15/11/12

La cronica imbecillità e la nota ritardata



A Termoli, questa estate, eravamo duecento. Forse qualcuno in più. Al calar della sera, le torce colorarono di rosso i bandieroni. Le mani al cielo salutarono l’ingresso in campo del Foggia. Quello che salvato da Pelusi&C. andava ad affrontare il primo impegno di Coppa. Il fotografo immortalò il pathos del momento. E ventiquattro ore dopo, la tribunetta di Termoli divenne un banner, uno di quegli sfondi da pc che tanto successo hanno nel mercato della comunicazione. I tifosi, gli Ultras al seguito, come messaggio promozionale della società calcistica. Con tanto di logo in alto a sinistra e link al sito ufficiale in basso. Espediente per nulla innovativo, a dire il vero. Negli ultimi anni solo il volto di un allenatore ha preso il posto della curva nei manifesti della campagna abbonamenti. E questa società, che sbandierava Tutta un’altra storia come motto, non s’è resa troppo diversa da quelle che l’hanno preceduta. Operazione simpatia, un po’ ruffiana un po’ no, ma in ogni caso non dissimile da Il Foggia siamo noi e Innamorato sempre di più, cori di curva diventati strumento per vendere biglietti alla curva. Niente di male.


In un comunicato stampa diramato in mattinata, il Foggia quest’oggi si dice frustrato, impotente e pieno di rabbia per l’ennesima multa comminata alla società a causa (si) del lancio di oggetti in campo e (soprattutto) dell’accensione di fumogeni. Considera che i ripetuti inviti sono caduti nel vuoto, che non c’è senso di responsabilità, che il danno di immagine è grave. Ritiene incomprensibile, ingiustificabile e insostenibile l’atteggiamento di “cronica imbecillità” dei sostenitori rossoneri. E conviene una serie di minacce, tipo farci pagare di più in casa e fuori.


È la storia d’ogni amore per il folklore. Siamo belli, colorati, calorosi quando risultiamo utili alla causa del marchio. Dodicesimo in campo, quando si tratta di fare incasso ed incitare la squadra alla vittoria. Finanche fotogenici, quando saldare le varie anime della piazza è propedeutico al progetto imprenditoriale. Ma diventiamo di botto dei trogloditi dannosi quando il nostro calore e il nostro colore si tramutano in multe. Colore e calore divenuti stigma di colpevolezza per responsabilità diretta di quelle norme assurde che stanno devastando il calcio come l’abbiamo conosciuto e snaturando la vita da stadio. Perché nessuno, fino a dieci anni fa, avrebbe ritenuto “criminale” una fumogenata. Nessuno avrebbe considerato decontestualizzata l’accensione di dieci, venti, cento torce nel catino di un campo sportivo. Perché gli “artifizi” stavano al campo come le torte ai compleanni. Al giorno d’oggi, invece, oltre ad impegnarsi per ritrovare settimanalmente gli stimoli per recarsi allo stadio, c’è anche da mettere in conto il perbenismo, il moralismo, l’ottusità dei nuovi scandalizzati, ridotti a macchiette da una propaganda capillare quanto meschina. Che punta il dito contro i comportamenti dei tifosi per schermare la viltà degli attori principali del “calcio moderno” – presidenti compresi – di fronte ad un sistema sovraccaricato di regole assurde. Certo, è più facile dare degli imbecilli ai propri abbonati. Più difficile – e bisognoso di una dote maggiore di attributi – è dare dell’imbecille al Prefetto, ai Ministri, ai responsabili di Lega e al Legislatore d’emergenza.


Ma giacché questo è, sarebbe affascinante, per una volta, uscire dal guscio del ruolo. Smetterla – per qualche ora – di essere psicopatici coreografici, esaltati che eseguono perfetti battimani a rondine, deviati mentali che il lunedì lo passano senza voce, e presentare sulla scrivania del nuovo dirigente capopopolo il dossier della nostra pazienza. Dall’abbonamento sottoscritto e non goduto per intero – per evidente incapacità gestionale dei nuovi soci – alle spese di lavanderia per gli abiti indelebilmente macchiati da quella specie di calce che ricopre stabilmente i seggiolini della tribuna; dal rimborso per i biglietti a prezzo intero pagati dalle donne a inizio stagione, prima della nuova ventata “rosa” coi tagliandi a 3 euro, alla chiusura vita natural durante del settore per cui abbiamo firmato un accordo economico a inizio stagione. E così, giù, giù, fino all’indecenza dei bagni. Perché è vero: sappiamo essere calorosi e colorati. Ma non siamo indigeni della Papua Nuova Guinea, tribù esiliate dalla civiltà, che dinanzi al conquistatore bianco con la grana si piegano sulle ginocchia e innalzano lodi al cielo. Abbiamo deciso di supportare questa nuova società, è vero. Ma chi blatera di far assaggiare il bastone ai propri tifosi, deve comprendere che ogni credito goduto ha una scadenza. Che la simpatia acquisita attraverso il costante esercizio del protagonismo mediatico – vero Pelusi? – non è garanzia perpetua per nessun rapporto. Rilevare una società di calcio significa avere a che fare con la passione popolare. Significa ragionare con l’istinto e l’irrazionalità. Mettere in conto che per un rigore non dato o un fuorigioco inventato, anche il presidente dell’Assindustria può trasformarsi in un killer spietato. Che il più mansueto degli uomini, alla vista di un passaggio sbagliato, può nutrire sentimenti di spietata vendetta che vanno dall’autolesionismo alla strage. Che accostarsi ad una realtà con un seguito è un privilegio che può diventare una sventura. Ma, soprattutto, che il problema non è il nostro. E che nessuno può pensare, per quanto gradito alla piazza, di invocare repressioni a gratis o cullare il sogno di educare la propria gente. I soldi non trasformano un manager in Maria Montessori, e noi in suoi allievi. Il nostro modo di seguire il Foggia è lo stesso da sempre. E non cambierà, per quante minacce o ricatti ci vengano propinati. 


Magari tutto questo avremmo dovuto dirlo all’indomani di Termoli, quando fummo usati come specchietto per le allodole in un gradevole banner da computer. Ma forse abbiamo pensato, sbagliando, che fosse così ovvio da non meritare una nota.  

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