanto di domenica pomeriggio, l’unica è scavalcare. Depredare un defunto di un paio di fiori, o due defunti di uno. E correre nuovamente al campo, per lasciare il nostro ricordo sotto la lapide verde. Ma non lo facciamo. No, non è successo. Non abbiamo violato la sacralità del luogo. Perché i fiori non sono niente, ma rappresentano. Sono un simbolo. E noi non violiamo questi simboli. Non siamo come il Napoletano, noi.

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